Non sempre le delusioni sono le cose peggiori in circolazione, dipende molto da dove piazzi l’asticella delle aspettative, dalle premesse (e dalle promesse) del progetto in questione e dal rapporto tra gli esiti finali e le potenzialità iniziali. Dopo un’attesa spasmodica, nomi importanti coinvolti e un inizio particolarmente incoraggiante, Run si è rivelata una delusione, cioè un prodotto che sarebbe potuto diventare qualcosa di molto più consistente ma che ha finito per essere abbastanza impalpabile, al netto delle cose interessanti che pure non sono mancate.
A inizio anno Run era una delle serie più attese, in particolare per via della preesenza di Phoebe Waller-Bridge come produttrice e come attrice, la quale può vantare un enorme credito dopo Fleabag e Killing Eve, facendo quindi schizzare alle stelle l’attenzione verso questo nuovo half-hour targato HBO.
In effetti il pilot era tremendamente efficace, perché caratterizzato da una scrittura in grado di introdurre alla perfezione i personaggi usando veloci ma affilate linee di dialogo, esaltando così una struttura e un concept di partenza basati sull’imprevedibilità e sui non detti. Tutto ciò che Run non mostra è accattivante, ma in una serie di soli sette episodi da venticinque minuti questo discorso inizia a essere presto molto fragile, perché arriva immediatamente il momento in cui bisogna mostrare e raccontare le cose con coraggio e senza nascondersi dietro il fuori campo, che sia visivo o narrativo.
Al centro del successo dello show, o quantomeno dell’attenzione ricevuta in partenza e del gradimento ottenuto dai primi episodi, oltre alla giovane produttrice britannica c’è una coppia di protagonisti perfettamente assortita, in cui Domhnall Gleeson trova un ruolo degno del suo talento e soprattutto Merritt Wever dà corpo e voce a una protagonista femminile che finalmente non è interpretata dalla solita ragazza magra con occhi e labbra grandi che, pure quando parla e si comporta in modo femminista, non può non far pensare anche a un ammiccamento allo sguardo maschile. Mettere in un ruolo del genere una donna come Wever significa normalizzare la coolness, significa ampliare enormemente il ventaglio della rappresentazione dando la possibilità a una fascia molto più ampia di donne di immaginarsi nei panni del personaggio. A questo si aggiunge anche il fatto che stiamo parlando di un’attrice eccezionale, che ha dimostrato il suo enorme talento anche in show molto validi come Godless e Unbelievable e che qui dà una prova di grande versatilità passando senza soluzione di continuità da registri drammatici ad altri più brillanti.
Alla luce di ciò e fatte tutte le premesse necessarie, che non esauriscono i pregi di questa serie che comunque non sono pochi, va ad ogni modo ribadito che arrivati al termine della prima stagione di Run si rimane delusi. Come mai? Con il passare degli episodi la serie si è rivelata più interessante per quello che non diceva che per quello che diceva, tanto che una volta dipanata la trama il racconto si è rivelato abbastanza tradizionale, così come la caratterizzazione dei personaggi principali, con Ruby che rientra quasi perfettamente nella donna che è stata imprigionata da una vita borghese non sapendo più neanche se ha voglia di uscirne e Billy in quello dell’uomo di talento scapestrato che però con gli anni si trova senza nulla in mano.
E anche il racconto non può che essere vittima di questi cliché, perché quando hai a disposizione così poco tempo e una narrazione così tanto definita dal fatto di essere sempre in fuga non puoi che attaccarti a dei canovacci, come fanno le autrici della serie sottolineando la mancanza di sincronia tra i due personaggi, con lui non pronto a impegnarsi quando lo era lei e viceversa. A partire da questa rigidità narrativa anche le storyline secondarie appaiono sacrificate, con il personaggio interpretato da Phoebe Waller-Bridge e quello della poliziotta che avrebbero meritato molto più spazio, invece che di essere solo dei riuscitissimi comic relief; così come sarebbe stato interessante sapere qualcosa in più su Laurence in modo da inquadrare meglio la condizione psicologica della protagonista.
Non bastano una premessa di partenza intrigante e dialoghi spesso taglienti e ottimamente recitati per fare una buona serie, e forse anche questa progressiva contrazione dei formati – sia per la durata dei singoli episodi sia (soprattutto) per il numero di episodi a stagione – non deve essere presa solo come una trasformazione positiva, ma anche come una tendenza che non può non avere al suo interno anche una serie di insidie da non sottovalutare.
Dark comedy della stessa lunghezza hanno dimostrato che per sostenere questo tipo di formato bisogna avere chiaro nella testa cosa si vuole raccontare, in modo da esaltare sia il singolo episodio sia una struttura che deve per forza di cose preparare la conclusione in modo che quest’ultima venga esaltata dall’intero percorso. Barry, ad esempio, in entrambe le sue stagioni ha lavorato perfettamente in questa direzione, non sedendosi mai sulla trama orizzontale ma al contempo costruendo un intreccio in grado di porre il finale come un climax profondamente coerente.
In Run invece qualcosa è andato storto, perché la serie ha iniziato ad aprirsi a ventaglio e, quando tutto sembrava aver introdotto una serie di linee narrative da portare avanti e di personaggi tutti da sviluppare, è arrivata la conclusione, in maniera abbastanza scioccante dal punto di vista strutturale, come se fosse un epilogo forzato.
Come sarebbe Run senza la chimica eccezionale tra Merritt Wever e Domhnall Gleeson? Anche questa non è una domanda banale, perché se leviamo questa componente dal gioco sono tante le ragioni per essere frustrati, a partire da un sottotrama thriller che viene inserita a un certo punto per poi essere completamente abbandonata insieme al personaggio di Fiona, il cui utilizzo è stato abbastanza insensato. L’interazione tra i due personaggi secondari della parte finale della stagione, poi, diventa forse la cosa più interessante (per quanto solo abbozzata), perché la micro-storia lesbica almeno funziona come espediente comico e irriverente, al contrario della relazione tra Ruby e Billy che procede tra dichiarazioni d’amore e tentativi di smascheramenti reciproci che dopo poco diventano un po’ troppo uguali a loro stessi.
Run non è una serie da bocciare e alcune sue premesse positive non possono essere eluse, dal setting ferroviario alla splendida interazione tra i due interpreti principali, passando per una serie di monologhi particolarmente riusciti, ma è proprio per questo che finisce per essere una grande delusione, perché tutto il resto funziona così male da sprecare un potenziale ottimo. Visto il finale è lecito aspettarci una seconda stagione alla quale chiedere di correggere alcune cose e di fare maggior attenzione sia alla struttura narrativa sia alla messa a fuoco delle motivazioni dei personaggi.
Voto: 6