Cosa sarebbe accaduto alla Polonia se la Cortina di ferro fosse rimasta in piedi? Se le rivoluzioni di Solidarność e Lech Wałęsa non avessero mai preso piede e l’Unione Sovietica fosse più forte che mai? A questi interrogativi prova a dare risposta 1983, prima produzione polacca di Netflix che, in risposta a The man in the high castle della rivale Amazon, mette in scena una cupa ucronia che affonda le radici nel patrimonio storico-culturale della sua nazione d’origine.
Polonia, 12 Marzo 1983. Varsavia, Cracovia e Danzica vengono colpite da una serie di attacchi terroristici che mettono in ginocchio il paese e annullano la dissoluzione del blocco sovietico. Dopo vent’anni il paese è ancora l’ago della bilancia nei rapporti di potere tra Occidente e Oriente, il Partito ha imposto uno stato di polizia dove ogni cittadino è sotto sorveglianza e la popolazione vive passivamente l’utopia di pace e sicurezza propugnata dal regime. A turbare la calma apparente di una nazione che ha rinunciato a conoscere la verità sul proprio passato vi sono tre personaggi diametralmente opposti, uniti solo dalla volontà di rivelare al mondo le responsabilità del Partito: il cinico e disilluso ispettore Anatol Janów (Robert Wieckiewicz), il brillante studente di legge e pupillo del Partito Kajetan Skowron (Maciej Musial) e la giovane Ofelia Ibrom (Michalina Olszanska), leader del gruppo rivoluzionario “La Brigata della Luce” e amica d’infanzia di Kajetan.
Nonostante le difficoltà iniziali nel memorizzare la mole di nomi e informazioni date in pasto al pubblico fin dal principio, è chiaro come l’intento dello showrunner Joshua Long sia quello di creare un universo narrativo complesso e stratificato che segue alla lettera i precetti della poetica di George Orwell. La macchina di propaganda del Partito, atta a soggiogare il popolo per proteggersi da esso e proteggerlo da sé stesso, trova la sua forza nell’annullamento di ogni forma di individualità e non praticando il terrore ma inculcando il dubbio di una sua potenziale apparizione. È da questo senso di minaccia potenziale che prendono forma le atmosfere e i toni della narrazione, segnata da una tensione che cresce ad ogni episodio ma invece di esplodere continua a maturare sotto traccia, creando un clima di paranoia ossessiva affine, più che ad Orwell, alle opere fantascientifiche di Philip K. Dick. L’ascendenza sulla serie dello scrittore di Chicago – e più precisamente dell’immortale Blade Runner di Ridley Scott – si fa evidente nello stile visivo di 1983, capace di mescolare gli slanci futuristici dickiani e il ferreo rigore esteuropeo.
La Varsavia del 2003 è un agglomerato di freddi grattacieli in vetro e cemento ed occlusi uffici burocratici dove regnano ordine, pulizia e tecnologie all’avanguardia, ma a fare da contraltare vi sono ecomostri e relitti della vecchia Unione Sovietica, vecchi volti del regime prima della rivoluzione avviata dalle bombe, e nei quartieri popolari si assiste alla fusione tra architettura occidentale e stile asiatico già profetizzata dal film di Scott, un ordinato crogiolo urbano sotto cui si nascondono le trame politiche dei funzionari del regime e dei loro alleati vietnamiti. Uno scenario realistico e dettagliato dunque, non remoto e avveniristico ma tragicamente affine alla contemporaneità, ed è in questa similitudine con i tempi moderni che 1983 trova la sua ragion d’essere. La lotta silenziosa tra i capi del Partito e i suoi oppositori serve a mostrare le due facce del patriottismo: l’amor di patria applicato per alimentare la fame di potere individuale da un lato, la lotta continua per restituire verità e dignità al paese dall’altro. L’amore per la Polonia ha permesso a pochi uomini di cambiare la storia del paese ma in un regime totalitario, una volta preso il potere, ogni forma di sentimento è un’anomalia pericolosa da sopprimere, e questo dogma vale anche per i ribelli capitanati da Ofelia, impossibilitati a mostrare emozioni di fronte a un nemico pressoché imbattibile.
