Killing Eve utilizza la sua seconda e la sua terza puntata per esplicitare e concretizzare i suoi due interessi narrativi principali: con “Nice and Neat” suggerisce una nuova modalità di approccio al tema centrale della violenza interpersonale, mentre con “The Hungry Caterpillar” imposta lo schema narrativo a lungo termine, la scacchiera del gioco al massacro.
La differenza tra le due modalità narrative è evidente (sia per la gestione del tempo che delle tamatiche) e testimonia la capacità della nuova showrunner di variare il ritmo e la focalizzazione all’interno della stessa cornice. Mentre il grosso del lavoro direzionale e di spinta è infatti fatto dal terzo episodio, il secondo non sente la necessità di accelerare in virtù degli obiettivi diegetici e abbraccia il nucleo tematico con una deviazione autoconclusiva, momentanea ed episodica rispetto alla progressione orizzontale del percorso: un evento interno che permette alla serie, dopo una premiere introduttiva ma comunque lucida nel suggerire possibili linee di sviluppo del racconto, di respirare in un ragionamento che si sottrae alle dinamiche al cardiopalma proprie del genere e allo stesso tempo concede alla scrittura di affrontare una tematica principale da una prospettiva nuova.
La puntata, confermando l’interesse della serie a includere nella sua macro storia diverse micro narrazioni incentrate sulle forme di violenza, si sposta in un contesto differente da quello incarnato dal rapporto abnorme tra le due protagoniste e raffigura infatti la possibile fenomenologia di un abuso domestico attraverso la sortita di Villanelle nella realtà privata di un uomo solo e morboso – che prima offre all’assassina (ancora ferita dagli eventi di Parigi) un aiuto apparentemente ingenuo e poi la costringe a una reclusione forzata. Lo snodo narrativo è poco influente nella grande cornice ma determinante sul piano dei contenuti e costituisce un momento tematico in cui la forza espressiva è solo al servizio dell’idea scritta.
La scrittura pertanto ragiona con la lente d’ingrandimento sulla sottile crudeltà della violenza domestica e ottiene riflessioni sulla natura (apparente e reale) dei carnefici e delle vittime grazie all’esaltazione comunicativa della messa in scena. È questa che trasmette a livello sensoriale il senso di straniamento emotivo provocato da un ambiente claustrofobico e alienante, in un crescendo di intuizioni capaci di trasformare l’ambiente privato in un inferno chiuso a chiave: l’iperrealismo dei dettagli, le inquadrature sulle parti ossee delle mani, i primi piani interessati a rintracciare negli occhi la promessa della tragedia e la fotografia tesa all’esplosione livida sono elementi di una grammatica interessata a costruire un lessico tragico e spaventoso capace di esplicitare in maniera comprensibile l’esperienza della violenza. La regia è strategica e raffinata non tanto per lo splendore della disposizione dell’immagine quanto per la scelta di inquadrature accordate alla stessa intonazione della scrittura.
L’episodio però sceglie di mostrarci lo sviluppo dell’abuso nel dettaglio non solo per affermare l’esistenza di questo tipo di comunicazione interpersonale ma anche per giustificare a livello empatico la controversa accettazione della conseguenza. Quando Villanelle non sopporta più l’atteggiamento del suo momentaneo custode lo uccide al termine di una colluttazione, per cui oltre lo schermo si esulta. Per la prima volta simpatizziamo davvero l’assassina: il cambio di prospettiva empatica avviene non tanto per le motivazioni della passata stagione – quando l’empatia era motivata dal fascino esercitato dal personaggio – quanto per l’agognata sensazione di libertà dall’insopportabile sopraffazione dell’uomo. Questa comprensione è un utile controcampo alla scoperta di Eve nel finale di episodio, in cui la scena del crimine non porta i segni di una tensione domestica covata e innescata, ma solo la violenza cieca (condita di umorismo nero) della conseguenza, che infatti è fraintesa per violenza priva di ragione.
