Potrà sembrare un mantra utilizzato per riempire le introduzioni ma le novità di cui essere entusiasti in questi primi mesi del 2018 possono contarsi sulle dita di una mano, al massimo una mano affetta da polidattilia. Tra queste c’è indubbiamente Barry, comedy di HBO prodotta da Alec Berg e Bill Hader.
La prima questione da affrontare parlando di Barry è quella relativa alla sua identità: considerata comedy dalla critica e dagli aggregatori televisivi, è in realtà uno di quei prodotti ibridi e sfumati che si divincolano dalle categorizzazioni. Questo avviene a partire dal formato (episodi da trenta minuti che meriterebbero una maggiore dignità all’interno del panorama seriale) che sottolinea ancora di più l’essenza intermedia di Barry, né comedy né drama, che, pescando da entrambi i lati della barricata, definisce un linguaggio proprio.
You want a hobby. You could take up something, painting maybe. Hitler painted. So did John Wayne Gacy.
Il centro da cui si irraggia il racconto è il protagonista che dà il nome allo show. Barry Berkman/Block è il risultato dell’amalgama di due stereotipi: da una parte il reduce di guerra traumatizzato che sfoga la PTSD nell’attività di sicario, dall’altra l’uomo normale, anzi banale e anonimo, privo di guizzi e senza punti di interesse. Non si tratta della decisione consapevole di mantenere un basso profilo vista la pericolosa attività fuorilegge, ma di una scelta precisa della scrittura che, mettendo in scena un personaggio svuotato, privo di personalità e carattere, lo rende tela immacolata per uno spettatore centrale nel processo costruttivo della narrazione. Barry non ha un passato e sta al pubblico proiettare sullo spazio bianco la propria interpretazione; proprio in questa peculiarità sta la principale differenza tra Barry e Patriot, altra sorpresa dello scorso anno a cui lo show di Berg e Hader è stato accostato. Stante la medesima vocazione plot driven, è diverso il processo di caratterizzazione ed introspezione, con la depressione di John Tavner che era un aspetto fondamentale nella tessitura del racconto.
Barry, al contrario, non ha famiglia, non ha amici e l’unica persona presente nella sua vita approfitta di lui sfruttandone le abilità; non sembra avere un vissuto, sembra trapiantato su questa terra, proveniente da un’altra dimensione, in occasione del pilot. L’arco narrativo che lo contraddistingue ha inizio con il corso di recitazione ed è importante notare come non sia un percorso di redenzione ad interessare le menti dietro la scrittura. Non è un caso che lo stesso Berg abbia fatto a suo tempo del team creativo di Seinfeld che, con il proverbiale “no hugging, no learning” sanciva l’immobilità irreversibile dei propri personaggi, incapaci di imparare dalle proprie esperienze e rendersi protagonisti di un percorso migliorativo.
Questo è quanto emerge dalla conclusione delle vicende stagionali di Barry, su cui la catarsi emotiva ha prodotto una maggiore consapevolezza ma non è riuscita a cambiarne l’approccio al mondo. Il protagonista è sovrastato dalla normalità e non è in grado di confrontarvisi, allo stesso modo in cui non è in grado di sostenere con scioltezza una conversazione – o non sa scegliere l’outfit per una serata – e gli unici momenti in cui appare veramente a suo agio sono quelli in cui deve togliere la vita ad altre persone, occasioni in cui l’ordinarietà del ciclo vitale è sovvertita. È interessante, da questo punto di vista, l’incompatibilità fisica tra Barry e l’attività di sicario, di efficiente portatore di morte. L’omicidio non ha nulla di sconvolgente, e il protagonista uccide allo stesso modo in cui un contabile sbriga le pratiche più urgenti.
You know the song ‘Fly Like an Eagle’ Performed by Seal on the Space Jam soundtrack?
