Arrivati alla fine dei dieci (lunghissimi) episodi di The Haunting of Hill House, non è davvero semplice fare un bilancio. Apprezzatissima da pubblico e critica, la serie ha seguito un percorso piuttosto unico, coraggioso e innovativo, per quanto non sempre perfettamente riuscito: se la commistione tra storia familiare e racconto gotico non è certo una novità, qui troviamo però un tentativo di elaborarla in maniera scoperta, mescolando i confini tra dramma e horror e ottenendo un prodotto che fa dell’ibridazione il suo punto di forza, ma come tutti gli show ibridi non sempre trova così facilmente una forma efficiente per esprimersi.
Ogni storia di fantasmi è, in fondo, una storia di elaborazione del lutto e The Haunting of Hill House affronta questo elemento fondativo esasperandolo, scoprendo le carte della metafora e conducendoci alla radice degli incubi notturni, ovvero i traumi reali. Trasformando il libro di Shirley Jackson da storia di un esperimento psichico a vera e propria vicenda famigliare, Flanagan è riuscito ad intensificare i temi originali (le memorie che restano vive all’interno di una casa, i traumi infantili che influenzano le vite adulte e l’insondabile linea di confine tra soprannaturale e malattia mentale), esplorandoli di volta in volta sia attraverso le dinamiche di gruppo sia attraverso le singole esperienze dei membri della famiglia Crain.
A partire dal primo episodio infatti, la serie ci introduce differenti punti vista rispetto alla stessa storia: dopo Steve è la volta, nell’ordine, di Shirley, Theodora, Luke e infine di Nell, in un percorso graduale che utilizza le vicende personali non solo per approfondire le singole psicologie ma anche per raccontare il passato attraverso i ricordi dei bambini.
Hill House diventa così creatura viva e vero e proprio personaggio il cui aspetto e la cui “psicologia” cambia a seconda degli occhi che la guardano; in questo modo non viene soltanto mantenuto fino all’ultimo il mistero sul reale svolgimento dei fatti, ma si riescono a disseminare indizi non banali che saranno poi fondamentali per chiarire il ruolo di ciascuno nella vicenda e non meno importante, si riesce a mettere in piedi un discorso fondante per lo show, legato all’impossibilità dei bambini, ora adulti, di relazionarsi tra loro avendo alle spalle l’enorme bagaglio di non detto rispetto al più grande evento traumatico delle loro vite. Non sapere cosa è successo, non avere una versione “ufficiale”, che arrivasse da un adulto (il padre Hugh, che ha taciuto la verità per proteggere i propri figli, sé stesso e il ricordo della moglie) ha posto le basi per cinque esistenze profondamente influenzate dal proprio punto di vista su quell’esperienza e giocoforza incapaci di capire l’uno le emozioni dell’altro, proprio in ragione della mancanza di un ricordo condiviso.
Così come lo spettatore, anche i ragazzi Crain scoprono soltanto alla fine che è stata la casa stessa a creare un’esperienza “personalizzata” per ciascuno di loro, e la serie gioca abilmente con questo presupposto costruendo per Hill House una geografia incerta e lovecraftiana che disorienta e fino agli ultimi episodi, mantiene il vero e proprio assetto fisico della costruzione vago e misterioso.
L’arco narrativo dedicato ai cinque fratelli giunge a compimento nel sesto episodio, “Two Storms”, girato dallo stesso Flanagan insieme a Jeff Howard quasi interamente in piano sequenza (con abili stacchi di montaggio disseminati in momenti chiave) e incentrato sulla veglia di Nell. Qui le tensioni giungono prevedibilmente al punto di rottura da un punto di vista relazionale e i fantasmi si manifestano apertamente, ma la serie non si limita a ripetere le dinamiche degli episodi precedenti – tutti giocati sull’alternanza indistinguibile tra realtà e soprannaturale – ma mette in campo una narrazione parallela che alterna la tempesta del passato e quella del presente. Un esercizio ben lontano dall’essere semplice virtuosismo: la telecamera segue e documenta lo scioglimento emotivo della famiglia e al tempo stesso lo scollamento tra passato e presente riuscendo a inserire una dimensione quasi oggettiva nella frammentazione dei discorsi soggettivi.
Da qui in poi, arrivano gli episodi che lavorano più intensamente sul gotico, e che pur non mettendo da parte l’elemento psicologico inseriscono i momenti di azione e horror e spingono con più forza sull’oggettività, sia attraverso la presenza di Hugh che attraverso un lavoro di fotografia che in maniera più didascalica aiuta lo spettatore a definire, gradualmente, i confini tra presente e passato, tra realtà e sogno, tra reale e soprannaturale.
