Giunti alla fine della terza stagione di Better Things possiamo dire che la creatura di Pamela Adlon abbia prodotto la sua annata migliore e lo ha fatto in un modo che al contempo rischiava di far crollare il precario equilibrio su cui sono stati costruiti i rapporti fra i personaggi nei due anni precedenti: ovvero, mettendo in crisi Sam, la protagonista, che nel corso di tutte le dodici puntate affronta molto più che nelle altre due stagioni un vero e proprio cambiamento di pelle e al contempo una ricerca del suo nuovo sé.
È proprio così che inizia la stagione, con Sam che non riesce più ad entrare nei suoi vecchi vestiti e che è quindi costretta ad affrontare tutta una serie di cambiamenti che arrivano esattamente nel momento in cui lei non li vuole affatto. Pamela Adlon decide con questa terza stagione (da lei diretta e co-scritta) di puntare tutta la sua attenzione sulla crisi di Sam nel periodo della vita femminile meno raccontato di sempre (parliamo di TV, ma anche di cinema, di letteratura, di vita vera): quello dell’evoluzione radicale che una donna affronta intorno ai cinquant’anni, che è al contempo fatto di acquisizione di alcune sicurezze e perdita di altre, di messa in discussione di tutto (e tutti) pur, paradossalmente, avendo dei punti fissi da cui diventa difficilissimo, se non impossibile, distaccarsi.
I figli crescono, vanno al college, o forse no e tornano a casa: e quel piccolo precario equilibrio che sembrava essersi creato va in pezzi. C’è giusto il tempo di cercare di trovare un nuovo modo per gestire quella crisi, perché la vita non si ferma, nuovi cambiamenti arrivano all’improvviso, altre figlie hanno altre esigenze, e la vita di tutti i giorni diventa pesante al punto da apparire inaffrontabile. E tutto accade e continua ad accadere mentre il proprio corpo cambia – quando mai abbiamo visto in televisione una rappresentazione così accurata della pre-menopausa, delle visite mediche, delle paure e dei pensieri che ancora a cinquant’anni si hanno quando si va da un ginecologo, fino ad arrivare a un’intera puntata dedicata ad una colonscopia? –, mentre si perde il sonno, mentre si guarda al presente con un piede ancora nel passato, che a volte è d’aiuto, altre volte solo un ostacolo in più.
“It’s a lot, and some mornings, I just… […] you know, lay in bed, in my room, and I stare at the ceiling and I just say I just can’t do it anymore. I just can’t. I just can’t, I just can’t, I can’t, I can’t.”
Pamela Adlon, per la prima volta da sola e non con Louis C.K. con cui ha creato lo show, raggiunge un picco di identificazione con la sua protagonista che è una novità davvero significativa. Sam Fox è una donna in crisi costretta a vivere la vita di tutti i giorni con addosso un numero di anni che dovrebbe farle da guida e con, invece, un numero infinito di nuove situazioni da affrontare per cui non ha alcun libretto di istruzioni. È circondata da amici e familiari, la casa brulica di persone di ogni età in continuazione e la cucina funziona praticamente 24 ore su 24, eppure Sam è a suo modo sola – un po’ perché ci si sente, un po’ perché a volte ne ha proprio la necessità, e come non pensare in questo caso al finale di “Nesting”, quando, mentre al piano di sotto c’è una cena dalle compresenze improbabili (anche a livello extradiegetico: basti dire Sharon Stone), al piano di sopra c’è Sam che decide di isolarsi, con la sola compagnia del topolino Mandy Patinkin e di un cellulare con cui intrattenere una relazione segreta, anche a lei stessa.
