“I was working overnight in the company’s offices; I had an episode due at 7am. I took a break and had a drink with a good friend who was nearby. I emerged into consciousness typing season two, many hours later. I was lucky. I had a flashback. It turned out I’d been sexually assaulted by strangers” – (“Stavo lavorando di notte negli uffici dell’azienda; dovevo consegnare un episodio alle 7 del mattino. Ho fatto una pausa e sono andata a bere qualcosa con una cara amica che era in zona. Sono tornata cosciente di me mentre stavo scrivendo la seconda stagione, molte ore dopo. Sono stata fortunata. Ho avuto un flashback. È venuto fuori che ero stata aggredita sessualmente da degli sconosciuti”).
Con queste parole Michaela Coel – autrice, interprete, sceneggiatrice e co-regista della serie BBC, poi andata in onda anche su HBO, I May Destroy You – nel 2018 rivelò durante il festival Edinburgh International Television che aveva subito una violenza sessuale mentre lavorava alla seconda stagione di Chewing Gum, la serie che ha portato Coel a essere conosciuta dal grande pubblico. Il discorso, che si può trovare interamente online, arrivò poco dopo la rivelazione del suo nuovo progetto per BBC Two, all’epoca chiamato January 22nd, presentato come uno show che avrebbe esplorato il tema del consenso in ambito sessuale nel mondo contemporaneo.
L’idea di lavorare ad una serie partendo da un evento autobiografico così traumatico come quello di una violenza sessuale, aggravata dall’uso delle tristemente note “droghe dello stupro”, era già di per sé un progetto potentissimo: sebbene esistano molte opere, appartenenti a medium diversi, che raccolgono le testimonianze reali di donne che hanno subito abusi per creare prodotti ora completamente autobiografici, ora mescolati a elementi fiction, il passo in più compiuto da Michaela Coel risulta evidente sin da subito, a partire dal pilot.
Partiamo quindi dalla trama di base della serie: la protagonista, Arabella, è una scrittrice londinese emergente – scoperta su Twitter e diventata famosa con un libro basato sulle sue riflessioni social – di cui facciamo la conoscenza mentre è alle prese con la scrittura del secondo libro, commissionato dalla sua agenzia. Il primo episodio – su 12, tutti della durata di circa mezz’ora – si occupa innanzitutto di creare il background lavorativo e relazionale di Arabella, ma soprattutto di descriverci la sua persona: una donna che approfitta dei rimborsi spese dell’azienda per andare a Ostia, ufficialmente a “cercare l’ispirazione”, ufficiosamente per divertirsi e passare del tempo con un uomo che frequenta, Biagio, spacciatore italiano; una donna che non fa mistero dei suoi abusi di alcol e droga, che passa il tempo a divertirsi rimandando costantemente l’elaborazione della bozza da presentare ai suoi capi; una donna, insomma, che non corrisponde in alcun modo a quello che la società disperatamente vuole quando si tratta di violenza sessuale, cioè la “vittima perfetta”.
Arabella è l’esatto opposto, e qui c’è il primo, grande passo rivoluzionario di Michaela Coel: se ogni volta che si parla di violenza sessuale la priorità sembra essere quella di controllare non il background dello stupratore ma quello della vittima – che se già aveva bevuto di suo, beh, insomma, un po’ se l’era andata a cercare, no? –, qui, prima ancora che la violenza avvenga, le cose vengono messe subito in chiaro. Arabella è un personaggio che rifugge da qualunque necessità di santificare le vittime di abusi: e questo non cambia – non deve cambiare – di una virgola la gravità di ciò che le accade. Il profilo della vittima di stupro, ancora nella nostra società contemporanea, deve essere più pulito di una donna angelicata, altrimenti non si può non includere una sua responsabilità in quanto le accade – e quante volte abbiamo sentito uomini e donne insinuare che con quella gonna, a quell’ora, in quella strada, se a una donna succede qualcosa avrebbe dovuto aspettarselo. Michaela Coel non mette nemmeno sul piatto della bilancia queste questioni nella costruzione di Arabella: è completamente fuori discussione che il suo aver bevuto e assunto droghe prima di essere drogata da qualcun altro abbia anche solo un minimo di peso nel tremendo gioco delle responsabilità di una violenza sessuale. Anche qui, come nella vita reale di Coel, Arabella si “sveglia” mentre sta scrivendo negli uffici dell’azienda; anche per Arabella la realtà arriva a ondate, con flashback che le danno stralci di ricordi ma assolutamente nessun indizio sul suo stupratore.
