Il ritorno della serie capitanata da Drew Barrymore e Timothy Olyphant (una coppia che fino a poco tempo fa ci sarebbe sembrata improbabile, e che ora ci fa chiedere “come sia possibile aver vissuto senza”) portava con sé un’enorme aspettativa: mantenere intatto l’interesse nei confronti di un argomento simile conservando allo stesso tempo quel mix di atmosfere horror e splatter, ironia e riflessione sociale che aveva caratterizzato, con discreti risultati, la prima stagione. Questa seconda annata riesce nella maggior parte dei suoi intenti, lasciando tuttavia il fianco scoperto ad altre parti non così accuratamente seguite.
Lo scorso season finale si chiudeva con i protagonisti in una condizione di stallo, in cui la gestione di Sheila sembrava ormai impossibile e i tre componenti della famiglia Hammond apparivano più separati che mai. Questa seconda stagione si libera in fretta dei rimasugli della precedente, non solo risolvendo rapidamente le situazioni più critiche (Joel nell’ospedale psichiatrico), ma soprattutto liberandosi del problema che aveva guidato tutta la prima annata, ossia il peggioramento di Sheila. Se quest’ultimo era infatti un tema già affrontato, e se la guarigione risulta impossibile per questioni strettamente narrative, ecco che Santa Clarita Diet necessita di trovare il suo nuovo obiettivo, che rivela praticamente subito e in modo molto chiaro, quasi da studente modello: la tematica dell’annata diventa quella della ricerca del “new normal”, del modo con cui Sheila e tutta la famiglia Hammond possono provare a vivere questa nuova vita ora che non bisogna più correre per fermare l’inarrestabile deterioramento della donna; ad accompagnare questa riuscitissima sezione, abbiamo anche un’altra, inevitabile tematica che compare alla fine dell’emergenza, ossia la ricerca delle cause.
È su questi due punti che si costruisce l’intera stagione, che utilizza la ricerca del contagio come elemento principale a livello narrativo e tutto il resto come supporto alla storia, ai personaggi, alle loro interazioni. Curiosamente, è proprio la parte narrativa quella che presenta più pecche, mentre la rappresentazione del mondo di Santa Clarita e soprattutto dei nuovi Hammond prende tutto ciò che di positivo era stato fatto lo scorso anno e lo porta ad un livello superiore, con un’analisi dei personaggi e di certe tematiche sociali (sessismo introiettato, accettazione di sé, logorio della vita moderna) da fare invidia a serie ben più blasonate di questa.
I don’t know honey, we have a lot on our plate, I don’t want to be opening up a finishing school for the undead.
La ricerca della bile e il conseguente stop al peggioramento di Sheila consentono quindi alla trama di progredire nelle direzioni sopracitate, che partono ironicamente da uno dei personaggi più bizzarri della scorsa stagione, la commessa Ramona. Scoprire che anche lei è una non-morta è la causa dell’effetto domino che conduce gli Hammond ad indagare sia su altri casi simili che sui fattori comuni del contagio, avendo davanti agli occhi un obiettivo davvero non comune per degli agenti immobiliari – comunque pronuncino la propria professione: salvare il mondo prima che l’epidemia dilaghi e l’umanità si faccia a pezzi a vicenda.
Avere un piano simile e contemporaneamente cercare di portare avanti le proprie vite (come professionisti, genitori, coppia) è un tipo di narrazione piuttosto classico quando si ha a che fare con vite/identità nascoste, ma il modo in cui viene affrontato rappresenta la vera differenza rispetto ad altri show: l’alchimia tra Drew Barrymore e Timothy Olyphant è la colonna portante di una serie di gag che in altre mani non avrebbero di sicuro lo stesso effetto, e Liv Hewson nei panni della figlia Abby si rivela anche quest’anno l’aggiunta perfetta per equilibrare l’effetto comico con potenti iniezioni di realtà e, talvolta, qualche personale aggiunta violenta o particolarmente intuitiva.