C’è la gestione dei figli, che è una camaleontica sfida quotidiana, c’è quella di Phil, le cui capacità cognitive diminuiscono costantemente, ma c’è soprattutto, al centro di tutto, la Donna, quella con la D maiuscola, quella che a quasi cinquant’anni è costretta a confrontarsi con i cambiamenti del suo corpo e anche della sua interiorità. Adlon decide di mostrare esattamente questo: come cambia la percezione delle donne (di se stesse, ma anche di come si vedono tra di loro e di come pensano di essere viste dall’esterno), come affrontano un cambiamento che è forse tra i più radicali nella vita di una donna e di cui nessuno, quasi nessuno parla mai. Pamela Adlon lo fa, senza censure – e perché dovrebbe? Delle evoluzioni adolescenziali e delle crisi di mezza età degli uomini ne conosciamo ogni dettaglio, fino agli orli e alle cuciture – e soprattutto attraverso un female gaze che si percepisce davvero come libero e liberatorio. Perché una donna in pre-menopausa, madre di tre figlie, divorziata, non dovrebbe essere oggetto di una narrazione per una volta senza peli sulla lingua, che la metta sotto una luce così chiara da farne uscire non tanto pregi e difetti, quanto stralci di realtà accostati uno all’altro? Questa è la vera domanda, e la risposta è che non c’è alcuna ragione per cui non debba essere così. Sam sbaglia, Sam ci vede giusto; Sam ha torto marcio, Sam punta i piedi, a volte ottiene qualcosa, altre volte nulla, ma almeno ci ha provato, ha provato a rendere “le cose migliori”. Questa è la base di Better Things, e in questa stagione la sfida diventa ancora più interessante, per Sam e anche per Pamela. L’autrice, dicevamo, lavora per la prima volta da sola, senza lo storico amico e mentore Louis CK (da cui, secondo dichiarazioni della stessa Adlon, ha preso le distanze dopo le note vicende di molestie) e non può essere un caso che entrambe affrontino insieme questo cambiamento: Adlon cambia pelle insieme alla protagonista e prende le redini di Better Things raccontandoci questa nuova evoluzione, che è del personaggio ma che è anche sua.
“Yes or no?”
“I’m not… not saying no.”
Sam è irrequieta, non dorme, è preda di incubi di un passato che la perseguita durante la notte e di tentazioni del presente che la punzecchiano durante il giorno: la sua vita amorosa è forse la nota più interessante di questa sua trasformazione, che la vede passare attraverso una sorta di esorcismo liberatorio con Xander (l’incontro tra i due va a ripetere un vecchio rituale, e al contempo ne segna la fine) e una fase di curiosa esplorazione di sé, cui però la protagonista non riesce davvero a cedere. Qui la scrittura e la regia di Adlon non sbagliano un colpo: il rapporto messo in scena tra Sam e Mer non è lesbochic, non si abbandona al bisogno di “avere per forza una fase lesbica se si è una donna in crisi”. Al contrario, è un rapporto costruito di pochi, intensissimi momenti, in cui il desiderio di Sam e il suo negarsi a cedervi vengono costantemente alternati per mostrare come, nonostante non abbia più punti di riferimento, Sam non riesca comunque a prendere in considerazione un cambiamento del genere (forse perché questo rischierebbe, davvero, di farla sentire bene).
Lo dimostrano i due bellissimi montaggi alternati del terzo e del quarto episodio: nel primo caso abbiamo le scene in cucina con amici e parenti in cui si vagheggia di una “girl phase” con una Sam in completa negazione, alternate al suo incontro con Mer, fatto di primi e primissimi piani in cui la protagonista continua a dichiararsi etero, come se dovesse difendersi da qualcosa di cui cerca al contempo di negare l’esistenza. Nel secondo caso, invece, l’alternanza è di nuovo tra Sam e Mer, che confrontano le loro situazioni di donne della loro età, fino a quando i primi e primissimi piani – senza parole, accompagnati solo dalla musica – si alternano al ritorno a casa di Sam, che finisce con l’accostare la macchina per masturbarsi. Le contraddizioni della protagonista vengono indagate dall’occhio di Pamela Adlon in un modo che, lungi dal giudicarla, cerca invece di mostrarne le resistenze per provare a capirle.
Questo, il suo essere eterosessuale, è uno di quei “punti fissi” che, nonostante tutto, Sam non riesce e non vuole eliminare: si allontana da Mer pur cercandola, le parla pur negandole che ci sia davvero qualcosa tra di loro – ma non è così, e lo sanno entrambe; ed ecco che allora l’unico modo per ferirsi il meno possibile (ma sarà davvero così? Il pianto al pub alla fine di “The Unknown” parrebbe dire il contrario) è quello di farsi allontanare definitivamente da una donna che a lei è interessata ma che non ha nessuna intenzione di inseguirla; e, infine, ricadere sulla prima persona che le ha riservato un po’ di affetto e di supporto: lo psicologo David (Matthew Broderick), che, nonostante la scarsa deontologia professionale, si dimostra in effetti un buon supporto per la donna almeno per quanto riguarda il suo rapporto con le figlie, in particolare con Frankie.
I’m not staying. But can I take a bath in your bathtub?