Al di là delle escursioni drama che raggiungono il picco in “Loud, Fast and Keep Going”, Barry non lascia mai indietro l’impianto comedy su cui è costruito e struttura la propria comicità attraverso una relazione diretta con lo spettatore. La principale fonte di divertimento scaturisce proprio dal rapporto malsano con il mondo vissuto dal protagonista: attraverso i cambi di tono e le situazioni surreali lo show gioca con le aspettative del pubblico, al cui sovvertimento contribuiscono la teatralità di Gene Cousineau (Harry Winkler), l’estemporaneità di Noho Hank (Anthony Carrigan) e la presenza scenica di Goran Pazar (Glenn Fleshler), un Tony Soprano Ceceno.
Ad un livello superiore la posta è più alta e coinvolge direttamente il messaggio di fondo; le fantasticherie di cui si nutre l’immaginazione di Barry educano lo spettatore a non fare affidamento sulla felicità e sul lieto fine e i frutti di questa scelta vengono raccolti nel corso dell’ultimo episodio, “Know Your Truth”. Il climax finale viene rifiutato in maniera esplicita e la risoluzione fin troppo semplice delle controversie agisce come un riflesso condizionato pavloviano: l’atmosfera idilliaca della casa delle vacanze instilla la convinzione di stare assistendo all’ennesima fantasia del protagonista e che la caduta sia imminente. Non è così e il pubblico impatta violentemente contro l’ambiguità morale che, fino a quel momento, aveva attraversato sottilmente gli episodi.
Starting… Now.
La detective Moss è una brava donna e un’ottima investigatrice che ha inaspettatamente trovato la felicità nell’istrionismo affettuoso di Gene, eppure, a causa dell’investimento emotivo e interpretativo richiesto dal personaggio di Barry, ci si ritrova a fare il tifo per quest’ultimo, a sperare che il percorso di maturazione in cui abbiamo creduto non sia interrotto da una banalità come la giustizia. Gli attori dello scontro sono il dovere kantiano della detective – costretta a sovvertire lo stato positivo delle cose in nome di quello in cui crede – e l’ambiguità morale di un personaggio che crede di poter plasmare l’etica a proprio piacimento ed è convinto che in qualsiasi momento sia possibile ricominciare da capo, senza affrontare le conseguenze delle proprie azioni. L’esito della battaglia è scontato e insiste ancora una volta sull’impossibilità di un lieto fine per tutti, buoni e meno buoni.
Il valore di Barry può essere misurato a partire dall’efficacia con cui coagula il racconto d’azione drammatico con l’anima frizzante e surreale delle comedy più sofisticate. Il risultato è un prodotto che ha punti di contatto con il cinema di McDonagh e, più in generale, con la tendenza recente ad affidare il ruolo di protagonista a personaggi moralmente compromessi e tormentati, antieroi ambigui per cui simpatizzare ha conseguenze dolorose per lo spettatore.
Barry è, insieme a Killing Eve, la novità più interessante dell’anno perché è subito evidente l’unità di intenti al momento della scrittura – il fatto che uno dei produttori sia anche il protagonista rende il passaggio dall’ideazione alla realizzazione ancora più fluente – che dona allo show un’anima singolare e coesa; non ci sono episodi improvvisati o indipendenti e ogni sequenza è legata a doppio filo alle altre. Le stesse gag si inseguono e si completano nel corso di più episodi (da sottolineare quelle sull’altezza dei boliviani che, all’interno delle nazionalità censite, sono effettivamente al penultimo posto per statura media) donando allo show un’interconnessione tra le parti che rende la visione piacevole e divertente. A tutto ciò bisogna aggiungere le prestazione degli attori – con la sola Sarah Goldberg a non raggiungere il livello dei colleghi – e la marcata impronta registica di Berg, oltre alla vivacità espressiva del sempre più apprezzabile Hiro Murai. Già rinnovato per una seconda stagione, Barry è la grande sorpresa di questo 2018.
Voto: 8
La seconda serie che guardo nel giro di una decina di giorni che ha il formato dei 30 minuti, dopo Homecoming. Entrambe belle, in modo diverso. Questa l’ho trovata davvero divertente, nonostante tutto. Grazie della segnalazione, Davide.