La serialità tedesca è da tempo tra gli osservati speciali del panorama televisivo contemporaneo. Solo l’anno scorso il pubblico internazionale ha potuto assaporare due serie molto diverse tra loro ma ugualmente interessanti e apprezzate dalla critica: Dark e Babylon Berlin. Amazon si accoda a Netflix e Sky e sceglie di puntare su Beat, affidando il progetto ad un regista affermato in patria – e non solo – come Marco Kreuzpaintner (Summer Storm).
Beat è il soprannome che Robert Schlag (Jannis Niewöhner) utilizza nell’ambiente underground che frequenta: il suo lavoro è promuovere e gestire le feste notturne che organizza insieme all’amico e socio Paul nel loro club, il Sonar, che ha vissuto una fortunata e rapida ascesa, arrivando a contenere ogni sera centinaia di persone che si scatenano sulla pista da ballo, tra l’eccitazione della droga e il ritmo della musica. Il pilot è stato fondamentale per presentare questo mondo nascosto, una realtà alternativa alla nostra che si “accende” solo quando vi si entra all’interno: un movimento ottimamente introdotto con il long take che porta il protagonista sotto le luci stroboscopiche del club, a sottolineare il confine che separa i due mondi.
La techno e la vita da discoteca rimangono, però, solo uno sfondo alla vicenda ben più vicina al canone seriale che prende piede sin dall’inizio: Beat viene, infatti, ingaggiato dall’ESI (i servizi segreti europei) per riportare informazioni sulle attività criminali del nuovo socio ombra del club, Philipp Vossberg. La serie parte quindi come un crime drama in cui al mistero di un duplice e crudo omicidio – le ragazze squartate che vengono ritrovate nel club – si affianca da subito una trama spionistica che vede al centro anche alcune tematiche contemporanee legate al crimine internazionale. Si nota, anzi, come la seconda prenda in breve tempo il sopravvento sulla prima, esaurendo fin troppo velocemente la questione legata al crimine, anche a causa di alcune scelte di trama fin troppo comode e forzate di cui si parlerà più avanti.
Robert vede così dividersi la sua vita tra la necessità di scoprire il più possibile sul misterioso e ricchissimo individuo che ha rilevato una parte delle azioni del club e, allo stesso tempo, cercare di barattare questi suoi servigi con la possibilità di scoprire qualcosa sui suoi genitori, che lo hanno abbandonato in un orfanotrofio quando era molto piccolo. Questo duplice scambio avviene per mezzo di Emilia, giovane agente che si lascia trascinare troppo dalle emozioni, e del suo diretto superiore, il misterioso Diemer. Come se tutto ciò non bastasse, all’elenco di scossoni alla sua vita si aggiunge un’altra figura problematica che proviene dal passato: Jasper Hoff, interpretato da un Kostja Ullmann costantemente in overacting, è un personaggio ingombrante e disturbato, ossessionato dal protagonista e dalla vita spregiudicata che conduce. Tantissima carne al fuoco per lo show, che ad un certo punto, nel corso dei suoi sette episodi, comincia a soffrire di questo accumulo, finendo per inciampare nella sua stessa ambizione.
Questo perché è chiaro come Beat sia una serie che vive di eccessi; sia dal punto di vista delle immagini – in cui si fa rientrare anche la regia, comunque ottima in certe occasioni – che da quello della narrazione, la sensazione prevalente è che gli autori abbiano voluto puntare sull’eccesso di spettacolarità e sull’esasperazione di alcune caratteristiche dello show. La violenza è sempre amplificata oltre ogni limite, le scene di sesso – emblematica l’orgia del quarto episodio – sono molto spesso gratuite e la recitazione di alcuni personaggi è fin troppo caricata per risultare credibile, come nel caso della già citata prova attoriale sopra le righe di Ullmann. Queste esagerazioni contribuiscono, certo, a definire un certo stile per lo show, ma ne limitano in parte le potenzialità, facendolo precipitare ogni tanto in scene fini a se stesse e slegate da qualunque esigenza di trama.
Ma Beat non è solo una vetrina senz’anima, anzi; lo show è un buon crime drama europeo capace di offrire una prospettiva diversa sul modo di fare televisione, con tutti i limiti che questo comporta, nonché uno show capace di far riflettere su alcune questioni etiche rilevanti.
È interessante in modo particolare l’attenzione che viene data ai traffici di esseri umani di Vossberg e ai dilemmi morali che attanagliano il personaggio del dottore, costretto ad assecondare le richieste disumane dei criminali che lo tengono prigioniero nonostante la sua aberrazione nei confronti di tali pratiche mediche. Il miliardario, infatti, ha la disponibilità di utilizzare come merce di scambio per le acquisizioni societarie organi a bassissimo costo che recupera dai migranti che aiuta a fuggire dalle zone di guerra attraverso le onlus da lui stesso manovrate; i giovani ignari, spinti dalle promesse di una vita migliore, si imbarcano in un viaggio estenuante – mostrato con un bellissimo montaggio – per poi scoprire di essere capitati in un inferno ancora peggiore.
Si diceva di scelte sbagliate ed errori grossolani; a maggior ragione è importante sottolinearli in una serie di spionaggio che dovrebbe tenere bene conto dei tempi narrativi a disposizione e di tutti i personaggi da poter sfruttare per tenere sempre alta l’attenzione degli spettatori. Si fa riferimento alla gestione di Jasper Hoff: la sua morte a metà stagione ha davvero poco senso sia rispetto a quanto poco sia stata determinante la sua presenza fino a quel momento – il suo ruolo, a parte essere una spina nel fianco nemmeno così pericolosa per Beat e Diemer, è ininfluente nei confronti della trama orizzontale – che rispetto al modo in cui avviene – ucciso in privato da colui che chiamava padre senza che questo abbia una minima ripercussione sull’omicida. Senza contare che la relazione tra Jasper e Robert poteva essere scritta e sviluppata molto meglio, mentre al netto della dipartita del primo risulta perlomeno incompleta.
È forse anche a causa della mancanza di uno dei suoi personaggi potenzialmente più imprevedibili che il finale sia un’altra delle grandi recriminazioni di questa prima stagione di Beat. Quasi totalmente anti-climatico, estremamente didattico e privo della verve che caratterizza le puntate centrali – nella fuga dall’hotel tra quarto e quinto episodio, infatti, si tocca il punto più alto dello show –, l’ultimo episodio è davvero una delusione rispetto alle possibilità di un grande finale che vengono seminate lungo tutta la stagione.
Non si può dire che Beat sia una serie non riuscita: è uno show che, al netto di pregi e difetti, viaggia nella media delle produzioni contemporanee del genere in cui può essere ascritta. Tra qualche spunto originale, un’ottima realizzazione tecnica e qualche passo falso lungo la strada, mantiene comunque alto il livello di interesse per la sorprendente televisione tedesca.
Voto: 6/7