A partire dal titolo, Dogs offre chiarezza e semplicità. Si possono fare (e si faranno) discorsi sui temi che gli autori cercano di toccare, sulle realtà che cercano di esplorare e portare sullo schermo, ma alla fine dei conti la serie Netflix non può che fondarsi sul racconto del rapporto tra l’uomo e il suo migliore amico, trovando nelle pretese relativamente modeste il proprio punto di forza.
I sei episodi che compongono questa prima stagione hanno il grande pregio di portare un’aria diversa al panorama televisivo contemporaneo, uscendo non solo dai copioni della scripted tv, ma dimenticandosi (quasi sempre) della necessità di portare i grandi drammi e plot twist che tanto caratterizzano i cosiddetti documentari true crime visti in giro di recente. Dogs è invece una serie antologica composta da storie piccole, in cui la suspense è pressoché inesistente e la traiettoria sempre lineare: è un po’ un ritorno alla struttura standard del documentario, che offre uno spiraglio da cui osservare situazioni interessanti ma allo stesso tempo ordinarie e riconoscibili.
Ogni puntata diventa il racconto di una realtà in genere abbastanza piccola, in cui il ruolo del cane nella vita dell’uomo (o viceversa) è protagonista assoluto e il contesto che ci sta dietro offre spunti per riflessioni più o meno interessanti. Lo show è quindi – come sempre accade – anche una scusa per parlare d’altro, per toccare dei temi e mostrare delle situazioni che siano abbastanza particolari da creare interesse, ma non troppo da risultare lontane dalla realtà vissuta dagli spettatori. In questo senso, il lavoro fatto sulla presentazione del contesto è molto buono e riesce quasi sempre a creare un’atmosfera unica e familiare allo stesso tempo: la scelta delle location (e delle culture che ci stanno dietro) è abbastanza azzeccata e variegata da non annoiare mai, passando dal nostro Lago di Como al Giappone al multiculturalismo della Grande Mela.
Ed è così che, di episodio in episodio, lo spettatore viene messo a contatto con una realtà dai risvolti interessanti, come accade ad esempio nel passaggio dalla vivissima Berlino (e la tensione di Damasco) alla tranquillità di un paesino di pescatori nel Nord Italia. Gli autori sembrano comprendere l’importanza di valorizzare il contesto della storia che si vuole raccontare, e in alcune occasioni riescono addirittura ad elevare il background culturale mettendolo direttamente in primo piano: i già citati quarto e sesto episodio, il primo sul divario culturale con la cultura giapponese e il secondo sul progressismo di New York, sono particolarmente arricchiti da questo tratto, mentre altri risultano invece un po’ più anonimi in quel senso e danno più importanza alla vicenda specifica che scelgono di raccontare.
Come si diceva, il focus del racconto rimane comunque la piccola storia (canina) che viene messa in scena, spesso con il semplice obiettivo di esplorare meglio le sfumature di uno dei rapporti più importanti nella società contemporanea. Andando oltre la concezione del cane come semplice animale da compagnia, lo show è determinato a mostrare come ci sia dietro molto di più: e quindi, nel caso di bambini con attacchi epilettici il ruolo dell’animale diventa essenziale a rendere la vita dell’intera famiglia più sostenibile, mentre si configura come una speranza a cui aggrapparsi nel difficile processo di integrazione del rifugiato. Senza la paura di esagerare nel sottolineare la profondità di questi legami, la serie mantiene il semplice obiettivo di mostrare come il rapporto con l’animale domestico per eccellenza abbia ormai assunto delle sfumature spesso sottovalutate.
In questo senso, si può osservare una divisione molto chiara tra le due parti della stagione: da un lato abbiamo i primi tre episodi, molto intimi e personali, determinati a portare esempi su come il ruolo del cane risulti fondamentale in tante situazioni inaspettate; dall’altro, la seconda metà dell’annata sembra concentrarsi su problemi e situazioni più generali, allargando il focus su più personaggi (sia nel concorso di bellezza, che in Costa Rica che a New York è difficile identificare un protagonista) e trattando situazioni come la sovrappopolazione di cani randagi in molti paesi in via di sviluppo o le forti differenze culturali che plasmano diversamente l’estetica orientale e quella occidentale.
È quando la serie sceglie di cambiare gioco che nascono gli unici problemi sostanziosi. Diverse sequenze, soprattutto nella prima metà di stagione, sembrano voler spingere troppo il pedale sull’umanità e l’intensità di certe situazioni, mettendo in scena dialoghi tra personaggi che non possono non dare una forte impressione di artificialità. Il fatto che due ragazzi possano conversare tranquillamente sulle scelte di vita del figlio giovane della famiglia senza essere influenzati dalla telecamera che filma rovina già la messa in scena di per sé, ma nasce anche il dubbio che la maggior parte di quelle sequenze siano addirittura state impostate e suggerite dalla produzione, per rendere l’identificazione coi personaggi più forte ed immediata.
Il problema è che in questo modo la fiducia nel mezzo utilizzato (il documentario come rappresentazione il più fedele possibile della realtà) viene sacrificata in nome di un po’ di emotività piuttosto spicciola e in molti casi per niente necessaria. È un po’ questo il problema principale di Dogs, o perlomeno della sua prima metà di stagione: in alcuni casi, la vena documentaristica perde contro la necessità di accalappiare lo spettatore. E quindi la semplicità di intenti di cui si parlava prima, che in genere funziona come punto a favore, sfocia occasionalmente in uno sforzo di emozionare non necessario (molte sequenze riescono a farlo senza il minimo intervento) che la rende banale.
Alla fine dei conti, comunque, i difetti di cui si parlava non sono mai troppo evidenti e si esauriscono tendenzialmente nei primi tre episodi. Per il resto del tempo, Dogs si presenta come una serie vincente nella sua semplicità, capace di sfruttare il format del documentario antologico in maniera pulita e spesso molto efficace. Non punta mai troppo in alto, e questo per alcuni potrebbe anche essere un problema; ma di una serie che sappia giocare sul sicuro con dei risultati di questo tipo c’è sempre bisogno.
Voto: 7+