
Un errore non qualifica un autore, ovviamente, ma è parso chiaro quanto la fretta di buttarsi su un nuovo progetto abbia leso quello stesso nuovo show, la cui originalità in altri momenti avrebbe potuto regalare molto alla televisione; colpisce quindi, per contrasto, come questo spin-off arrivi dopo una lunga e ponderata pausa, dopo intuizioni (si parlava di questa serie da molto tempo, insieme ad uno show sui First 9) e rielaborazioni – più di un anno fa si è optato per un reshoot e un nuovo casting di alcuni personaggi. È con quest’aura di riflessione e di (dovuta) alta attenzione che arriva “Perro/Oc”, un primo episodio di circa 70 minuti che mette in scena un’operazione tutt’altro che semplice: ricordare le atmosfere di Sons Of Anarchy, quanto basta per giudicarlo uno spin-off, e allontanarsi abbastanza da rendere necessaria la scelta di raccontare questa storia, quella dei Mayans nel loro distaccamento del Sud della California.
[…] That shit is gonna bury us. I’m doing for the M.C. what it can’t do for itself.

Il protagonista, Ezekiel Reyes, detto E.Z., è un “prospect”, arrivato nel club attraverso il fratello Angel, dopo un passato in cui nulla faceva pensare a questa piega criminale nella sua vita: studente modello, finisce invece col prendere una brutta strada – per ora solo accennata attraverso i flashback – che lo porta dritto tra i Mayans, che iniziamo a seguire dal momento in cui entrano in conflitto con il cartello (e non solo).
Sembrerebbe una storia abbastanza tradizionale, ma ci sono ben due punti su cui la vicenda prende una svolta inaspettata: i veri motivi per cui EZ si trova tra i Mayans e una frattura all’interno dello stesso club, su cui non ci saranno specifiche per evitare spoiler.
Se il caso di EZ finisce col ribaltare completamente la visione di alcuni personaggi (lui stesso, ma anche il padre Felipe, interpretato da Edward James Olmos), la divisione all’interno dei Mayans viene fatta intuire praticamente subito ed è spiegata nel dettaglio in questo primo episodio, evitando dilatazioni misteriose che, ben lontane dal creare pathos, rischierebbero in questo caso di dare solo fastidio o di ricordare un vecchio modo di fare televisione, in cui il colpo di scena diventa la parte più importante. Ma non c’è solo questo. Le ragioni per cui il club non è così unito come ci si aspetterebbe rappresentano una rielaborazione in chiave aggiornata dei temi di Sons Of Anarchy, in cui, a fronte dell’ineluttabilità di certe scelte, a fronte di codici non scritti ma tatuati sulla pelle e nella mente e da cui non si può scappare, si contrappone subito un’altra via: un modo di tenere fede al club cercando tuttavia di salvarlo proprio da quegli schemi che sembrano destinati a ripetersi in continuazione, in cui gli errori di uno ricadono sull’altro in un vortice dal quale non si può fuggire. Il pilot, e in particolare il finale di questo episodio, mettono in chiaro come questo sia un mondo uguale ma anche molto diverso rispetto a quello che abbiamo lasciato a Charming: quei dogmi da cui allora non si riusciva a scappare vengono qui messi in discussione a partire dall’inizio e soprattutto dall’interno, e questo senza intaccare la fiducia nei confronti del club.
Sangre es sangre.

Partiamo dunque dall’inizio. Non c’è solo Kurt Sutter, la mente “genio e sregolatezza” che stava dietro Sons of Anarchy e che ha ideato questo spin-off: a creare la serie, insieme a lui, c’è Elgin James, musicista e regista dalla vita piuttosto controversa, che ha vissuto diversi anni in una gang e che ha nel suo passato anche un arresto per estorsione, a cui è seguito un anno di carcere. Melting pot culturale fatto uomo – le sue origini sono state per lui ignote fino a quando non ha conosciuto i suoi genitori biologici, scoprendo solo allora di avere radici irlandesi, americane, dominicane e native americane –, James (insieme ad una writers’ room messicana e messicana-americana) rappresenta forse la scelta più giusta attuata da Sutter per questa nuova serie: uno show che deve obbligatoriamente fare i conti con le diversità culturali di un luogo di frontiera, diviso al suo interno da un vero e proprio muro, a sua volta rappresentativo delle divisioni all’interno del club. Il confronto con un artista del genere non può che fare del bene all’idea di Kurt Sutter, che forse necessitava proprio di questo per mettere a fuoco il “progetto Mayans”.

Non mancano le violenze, le sparatorie, le ironie (la prima volta che vediamo i Mayans sono alle prese con coloratissimi vestiti, con ovviamente un ruolo ben preciso), gli intrecci complessi – ma comprensibili senza alcuna difficoltà –, insomma tutte quelle caratteristiche che hanno fatto grande Sons of Anarchy (e che, a volte, l’hanno anche resa più complicata di quello che doveva essere). Nonostante ciò, si sente sin da subito che abbiamo a che fare con uno show in grado di avere una sua autonomia, un suo spirito preciso e un suo mood, capaci di renderla riconoscibile e non solo “derivabile da” altro: non molti spin-off riescono in questa impresa, pochissimi ce la fanno così presto.
Voto: 7/8