Il ritorno di Gary (Nathan Fillion), o meglio, della sua testa, si rivela poi la carta vincente di un gruppo che cerca a tutti i costi di indagare su un caso impossibile partendo da pochissimi dati e dalla fortuna di avere un vicino di casa super-nerd come Eric, in grado di aiutare il gruppo a scoprire le origini del contagio. Se sulla carta, quindi, tutto sembra funzionare bene – l’ensemble è ben assortito, le dinamiche tra i personaggi studiate quasi al millimetro per mettere in scena tutte le possibili sfumature che intercorrono nei rapporti di lungo e nuovo corso –, è proprio la resa del plot a porgere il fianco alle critiche, a causa della sua realizzazione verso la fine per certi versi davvero banale.
È evidente come l’aggiunta di Paul e Marsha – l’altra strana coppia alla ricerca di bile serba, altri non-morti e vongole contaminate – sia orientata verso uno sviluppo appropriato nella terza stagione, ma questa non può essere una scusa sufficiente per il suo discutibile utilizzo in questa annata. I due compaiono infatti solo in pochissimi momenti cruciali e in particolare nel finale, quando il loro intervento in “Halibut!” si rivela un vero e proprio deus ex machina che toglie le castagne dal fuoco agli Hammond, risolvendo il problema della distruzione delle vongole infette al posto loro.
A questa parte della trama non particolarmente riuscita, si aggiunge la chiusura della storyline legata al vice-sceriffo Anne Garcia, che tallona gli Hammond per tutta la stagione con risvolti talora un po’ ripetitivi – ad esempio il fatto che siano sempre Sheila e Joel a suggerirle involontariamente di proseguire con il caso –, ma che spesso conducono nelle loro conseguenze a momenti esilaranti (basti pensare al tango e al suo “utilizzo” nell’uccisione del colonnello Thune in “Pasiòn”). Tuttavia, l’ultima puntata finisce con il banalizzare il suo intero percorso, sfruttando la sua credenza religiosa per eliminarla come minaccia e farla diventare in futuro un potenziale alleato degli Hammond.
Il materiale per un buon plot in questa annata c’era senza dubbio (la storia, il cast, i vari step che portano alla scoperta degli altri non-morti e al motivo del contagio), ogni tassello della storia conduceva al successivo in modo naturale e ben studiato; tuttavia, la risoluzione della storia non ha reso giustizia al suo percorso, finendo con l’abbassarne il livello in maniera significativa.
“Are you under stress?”
“A little. I’m working on a project with my boss, and he doesn’t like the newer, bolder me. So, I’m trying to act like old Sheila, when, really, all I wanna do is snap off his jaw and feed him his balls.”
A livello tematico, invece, la seconda stagione di Santa Clarita Diet si rivela ancor più riuscita della prima, già stratificata, annata; ai temi già trattati relativi all’accettazione di sé, al cibo come ossessione e alla crisi di una società borghese contemporanea privata delle certezze che poteva avere fino a un paio di decenni fa, si affiancano in maniera ben più decisa altre questioni, che vengono analizzate da più punti di vista e in modi differenti, risultando così pilastri fondamentali della stagione e non semplici spunti tematici di contorno.
Fra i più importanti troviamo il sessismo interiorizzato da parte della società, soprattutto quello che vede ancora nella donna l’idea di un individuo sottomesso e sorridente, incapace di portare idee proprie che abbiano più valore di quelle di un uomo; in questo scenario si inquadra Carl, il capo degli Hammond, il cui approccio nei confronti di Sheila è ancora più irritante di quanto potremmo aspettarci, ma per un motivo narrativo ben preciso. Lo stress lavorativo, le conseguenze psicosomatiche che ne derivano, gli attacchi d’ansia o quelli di rabbia sono sintomi di una malattia contemporanea che viviamo tutti di questi tempi, e che la serie decide di portare sullo schermo applicandola alla situazione ribaltata che riguarda Sheila. Sappiamo infatti dalla prima stagione che il contagio ha avuto anche conseguenze positive, portando la donna a diventare esattamente quello che voleva essere (più sicura di sé, coraggiosa e capace di riconoscere i propri meriti); qui vediamo come fingere di essere quella che era un tempo sia una cosa che il suo corpo rifiuta, mandandola in tilt (prima le unghie, poi l’occhio, infine il totale blackout). Il messaggio che passa quindi non solo è legato al sessismo, ma si intreccia con molti altri temi, dal lavoro allo “stress-eating”, dall’ansia come malattia del nostro tempo all’importanza della diversità di ognuno di noi – non bisogna infatti dimenticare che la calma e pacata Ramona è così proprio perché questo era il suo desiderio: vivere lentamente, senza eccessi o turbamenti. Il rispetto di ciò che si è, da parte di se stessi e degli altri, è quindi un messaggio fondamentale nella serie, forse quello più importante (e le dimissioni di Joel in “Easels and War Paint” a seguito del licenziamento di Sheila stanno ad indicare proprio questo: nessuno deve accettare alcuna forma di maschilismo, né donna né uomo).