La fotografia è uno dei punti più ambigui di The Haunting of Hill House: se da una parte la serie la utilizza con maestria per accompagnare lo spettatore in quello che altrimenti sarebbe un labirinto impossibile da maneggiare – la concentricità della narrazione, la geografia fantastica della stessa Hill House, l’estrema ambiguità del punto di vista di ognuno che rendono ciascun protagonista narratore inaffidabile – dall’altro spinge così forte sul pedale del colore da essere spesso perfino fastidiosa. I blu, soprattutto, i verdi e i gialli sono così esasperati da rendere difficile distinguere ciò che si vede e pur con la consapevolezza che questa è una scelta volontaria, è impossibile negare che spesso semplicemente, non si vede nulla. Possiamo certamente capire il gioco del “nascondere” le apparizioni di fantasmi disseminate qua e là per creare easter eggs, così come ancor più la necessità di nascondere l’utilizzo massiccio di CGI per ricreare Hill House (tappeti, sculture, carte da parati sono spesso palesemente finti anche con questa illuminazione, figuriamoci con una luce più naturale), ma in episodi spesso lunghi più di un’ora questi escamotage risultano davvero difficili da apprezzare a fronte di un’esperienza di visione molto faticosa.
La lunghezza degli episodi (a volte fino a 70 minuti), appunto, non aiuta di certo in questo senso. Pur concordando anche qui che la costruzione di un grande romanzo famigliare gotico necessita giocoforza di tempo e narrazioni dilatate per costruire atmosfera, specialmente verso la fine dello show The Haunting of Hill House arriva ad un autocompiacimento nella ripetizione degli eventi che distrae dall’atmosfera stessa, fino a quel momento così attentamente ed elegantemente costruita. Dal sesto episodio in poi la risoluzione tarda a manifestarsi e il minutaggio si allunga senza nessuna vera ragione narrativa: le corse nei corridoi che durano interi minuti, ad esempio, sono certamente pensate per disorientare ancora una volta lo spettatore rispetto all’assetto fisico della casa ma risultano ripetizioni all’infinito dello stesso stratagemma registico, a questo punto ridondante e soprattutto distraente rispetto al ritmo dell’azione. In questo e in altri casi, si nota un’indecisione dello show tra il mettere in scena una vera e propria escalation in stile horror e mantenere il proprio stile riflessivo e introspettivo, che finisce per dar luogo a una scelta di medietà che non funziona quasi mai, specialmente nell’ultimo episodio che snocciola un finale dietro l’altro perdendo per strada l’attenzione dello spettatore almeno dieci minuti prima della sua effettiva conclusione.
La stessa ibridazione che rende The Haunting of Hill House un oggetto interessante, coraggioso e ben riuscito fino al sesto episodio ne appesantisce poi la chiusura, che invece di spingere sul pedale dell’horror puro (approfittando peraltro dell’ottima base creata fino a quel momento in termini di atmosfera e approfondimento dei personaggi), sembra volersi rifugiare in una mera conservazione della coerenza stilistica del proprio approccio, sacrificando l’esperienza dello spettatore in nome di una ricerca di profondità spesso velleitaria. Pur rimanendo un progetto estremamente valido e tutto sommato organico e intelligente, la serie finisce per sbagliare obiettivo proprio arrivando alla sua chiusura, che invece di sfruttare i meccanismi del genere horror li mette da parte per dirigersi in territori più convenzionalmente drammatici.
Voto stagione: 7½
Bella recensione 🙂
Anche a me ha affascinato molto l’ibridazione dramma familiare e horror ma avrei decisamente preferito una virata più convinta verso l’horror che, peraltro, come dici anche tu, sarebbe stata anche parecchio più efficace visto tutto il lavoro di costruzione fatto prima. Più che altro così la risoluzione mi è parsa piuttosto strascicata e ridondante.
In realtà avendola vista abbastanza frammentariamente non mi ha pesato troppo la lunghezza ma immagino che sia una semi tortura da bingewatchare.
Ottima recensione come sempre, Euge!
Come dicevo anche per il pilot, la fotografia a volte è davvero fastidiosa ed è un peccato perché inficia un prodotto molto ben fatto.
Il finale non mi ha deluso ma nemmeno esaltato come mi aspettavo: un po’ troppo “addolcito” rispetto alle premesse. Insomma, non si è virato in maniera decisa verso l’horror ma neanche troppo verso il vero e proprio dramma, cosa che forse avrei preferito (e che sarebbe stato in linea con quanto visto prima).
Tutto sommato, comunque, la penso esattamente come te, anche come valutazione. Ce ne fossero di più di horror così…
Leggendo il pezzo sul pilot ho avuto la risposta che cercavo, perché sin da subito ho sentito forte la “presenza” di Shining. Non ho visto Doctor Sleep, mi sono rifiutato perché mi sembrava un sacrilegio, ma non sapendo nulla del link Flanagan, guardando l’ultimo episodio per un attimo ho pensato che Hugh Crain fosse Daniel cresciuto. Detto ciò, la serie si fa apprezzare e, temo, anche dimenticare facilmente; penso che avrebbero potuto osare un po’ di più soprattutto sul lato estetico perché c’è molto più horror nel singolo episodio “Home” (The X-Files 4×02) che in tutti questi dieci episodi messi insieme.
A giorni arriverà una seconda stagione, con una nuova casa e dei nuovi protagonisti, anche se vedo Oliver Jackson Cohen (Luke) seppur in altro ruolo. Staremo a vedere.