She’s Gotta Have It – Stagione 1


She's Gotta Have It - Stagione 1She’s Gotta Have It è un trattato gioioso, serio e consapevole sugli effetti della società, sulle persone che la abitano, sulle loro relazioni, sui ruoli imposti e sulle scelte individuali. Il focus d’interesse della serie è la classe media afroamericana di un particolare quartiere di Brooklyn in preda alla gentrificazione. Non si tratta di uno show infallibile nella sua variopinta e stratificata disamina, ma possiede la bellezza dei gesti spontanei e la carica di quelli molto decisi.

Prodotta, coscritta e completamente diretta da Spike Lee, She’s Gotta Have It è il remake seriale del primo, omonimo, film del regista: un esordio dall’impronta autoriale evidente da cui lo show eredita e sviluppa molti tratti formali. Le caratteristiche ricorrenti sono l’intimità formata del botta e risposta tra lo spettatore e gli attori (spesso rivolti in camera); l’intreccio tra l’accuratezza propria del genere documentario e l’estroversione dell’impianto scenico teatrale; le scritte, le frasi, gli iper-testi e i campionamenti in sovrimpressione sul girato; i cartelli dei pezzi della colonna sonora, strepitosi e fondamentali per l’interpretazione di molte scene.

La serie è affamata di acrobazie estetiche e il risultato è la formazione di un tessuto visivo atipico ed entusiasmante che unisce la narrazione della storia all’esperienza extra-narrativa dello spettatore, continuamente coinvolto nella formazione di un processo creativo che sembra costruirsi mentre lo si guarda. È palpabile la presenza di una dimensione artigianale nel racconto, di una bollente passione per le storie e di una grammatica visiva personalissima: chiunque guardi la serie non può che trovarsi avvolto dal turbine ispiratissimo dell’autore e non può non confrontarsi con un catalogo di contenuti importanti sotto tutti i punti di vista.

“Your gaze hits the side of my face” Barbara Kruger

La storia di Nola non è però – come si potrebbe dedurre dal primo episodio molto introduttivo – un concerto di visioni soggettive dirette e orchestrate per disegnare il profilo di una sola persona, che allo stesso tempo contraddice continuamente quanto detto dagli altri, creando una distanza netta dalle loro visioni e dai loro modi di essere e giudicare le persone. La rottura di una narrazione di questo tipo avviene grazie all’episodio di violenza subito da Nola: è l’evento che sposta sullo sfondo le visioni soggettive, fa prendere una posizione (umanitaria) e suscita un risveglio nella consapevolezza verso l’esistenza di una realtà ben precisa.

She's Gotta Have It - Stagione 1Lo show assume una posizione “esterna” rispetto a quanto narrato per esaminare il comportamento dei personaggi ed evidenziare – analizzando le loro azioni – le frequenti falle di un sistema sociale particolarmente legato e ammorbato da forme di imperfezioni morali nascoste, come il maschilismo e il sessismo. L’aggressione subita da Nola non conta del nostro grado di empatia per i personaggi e non perde tempo a presentare le varie versioni dei fatti; riproduce invece un episodio senza assumere posizioni per far confrontare direttamente gli spettatori con l’esistenza di un malessere diffuso e viscerale.

In una continua e instancabile ricerca di cause ed effetti degli eventi, She’s Gotta Have It sfrutta una narrazione apparentemente semplice (la storia di una giovane donna e delle sue relazioni) per dimostrare l’assenza di banalità di qualsiasi sistema umano e di qualsiasi situazione che coinvolga la moralità, l’eticità e i diritti; lo fa mantenendo un punto di osservazione sopraelevato rispetto ai personaggi ma anche impostando per necessità la narrazione attraverso l’azione dei personaggi; azione che per i personaggi combacia con l’analisi di se stessi e delle proprie azioni o con il giudizio degli altri e delle loro azioni.

“Beauty is only skin deep” Barbara Kruger

Il lavoro nel mondo dell’arte è uno dei tasselli fondamentali per comprendere la personalità e le aspirazioni di Nola: nel corso degli episodi vediamo la sua crescita attraverso il dipingere, il partecipare a una mostra, il presentare i propri lavori. Esprimendosi spesso in forma autoritrattistica, l’atto artistico è un passo che il personaggio compie per conoscersi meglio e per esprimere la propria persona. La serie sottolinea la natura politica e sociale del processo creativo: l’accettazione di sé, del proprio corpo e della propria cultura passa attraverso l’autorappresentazione e viceversa, in un tuttotondo studiato per scolpire il carattere di Nola, che si arricchisce di sfumature perché definito nei dettagli.