È difficile trovare uno show che mostri delle adolescenti (o quasi) così prepotentemente odiose eppure così affettuosamente legate alla madre come Better Things. E il motivo non è solo che ormai le conosciamo abbastanza da sapere cosa si nasconde dietro ogni loro comportamento folle o perlomeno discutibile, ma soprattutto perché le vediamo attraverso gli occhi di Sam che sì, sarà scontato dirlo, è una madre che le ama “senza se e senza ma”; tuttavia, ed è qui che Adlon ha voluto sin dall’inizio mettere i puntini sulle i, Sam è anche una madre che spesso le sue figlie non le sopporta. E anche qui, perché tacere? Perché non parlare di tutte quelle difficoltà che si celano dietro l’educazione dei figli, quelle che tutti i genitori conoscono e di cui sono sempre restii a parlare?
Durante la quinta puntata, alla cena tra amiche per il compleanno di Lala, a quest’ultima viene dato un pezzo di dialogo semplicemente perfetto per descrivere la situazione di una madre: Lala è una donna che ha speso soldi (e dolore, e fatica fisica e mentale) per poter avere un figlio attraverso la fecondazione assistita, eppure ammette che nessuno le aveva detto che sarebbe stata così dura, non quando ti spacchi in due per un figlio che ti dice che sei la madre peggiore del mondo – e allora forse tanto valeva spendere tutti quei soldi per una casa più grande. Sam annuisce, Sam capisce, ah, se capisce: e questo non rende nessuna delle due una pessima madre, anzi.
Il modo con cui la protagonista cerca di gestire le sue tre figlie, così diverse tra di loro per carattere e inclinazioni, potrà far storcere il naso a qualche purista dell’educazione, ma la realtà è che Sam è una madre sola e che Pamela Adlon decide di mostrare la cruda realtà del punto a cui possono arrivare determinati rapporti quando certi figli sono in difficoltà. Se per quanto riguarda Max il ritorno a casa dal college è digerito e metabolizzato abbastanza in fretta – al punto che Adlon si concede di usare i momenti di Max dedicati alla fotografia per sperimentare anche lei da un punto di vista registico, in una sorta di discorso meta-artistico –, con Duke e soprattutto Frankie le cose si fanno decisamente più complesse.
Duke è la piccola di casa ed è anche quella emotivamente più vulnerabile: il modo con cui Sam cerca di gestire le sue crisi è sempre dettato da un affetto sconfinato, anche quando la risoluzione diventa un “urlatevi in faccia quello che volete per un minuto, poi però basta”. Sam sa che Duke patisce la mancanza del padre in un modo che è ancora dolore e non ancora rabbia ed è per questo che si offre come strumento nelle sue mani: “Non devi essere tu a odiarlo, lascia che sia io a odiarlo per te”. Sam improvvisa e quando è messa all’angolo non per forza agisce con puro e assoluto affetto: ma, come dirà suo fratello Marion a Duke in macchina riportandola a casa dalla festa di Pasqua, Sam è la madre migliore per il semplice fatto che c’è, sempre; che qualunque cosa succeda lei c’è, e che loro tre in quanto figlie potranno sempre contare su di lei.
Frankie è il vero tasto dolente di Sam durante la stagione: la sua ricerca di se stessa e della sua identità di genere passa attraverso una rabbia nei confronti della madre che è in realtà rabbia per il suo sentirsi impotente davanti a ciò che sta attraversando; perché si sente priva degli strumenti adatti ad affrontare questa fase e, come spesso accade in casi simili, l’ira e il rifiuto si riversano sui genitori, in questo caso su quella che è presente, sempre e comunque.
È così che dal nulla, durante una cena, Frankie chiede alla madre perché ha lasciato Xander: non tanto perché Frankie debba decidere da che parte stare, ma perché realizza per la prima volta (Max ci è già arrivata) di essere stata tagliata fuori dalla verità, una verità di cui i figli hanno disperatamente bisogno e che i genitori sono sempre più restii a condividere, nel tentativo di proteggere la prole. “These little white lies” è il nome della poesia che Frankie e due sue compagne portano in concorso nel penultimo episodio ed è lì che Sam inizia a capire cosa voglia dire per un figlio sentirsi dire “Ci separiamo, ma non cambierà nulla” quando in realtà tutto è destinato a essere rivoluzionato; Sam inizia a comprendere che per capire la verità dentro di sé, Frankie ha bisogno di fare chiarezza in quella che è stata la sua vita fino a lì. Questo non rende certo giustificabili i suoi comportamenti o i suoi modi di rispondere alla madre, ma l’allontanamento finale, quella scelta di Frankie di andarsene da casa, è davvero simbolica della necessità di distaccarsi dalla madre per poter capire davvero, da sola, chi è. Il fatto che possa farlo è segno della libertà (eccessiva, forse discutibile, chi siamo noi per giudicare?) con cui Sam ha sempre cresciuto le figlie: ed è quella libertà che le vede sempre, in un modo o nell’altro, tornare a casa – fosse anche solo per dare un biglietto di compleanno e fare un bagno nella vasca.