Se il discorso si fosse fermato qui, se il progetto di Coel si fosse “limitato” a raccontare un’esperienza simile da questo punto di vista – la presa d’atto della violenza subita, la decisione di andare dalle forze dell’ordine e quindi parlare anche dell’approccio che la polizia può avere davanti a un caso del genere, il tentativo di “razionalizzare e andare avanti” con tutti i limiti che questo comporta – saremmo stati comunque davanti a un’opera di spicco di questo 2020, e probabilmente degli ultimi anni. Ma la serie non si ferma nemmeno qui: l’idea, come si diceva, di “esplorare il tema del consenso nella contemporaneità” diventa per Coel il senso vero del suo progetto, ed è qui che entrano in gioco gli altri personaggi della serie, che orbitano intorno ad Arabella ma che non esistono solamente in sua funzione, anzi. Gli amici più stretti, Terry e Kwame, sono a loro modo anche loro protagonisti, perché dall’idea iniziale di prendere il concetto di “consenso” nel suo unicum e di sezionarlo, sviscerarlo e analizzarlo alla luce dei filtri del mondo di oggi, ne deriva una attribuzione personalizzata di ciascuno di questi temi, per cui ogni personaggio che appare in scena oltre i già citati è di fatto portatore di uno di questi singoli strati della grande questione “consenso”.
Si parla di violenza su omosessuali (spesso poco considerata sia a livello sociale che giudiziario), inganno, stealthing (pratica per cui un uomo si toglie il preservativo poco prima della penetrazione senza accordo col partner, ma anche eventuali perforazioni del preservativo, da entrambe le parti: in alcuni paesi tra cui l’Inghilterra è illegale, in altri come l’Italia no), fino alle sfumature più sottili e meno trattate di tutto ciò che riguarda il consenso, che potrebbero andare tutte sotto lo stesso cappello – una generalizzazione, ovviamente – “cose importanti non comunicate a un partner in ambito sessuale, forzature all’apparenza anche minime ma non per questo meno gravi”.
Ciò che colpisce in questo ampio progetto di disamina del consenso è proprio come Coel abbia deciso di parlare di tutte queste parti indipendentemente dal fatto che al centro della storia ci fosse uno stupro: come a dire, ci sono diverse sfumature di violenza sessuale, alcune sono evidentemente più gravi, ma questo non rende le altre meno significative.
Tutto questo discorso è a sua volta inserito in quel contesto, la contemporaneità, che sta cambiando completamente il modo con cui ci si relaziona all’altro: di conseguenza mutano le tipologie di approccio e dunque anche le modalità con cui ad oggi è possibile abusare di qualcun altro, ferire se stessi, silenziare o amplificare la propria o altrui voce. In quest’ottica la serie si cala completamente all’interno del nostro tempo, inserendo nelle dinamiche tra i personaggi fattori come l’influenza dei social, l’utilizzo di app come Tinder e Grindr per raccontare quanto questi mezzi possano aiutarci a vivere meglio ma anche, potenzialmente, rovinarci l’esistenza se non siamo in grado di porre un limite all’influenza che hanno su di noi. Esemplare in questo senso il nono episodio, “Social Media is a Great Way to Connect”, in cui l’uso dei social da parte di Arabella, nato con le migliori intenzioni – aiutare se stessa e gli altri attraverso una connessione su larga scala e una condivisione dei traumi che aiuti a sentirsi meno soli –, finisce col diventare un’ossessione, una dipendenza, un’alienazione esponenziale dalla realtà che crea solo temporaneamente un senso di sollievo e benessere, per poi gettare la persona in uno stato persino peggiore di quello iniziale (come del resto succede con ogni dipendenza).
Fondamentale in questo caso, come nell’approccio alla violenza a inizio serie, è il rapporto con la terapia, che la stessa Michaela Coel consiglia a chiunque sia vittima di traumi (sempre dall’intervento del 2018 al Festival di Edinburgh: “For survivors of trauma: therapy is great and you can get it for free […] My mum has been a mental health specialist there for a decade, that’s how I know. It’s good to talk and engage with someone else, transparently […] – “Per coloro che sono sopravvissuti a un trauma: la terapia è ottima e potete averla gratuitamente […] Mia mamma è stata una specialista di salute mentale lì [in un centro di Londra, ndr] per un decennio, ecco perché lo so. Fa bene parlare e mettersi in relazione con qualcun altro, in modo trasparente”).
Non meno importanti sono altri due temi fondamentali nella poetica di Coel, entrambi presenti nella serie seppure con risultati differenti.
Il primo, certamente più riuscito, è legato al razzismo, allo sfruttamento che ancora oggi subiscono persone nere e di colore in ogni ambito; ma ancora di più – in modo più implicito eppure molto più potente – quanto il giudizio basato sul colore della pelle sia così presente sin dalla tenera età da alterare la forma mentis di una persona al punto da cambiare completamente l’ordine mentale ed emotivo delle priorità. Dopo aver subito lo stupro, Arabella è costretta a confrontarsi per la prima volta nella sua vita con il suo essere donna, e si confronterà, nel corso della serie, per la prima volta con violenze subdole che in precedenza non aveva mai percepito come tali. Arabella racconta: “Prima di essere stuprata, non avevo mai fatto troppo caso al fatto di essere donna. Ero impegnata ad essere nera e povera”.