Questo estenuante braccio di ferro tra emotività e freddezza traspare nella narrazione proposta dalla serie, che rifugge qualsiasi forma di spettacolarità e predilige i tempi morti all’azione, mettendo sempre in primo piano i dilemmi morali dei protagonisti e il loro rapporto con le logiche del regime. Anche l’interpretazione degli attori lascia trasparire la vacuità emotiva che accomuna tutti i personaggi, anestetizzati dallo stile di vita imposto dal Partito, per quanto in alcune sequenze il confine tra la ricercata impassibilità e la semplice inespressività degli interpreti sia alquanto labile. La serie, tuttavia, non è esente da difetti di scrittura che impediscono la fidelizzazione del pubblico con alcuni personaggi, in particolare l’ispettore Janów: l’ipotetica controparte polacca di Rick Deckard ci viene presentata come il personaggio più carismatico e cool della storia, ma il suo continuo oscillare tra la ricerca della verità nascosta dal Partito e la lotta contro la Brigata della Luce crea una grande confusione sul suo ruolo ultimo all’interno del racconto e ne inficia la portata drammatica. A rincarare la dose vi è la presenza di eccessive sottotrame non sviluppate a dovere, come quella dell’imminente colpo di stato ordito dal generale Swietobór, che mostra la difficoltà di Joshua Long nel mescolare la fantascienza distopica e il thriller politico, nonostante la presenza in regia di una veterana come Agnieszka Holland, già nota al pubblico seriale per serie come The Wire e House of Cards.
Le mancanze di 1983 vengono però compensate dalla parabola di Kajetan, il personaggio più complesso della serie che porta sulle sue spalle le colpe e gli orrori della Nuova Polonia. Usato come strumento di propaganda fin da bambino e fidanzato con la figlia del Ministro dell’Economia – il burattinaio oscuro a capo del regime -, Kajetan è cresciuto con la ferrea convinzione che Legge e Giustizia rispondano alle direttive del Partito Comunista. Il ragazzo ha vissuto per anni inconsapevole di essere uno slogan politico vivente, ma la morte improvvisa del suo mentore e il ritorno di Ofelia dopo anni di latitanza rivelano a Kajetan l’importanza della Verità come variabile nell’equazione Legge-Partito. Le scoperte sul lavoro di rimozione collettiva operato dal regime verso gli oppositori e sul ruolo dei genitori di Kajetan negli attentati dell’83 si accumulano di episodio in episodio e generano un evidente decadimento fisico e mentale del protagonista, spettatore inerme del disfacimento delle sue ideologie, fino a raggiungere l’apice in “Requiem”, finale di stagione al cardiopalma in cui al pubblico viene mostrata quella Verità che per il ragazzo rimane remota e incerta: il simbolo del trauma di un’intera nazione è l’erede di chi ne ha versato il sangue, e spetta a lui scegliere se diventarne il salvatore o il distruttore.
Posta idealmente a metà tra l’anno d’uscita nelle sale di Blade Runner e l’anno della feroce distopia di Orwell, 1983 cerca di prendere il meglio da due capisaldi della fantascienza moderna per riscrivere la storia di una nazione e usarla come monito contro le derive oscure dell’era moderna. Nonostante alcune problematicità strutturali, la serie di Joshua Long si presenta come l’ennesima scommessa di Netflix, un prodotto seriale all’apparenza derivativo che riesce a brillare di luce propria e non ha paura di far sfoggio delle sue smodate ambizioni.
Voto stagione: 7
Questa è una serie che comincia bene, ma poi si perde. La trama è così complessa che non si riesce a seguire bene. Nel complesso questo rovina anche le atmosfere cupe che riescono a creare bene. Io gli darei un 6 di incoraggiamento…