
Accantonando il filone principale, le parentesi aperte sono essenzialmente due e nessuna può dirsi particolarmente riuscita. Nella prima vediamo Eugene, rinchiuso in una prigione infernale che è una via di mezzo tra un carcere nordcoreano e il collegio di una commedia erotica degli anni Settanta, costretto al continuo reiterarsi del giorno più orribile della sua esistenza. Sul giudizio finale riguardante l’idea di mantenere intatto il focus sul ragazzo, col rischio di trascinarsi un personaggio slegato dalla storyline più importante, influirà la capacità creativa del comparto di scrittura nell’inventare e delineare un mondo senza sfociare in metafore, simbolismi ed interrogativi amletici che non appartengono né possono appartenere a Preacher. Allo stesso tempo non si deve neppure accarezzare l’idea di prendere sul serio (anche solo come una provocazione) la visione di Dio e dell’universo mistico che lo circonda; si tratta piuttosto dell’esagerazione più totale, del ribaltamento di ogni canone e categoria. Solo avendo ben presente questo filtro possono essere accettati i problemi logistici dell’inferno o l’introduzione di una figura controversa come quella di Hitler – per di più se dipinto come un uomo gentile, dall’animo riservato, sensibile ed artistico .

Nonostante le sequenze facciano poco per rendersi accattivanti riescono comunque a fornire spunti sulla natura del rapporto di coppia tra Jesse e Tulip. La regia rende subito evidente il parallelismo tra il costante ripetersi della routine giornaliera e le reiterazioni infernali che affliggono Eugene e gli altri dannati. D’altro canto non sembrava necessario sottolineare ulteriormente la tossicità di un rapporto che ha nell’inabilità comunicativa il suo tratto fondante. Infantili e completamente rivolti verso se stessi, Tulip e Jesse non sentono il bisogno di aprirsi all’altro e la scena d’apertura di “Viktor” – in cui, mentre Jesse è sulla porta della casa di Denis, alle sue spalle, non visti, corrono i suv che tengono prigioniera Tulip – è la perfetta analogia di quanto detto.
Se una regia ispirata e la solita discreta interpretazione dei protagonisti – non si riesce mai a capire se le lacrime di pentimento di Ruth Negga siano vere o contraffatte – non sono sufficienti a rendere piacevoli gli episodi, significa che il problema di scrittura, finora stemperato dalla spettacolarità dei combattimenti e dall’attitudine all’esagerazione, da pagliuzza che sembrava si è rivelato essere una trave. Nonostante non manchino attimi di divertente frenesia (su tutti il combattimento sulle note di “Uptown Girl” di Billy Joel e Frank Muniz che si prodiga per gli sfollati di Katrina), l’assenza di un momentum attorno a cui strutturare gli episodi e la contemporanea, esasperante lentezza con cui procede la ricerca di Dio fanno emergere le debolezze di Preacher, anche quelle che i primi schizofrenici appuntamenti della stagione avevano ricacciato a pedate sotto la superficie.

“Viktor” e “Dallas” sono quindi un pericoloso passo indietro che rende evidente ciò che lo show potrebbe diventare in senso negativo. In attesa di sviluppi che diano vivacità e un corso ben definito al prosieguo, dobbiamo affidarci al Santo degli Assassini perché riporti un po’ di scorrettezza, brutalità e furore nella narrazione.
Voto “Viktor”: 6
Voto “Dallas”: 5+

Parzialmente d’accordo con la recensione. Vero è che alcuni episodi paiono messi lí per allungare il brodo mentre nel fumetto tutto procedeva come un meccanismo oliato e che il rischio TWD è sempre dietro l’angolo. Però onestamente io questo calo devastante non l’ho avvertito. Diciamo che dal 9 della prima puntata e dagli 8 delle altre qui siamo sul 7. La flessione c’è ed anche pericolosa ma nulla è perduto.