
L’intento di approcciarsi alla realtà contemporanea con un taglio dichiaratamente fantapolitico ha spesso indotto gli autori della serie a costruire le ultime annate in maniera quasi antologica, in modo da poter allargare il più possibile lo spettro d’indagine. Questa stagione invece sembra una sorta di ritorno alle origini, nel senso che prosegue linearmente la narrazione a partire dallo scorso season finale, ma pare anche inaugurare un nuovo corso dello show: per la prima volta il nemico da combattere sembra essere interno allo Stato. Carrie Mathison, fulcro propulsore del racconto, è sempre stata – anche quando non lo era più – un’agente della CIA, agenzia governativa che per definizione ha il ruolo precipuo di operare all’esterno dei confini statali; a rigore di ciò le tematiche narrate hanno sempre avuto uno stretto legame con criticità e nemici provenienti dall’esterno.
Questo cambio di rotta, oltre a sviluppare una coerenza interna al racconto e all’evoluzione della protagonista, riesce anche a dare appello a una sensazione dominante nel nostro oggi: la degenerazione del meccanismo di terrore instauratosi a partire dall’11 settembre 2001 ha creato terreno fertile per il ritorno di un anacronistico totalitarismo? È solo una sensazione, oppure farsi questa domanda è semplicemente un meccanismo di difesa per non accettare che stia succedendo davvero?
Il finale della scorsa stagione e questa premiere tessono le fila di un racconto che prova a dare uno scenario concreto a queste domande, ponendo un’ulteriore questione: il vero nemico dello Stato è lo Stato stesso? Ma cosa ancora più interessante è che tutto ciò viene analizzato anche attraverso le derive che tali timori creano all’interno del tessuto politico e sociale: la ricerca spasmodica della verità – intesa come concetto assoluto – e la tendenza a cedere a un cospirazionismo fine a se stesso. Usare questa duplice prospettiva narrativa – analizzare i timori e la loro degenerazione – è stata una delle più importanti intuizioni della scorsa annata, purtroppo sviluppatasi solo sul finire della stagione; se – come questa premiere sembra confermare – ci si addentrerà in questa modalità narrativa, magari perfezionandola, Homeland potrebbe davvero iniziare un suo nuovo corso, potente quanto il primo, ma forgiato e spossato dal peso dei sette anni trascorsi.
You better hope it’s your illness.

Carrie sembra come sperduta in un bipolarismo non solo clinico, ma emotivo, una sorta di crisi esistenziale dovuta alla perdita di tutti i suoi punti di riferimento: lo Stato, la democrazia, la CIA, Saul e soprattutto Quinn. Dato che per tutto l’episodio non c’è un solo riferimento alla morte di Quinn, è difficile pensare che sia una scelta narrativa fine a se stessa, quando sembra invece un’omissione tesa ad amplificarne l’assenza: il silenzio su Quinn è come un urlo soffocato che si propaga attraverso la frenesia con cui Carrie compie più di uno sbaglio, quell’agitazione che la porta ad agire – sebbene in maniera speculare – con la stessa qualità energetica che connatura l’ansia di ‘giustizia’ della Presidente. Entrambe sono alla ricerca della verità, ma entrambe la cercano con una assolutezza che ne snatura il valore. È come se tutto fosse diventato una questione personale: l’attentato alla sua vita per la Keane e la perdita di Quinn per Carrie sembrano a volte più importanti di quel senso di giustizia invocato da entrambe.
What was under attack that day wasn’t just me or the office of the Presidency, but our very democracy
itself.

L’evoluzione di Madame President è tutt’altro che lineare, e – sebbene la sua caratterizzazione pecchi di alcune frettolosità riscontrate nella scorsa stagione –, è difficile pensare che la linea di governo paventata agli esordi non sia il suo reale obiettivo; tuttavia la piega presa dal corso degli eventi ha instillato una radicale mutazione, non d’intenti ma dei mezzi utilizzati per ottenerli, snaturando completamente il valore delle sue stesse intenzioni. Non c’è alcuna lucidità nelle sue azioni, e – soprattutto alla luce del finale dell’episodio – non le è rimasto neanche un minimo di umanità. Se è vero che per costruire bisogna distruggere, la Presidente ha forse dimenticato di chiedersi: con quale criterio? A quale prezzo?
Put the country first.

Per quanto questo episodio conservi il carattere proprio di un inizio di stagione, l’aver creato un continuum diretto con lo scorso season finale dà alla narrazione un ritmo più sostenuto rispetto alle premiere delle ultime annate della serie.
“Enemy of the State” è un episodio introduttivo, cadenzato, ma allo stesso tempo atto a ridefinire le posizioni nello scacchiere di un conflitto che ha le qualità necessarie per erompere in tutta la sua potenziale forza. Tuttavia, la chiave dei possibili dubbi su questa nuova annata sta proprio nell’aggettivo ‘potenziale’, perché, sebbene sia troppo presto per poter additare difetti, resta il timore che, ancora una volta, Homeland possa sprecare delle buone intuizioni peccando in una grossolana realizzazione.
Voto 7+