È evidente come il tono ironico, accompagnato da momenti splatter (comunque meno frequenti rispetto alla prima annata), riesca a far passare tutti questi argomenti in maniera molto più fluida, ma non per questo possono essere considerati di minore impatto. A questo proposito, risulta esilarante e al contempo profondamente azzeccato lo scambio nel penultimo episodio, “Suspicious Objects”, in cui la natura femminile o maschile delle vongole – data per scontata da Joel nel primo caso, da Abby nel secondo – viene usata per far riflettere in modo divertente, ma tutt’altro che stupido, sull’automatismo di certi collegamenti mentali.
The only things I believe in enough to put on a pillow are “I’m winging it”and “All races taste the same”
Altro tema molto trattato è quello del razzismo, che si inserisce in questa stagione con il dilemma morale relativo all’uccisione di persone non semplicemente colpevoli di qualche reato, ma addirittura di adesione agli ideali nazisti di superiorità della razza. È una tematica interessante, al di là della sua apparente banalità, perché si lega alle altre questioni già dibattute e lo fa in modo intelligente: l’accettazione di sé e degli altri deriva dall’accettazione di ciò che è diverso da noi, quindi il rifiuto di ogni forma di razzismo non può che inserirsi in questo contesto in modo coerente e sensato. Nonostante Sheila sia costretta ad uccidere persone per poter sopravvivere, il blocco dell’aggravamento del virus ha mantenuto intatta la sua morale, che è quindi in grado di discernere comportamenti giusti da violenze sbagliate: in questo senso risulta ben centrata anche la questione di Abby e dell’aggressione nei confronti di Christian, figlio di quei Chris e Christa (Joel McHale e Maggie Lawson) nemici storici degli Hammond.
La possibilità che la figlia possa subire conseguenze devastanti a causa di quanto sta accadendo con Sheila è un elemento ricorrente nella stagione, e la preoccupazione riguardo ai suoi scatti d’ira ricorda come la coppia degli Hammond, benché strampalata, non smetta mai di essere anche una coppia di genitori; e al contempo, Abby, rara immagine in una serie tv di ragazza adolescente non detestabile (anzi!), appare come ancora più responsabile del suoi genitori, ma non così troppo da perdersi le fasi della sua età, dalle cotte agli innamoramenti, dalle svolte idealistiche personali (come appunto la vendetta nei confronti di Christian) a quelle socio-ambientali, come quella di cui si rende protagonista insieme ad Eric. Se è fuor di dubbio che quest’ultima sottotrama abbia occupato fin troppo tempo nell’economia del racconto – perché serviva come “segnale” per Anne a fine stagione –, è vero che ha comunque contribuito a disegnare in maniera molto più approfondita due adolescenti come Abby e Eric, diversissimi tra di loro e unici proprio per questo.
Questa stagione di Santa Clarita Diet rappresenta una sostanziale conferma per la serie, proprio alla sua prova più difficile – come per ogni show, la seconda annata risulta determinante nel decretare la solidità dell’impianto globale. Purtroppo non si può soprassedere su alcune scelte di trama discutibili che abbassano in parte il livello generale; tuttavia, non si può nemmeno ignorare come tutto il resto sia orchestrato quasi alla perfezione, con una solida alternanza tra momenti seri e divertenti, scene splatter e più emotive, che consolidano – ciascuna a modo loro – i rapporti tra i personaggi. Grazie inoltre ad attori che insieme danno davvero il loro meglio (Barrymore, Olyphant, Hewson), possiamo dire che questa stagione sia stata una vera sorpresa, e che se la serie verrà rinnovata – non ci sono conferme, ma visto il finale ci sono buone speranze – avrà il compito obbligatorio di essere più completa a livello di trama e quello, ancora più difficile, di mantenere o superare il multilivello di scrittura raggiunto con questa.
Voto: 7/8