È qui che il discorso femminista di Coel si manifesta in tutta la sua intersezionalità, proprio perché è dalle discriminazioni subite a livello economico e soprattutto di diritti umani che è derivata per Arabella una minore attenzione alle tematiche legate all’essere donna, e quindi una maggior tendenza a non notare forme di violenza meno evidenti, discriminazioni più sottili basate sul solo fatto di essere una donna. “Am I too late to serve this tribe called women?”, si chiede Arabella. Trapela una sorta di senso di colpa da questa domanda, una richiesta di perdono per essere arrivata forse “troppo tardi” ad unirsi alle istanze delle donne, come se fosse stata una sua precisa scelta quella di ignorarsi sotto questa luce – mentre è, al contrario, la manifestazione più chiara di come la rete delle discriminazioni possa creare danni in una persona che non possono essere né ignorati, né studiati a compartimenti stagni: ogni ambito influenza l’altro ed è sciocco pensare il contrario.
Il secondo punto nasce dal fatto che Coel sia vegana (non lo è Arabella, e questo crea un cortocircuito interessante soprattutto quando il tema viene trattato in una puntata specifica, cui si lega anche lo sfruttamento razziale) e che le istanze legate al mondo animale e più in generale alla Terra che abitiamo facciano parte di un ampliamento ancora più importante del tema dell’intersezionalità. Non è questo il luogo per approfondire questo genere di tematiche, ma ciò che è possibile dire è che questa pare essere la parte forse meno riuscita del progetto: l’idea di base di collegare il tema della violenza e del consenso a quello delle violenze praticate ogni giorno al pianeta su cui viviamo era sicuramente uno spunto notevole, tuttavia la resa si è ridotta ad alcuni accenni e montaggi troppo brevi per creare un discorso di più ampio respiro. Di certo non possiamo dire che Michaela Coel non abbia provato a inserire tutte, davvero tutte le sfumature del tema del consenso.
Una serie di questo tipo non poteva che includere al suo interno una riflessione sui concetti di vendetta, giustizia personale, necessità di confronto con il fatto di essere una vittima di abusi per poter successivamente ritrovare la propria capacità di azione individuale, per riprendere in mano la propria vita con consapevolezza e soprattutto stando ai propri termini. Impossibile in questa sede di recensione senza spoiler parlare del finale, che meriterebbe un articolo a parte solo per la genialità con cui è stato costruito; quello che si può dire è che quel titolo, I May Destroy You, che durante la visione della serie sembra cambiare referenti costantemente, racchiude in sé la chiave dello show, nonché della rivoluzionaria visione di un’autrice così eccezionale come Michaela Coel.
Il consiglio è ovviamente quello di recuperare la serie il prima possibile, con la consapevolezza che molto di quello che si vedrà potrà mettere in discussione alcune di quelle apparentemente granitiche certezze che ci siamo costruiti nel corso della vita; ma siccome crescere – e si cresce sempre, a qualsiasi età – vuol dire soprattutto mettere in dubbio ciò che pareva certo e andare verso il nuovo con spirito critico ma anche con mente e cuore aperti, non si può che riconoscere ad I May Destroy You un ruolo fondamentale in questo processo conoscitivo.
NOTA:
Questo articolo fa parte della rubrica estiva “Recuperi Seriali 2020“: durante il mese di agosto parleremo, con articoli senza spoiler, di alcune delle serie 2020 di cui non abbiamo avuto l’occasione di parlare e che secondo noi andrebbero assolutamente recuperate!
Mi manca ancora qualche puntata, ma per ora sono due i punti che più mi hanno impressionato di questa serie: il primo è la naturalezza, quasi commovente, con cui tratta tematiche (o semplicemente fatti quotidiani) che non si vedono MAI in televisione o al cinema; il secondo è la complessità dei personaggi, soprattutto il loro avere un sacco di difetti ed un sacco di pregi allo stesso tempo, impedendo di dare giudizi immediati come “buona/cattiva persona”. Serie fondamentale e imperdibile comunque!
Assolutamente d’accordo! Sul primo punto mi verrebbe da citare, senza fare spoiler, una scena tra Arabella e Biagio che da donna, giuro, non pensavo avrei mai visto in televisione (normalizzare certi argomenti è il primo passo per farli uscire dall’area del tabù).
Il secondo punto è altrettanto importante, senza spoilerare nulla, io ho amato come Terry ad esempio sia una grande amica ma anche inaffidabile, sul momento volevo prenderla a sberle ma la verità è che le persone sono così, non sono una cosa sola. Davvero, una serie che ha molto da insegnare su come si scrivono i personaggi per la tv contemporanea!
Sì pensavo proprio a quella scena con Biagio in effetti!