Hey, Cookie. Guess what. I didn’t make it. You made it.
So here’s the kick in the nuts.
Now what are you gonna do?
Quando si cresce, quando si arriva a determinate pietre miliari della propria vita, è inevitabile confrontarsi con le figure genitoriali, e il discorso non vale solo per Frankie, ma anche per la protagonista: se Pamela Adlon ha già più volte affrontato il discorso del rapporto di Sam con sua madre – non che sia terminato, anzi –, pare ovvio, per non dire obbligatorio, che questo sia il momento del confronto con la figura paterna. Sembra ovvio per diverse ragioni – avevamo già avuto, attraverso Duke, delle incursioni nella tematica del sovrannaturale, dunque un confronto col fantasma paterno appare perfettamente in linea col mood della serie –, la più importante delle quali non sarà chiara fino alla fine della stagione. Quel che pare evidente, e che in molti hanno voluto vedere come un riferimento innegabile, è il parallelo tra Sam e la figura del padre Murray e quello tra Pamela e lo stesso Louis CK – complice una lontanissima somiglianza dei due.
Murray è la presenza con cui confrontarsi e da cui distaccarsi, quella che Sam ascolta e a cui chiede consiglio, salvo poi fare l’esatto opposto – come per la questione lavorativa, in cui il consiglio paterno di “star zitta e far parlare qualcun altro” viene completamente ribaltato da Sam, che si fa invece unica portavoce delle follie di una Hollywood capace di sfornare blockbuster milionari senza interessarsi delle esigenze delle comparse. Ma è anche la figura che davanti ai veri problemi della vita (cosa fare con la situazione di Phil) risponde con una frase senza senso per poi sparire, lasciando Sam da sola, di nuovo, a dover gestire una madre ingestibile e un fratello le cui pretese sono direttamente proporzionali ai chilometri di distanza da cui vive. Murray rappresenta il passato, e da lui le cose da imparare sono rimaste davvero poche; e non perché sia stato un cattivo padre, anzi: lo dice Sam a Duke – l’unica altra Fox della famiglia a vederlo, e la cosa non può stupire.
È stato un bravo insegnante, che se ne è andato troppo presto (prima dei cinquanta, scopriamo verso la fine della stagione, quasi a regalarci l’ultimo tassello prima della rivelazione) e che a volte manca, ma senza il quale bisogna comunque andare avanti. Sarà il season finale, “Shake The Cocktail”, a darci la chiave di lettura (narrativa, ma anche reale) della questione: Sam compie cinquant’anni, supera l’età che aveva suo padre quando è morto. “Ora cosa farai?” dice Murray; lo dice a Sam, figlia che ha superato il padre e che ora deve “volare da sola”. Ma se è vero che in questo parallelo si nasconde anche un tributo/addio all’amico e mentore, allora possiamo davvero dire che con questa stagione Pamela Adlon abbia superato il maestro e sia anche lei, come la sua protagonista, pronta a superare la crisi per volare ancora più in alto.
Sin dalle prime puntate dello show è parso chiaro a tutti che Better Things fosse una serie destinata a grandi cose, perché con il suo semplice parlare di “quotidianità” è sempre riuscita a far passare messaggi molto più complessi (e molto meno scontati) sulle difficoltà della vita di una donna, madre single intorno ai 40 anni. Ciò che stupisce, arrivati alla fine della terza stagione, è come Pamela Adlon continui a farlo innovandosi costantemente, senza mai essere ripetitiva, parlando di una donna di classe medio-alta senza per questo allontanarsi dalle problematiche di qualunque donna di quell’età e immersa in situazioni uguali o simili. Possiamo dirlo senza timore di smentita: con questa stagione Pamela Adlon ha dimostrato definitivamente di essere tra le voci più importanti di questa era televisiva.
Voto stagione: 9