She's Gotta Have It - Stagione 1Per contro il prodotto di Netflix tratta anche la non-accettazione del proprio corpo, mettendo in scena il desiderio di cambiamento fisico anche come scelta disperata di fronte alla costante presenza di pregiudizi sociali volti a far sentire i corpi femminili perennemente in difetto. La storyline dedicata alla chirurgia plastica di Shamekka però non deve essere vista come una struttura calcolata per rivelare la superiorità di chi accetta il proprio corpo e nemmeno il torto di chi è intenzionato a modificarlo. Esattamente come per l’aggressione di Nola, la serie non prende posizioni di questo tipo e non si allinea ai suoi personaggi: denuncia invece la pericolosità di una società capace di convincere gli individui a cambiarsi per essere conformi ai criteri del mercato della bellezza e capace di mettere le donne sul palco per guardarle e oggettivizzarle come forma di spettacolo.

Ancora una volta la scrittura della serie schiva le facilonerie e riproduce la complessità del reale, senza però contare del grado di empatia per i personaggi coinvolti. Nola, Shamekka, Raqueletta Moss e altre – per concentrarci sulle figure femminili soltanto – non sono necessariamente simpatiche o esemplari, non devono esserlo: sono il riflesso di quella complessità e pertanto abbracciano anche lati comportamentali discutibili. La serie racconta così la difficoltà di vivere in una sfera sociale continuamente attaccata da numerose insidie senza mai difendere i personaggi o far passare inosservati i loro difetti: il coinvolgimento dello spettatore, inoltre, non è filtrato dalla partecipazione emotiva ed è libero di confrontarsi con il peso della vicenda raccontata.

Ma la serie non si ferma qui e affianca all’analisi del soggetto anche la disanima dello sguardo altrui, che spesso corrisponde a quello di tre uomini accomunati dal legame con Nola. Il vestito nero che Nola indossa tre volte in tre appuntamenti diversi è funzionale allo studio delle reazioni di Mars, Greer e Jamie, i quali guardano l’abito senza considerare la giovane donna e le sue intenzioni. Nola viene ridefinita da un capo d’abbigliamento che dovrebbe essere parte della risonanza della sua personalità e che invece viene puntualmente frainteso.

She's Gotta Have It - Stagione 1La critica non si limita però al mondo maschile. Se gli sguardi egoriferiti dei tre sono sintomatici di una realtà costituita da mentalità imbrigliate da un tossico maschilismo, anche le figure femminili sono partecipi di commenti e giudizi, in questo caso inquinati da un forte moralismo: Opal presenta a Nola un ventaglio di giudizi personali paternalistici per cercare di responsabilizzarla; Clorinda giudica la vita privata della protagonista e si prodiga in consigli non richiesti; Nola stessa giudica le sue amiche continuamente. Nessun personaggio è esente da difetti e tutti si impegnano per sottolineare quelli degli altri: è uno schema molto equilibrato dove l’unico a vincere è lo spettatore, testimone della lucida analisi del regista.

In un contesto così pregno di significati non sorprende che la serie, per mantenere un autocontrollo narrativo, si focalizzi sul rapporto con le parole utilizzate, con l’ipocrisia del mondo dell’arte, l’immagine della bellezza fisica, la politica, l’identità civica e le scelte. Sono tutti aspetti fondamentali dell’affresco costruito e tutti tasselli usati come coordinate attraverso cui raccontare le forze in gioco di un particolare ambiente, in dieci puntate in cui – pur con qualche disattenzione nel disegno di alcuni personaggi secondari – il racconto è stato l’eccellente veicolo di contenuti oltremodo attuali.

She’s Gotta Have It è, per questi motivi, un prodotto in grado di esaltarsi grazie alla sua urgenza contenutistica e alla sua narrazione visivamente portentosa. L’incontro con temi fondamentali e la modalità di racconto inusuali sono motori trascinanti per una narrazione oculata e attenta alla formazione di un’analisi sfaccettata di un ambiente estremamente particolare. La serie può fregiarsi quindi di una personalità forte e di un livello qualitativo alto anche nel confronto con le molteplici eccellenze prodotte quest’anno, grazie alla capacità di raccontare con flessibilità, ardore e ritmo l’universale e il particolare di temi di importanza primaria.

Voto:  8½

 

 

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Informazioni su Leonardo Strano

Convinto che credere che le serie tv siano i nuovi romanzi feuilleton sia una scusa abbastanza valida per guardarne a destra e a manca, pochi momenti fa della sua vita ha deciso di provare a scriverci sopra. Nelle pause legge, guarda film; poi forse, a volte, se ha voglia, studia anche.

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