Villanelle esce dalla puntata come una sconfitta sopravvissuta per miracolo, non come una killer dal passo felpato e il sorrisetto arrogante, ma Eve non ne è consapevole, anzi, teme la ritorsione di una assassina spietata, che mentre cerca di sopravvivere solo per inviarle messaggi amorosi – pur nella sua maniera distorta – comunica solo contenuti fraintendibili. L’episodio con questa soluzione intercetta non solo alcune possibili modalità di espressione dei carnefici (che alla fine a un occhio inconsapevole risultano vittime) della violenza domestica, ma anche l’incomunicabilità che spesso caratterizza le vittime (che invece a volte sono condannate come colpevoli). Incomunicabilità che si potenzia nel mancato confronto finale e che funge da ponte concettuale per la struttura del terzo episodio, capace di riportare l’accento tematico sul rapporto tra le protagoniste e di trasmettere il linguaggio esistente tra le due.
Killing Eve non è nient’altro che il racconto di due donne fisicamente lontane, psicologicamente unite da una rete di indizi e sentimentalmente avvicinate in un grande dialogo amoroso che scambia la violenza per intensità. Il terzo episodio è la magnifica esaltazione di questo teatrale passo a due sempre acceso mediante campi e controcampi (virtuali o meno): pur essendo meno sottile nella raffigurazione dei contenuti, riesce a raccontare in maniera molto riuscita (per compattezza e tensione interna) la natura di un rapporto amoroso mediante il codice del genere. È il momento narrativo in cui la spy story gioca al meglio col suo doppiofondo sentimentale e il doppiofondo sentimentale interagisce con la scatola formale, con tutta la vertigine di una scrittura capace di raccontare perfettamente entrambi i sensi in maniera autonoma o interdipendente.
C’è infatti nelle svolte e nei capovolgimenti che caratterizzano la struttura di “The Hungry Caterpillar” il pregio della programmazione che contraddistingue i grandi racconti di spionaggio: l’equilibrio e la tempistica degli interventi, l’entrata e l’uscita in scena degli enti di pericolo e dei portatori di salvataggio, i chiaroscuri delle intenzioni, i complotti mistificati e i doppi giochi dietro le linee nemiche. Allo stesso tempo c’è la capacità di rappresentare con le giuste misure (cioè con la giusta disposizione dei corpi nello spazio scenico coreografato) il movimento coordinato di due persone mosse dallo stesso sentimento ma incapaci di comunicare; la rincorsa al contatto disperato tra due amanti scosse dalla possibilità di un tocco risolutorio e sanguinoso; la scintilla emozionale sprigionata da corpi per ora solo capaci di sognarsi.
La danza delle spie infatti è qui la danza di due innamorate che si inseguono in un gioco sanguinoso, in cui la drammaturgia colpisce sempre a sorpresa nascondendo le lame dentro i rossetti. La loro impossibilità di comunicare (se non attraverso simboli, segni, tracce e avvertimenti a distanza) è l’idioma che le coinvolge sullo stesso piano al di là dei semplici ruoli di gatto e topo o guardia e ladra, ma al livello sentimentale in cui ciascuna è, con lo stesso grado di intensità e sofferenza, a intermittenza soggetto e oggetto d’amore. È su questo codice, su questa visione relazionale complessa e scevra di banalizzazioni sulla figura femminile, che la stagione disegna il progetto narrativo delle puntate successive.
La serie trova nel loro rapporto, sempre più approfondito, la quadra tematica e la spinta action, la principale motivazione contenutistica e l’onda di intrattenimento, lo schema attraverso cui sviluppare una narrazione consapevole di dover rimandare sempre al climax finale l’incontro, e quindi costretta a procedere per parafrasi e assenze, fantasmi e passaggi finalizzati al dopo. L’indagine sul personaggio chiamato Il Fantasma, sui Dodici, su Peel e anche la situazione matrimoniale di Eve – nodo interessante ma non ancora affrontato compiutamente – per questo sono elementi importanti nel racconto ma in realtà marginali per il discorso concettuale dello show, perché sempre coordinati e pensati in relazione al nucleo del rapporto tra le due protagoniste.
Con il secondo episodio la serie, condotta in questa stagione da Emerald Fennell, dimostra di saper ragionare sull’estensione totale del concetto di violenza, aggiungendo alla stratificazione riflessiva anche un momento di contenuto complesso (servito da una forma puntuale); con il terzo la narrazione è stata lanciata in avanti grazie a una composizione narrativa energica, potenziata dalla doppia natura narrativa. Killing Eve ora deve continuare a questi livelli anche dopo il giro di boa.
Voto 2×02: 8
Voto 2×03: 8