L’opera prima di Luca Guadagnino all’interno della serialità televisiva chiude la sua prima stagione all’ottavo episodio, un season finale che si concentra interamente su Fraser e Caitlin e che ci riporta quindi all’inizio, a quella sorta di doppio pilot che raccontava la stessa storia osservata da due punti di vista diversi – quelli appunto dei due ragazzi. Ciò che è successo nel mezzo, e che riguarda gli altri personaggi di We Are Who We Are, non è un di più, non è di minore rilevanza solo perché messo da parte nella chiusura: è al contrario l’unico strumento che ci permette di comprendere il percorso di Fraser e Caitlin, di non cadere nel tranello delle interpretazioni superficiali, e in definitiva di capire il senso ultimo del progetto di Luca Guadagnino, scritto insieme a Francesca Manieri e Paolo Giordano, in onda su HBO e Sky Atlantic.
Come era ben spiegato nella nostra recensione delle prime due puntate, l’elemento tipico della poetica di Guadagnino, che vede nel luogo temporaneo il setting d’elezione delle sue storie, si ripresenta qui con la scelta della base militare come ambientazione per una storia che di temporaneo non ha solo quello, ma letteralmente qualunque cosa venga messa in scena.
A partire dal titolo delle puntate – che è sempre “Right Here, Right Now” seguito dal numero dell’episodio – quello a cui noi assistiamo è un racconto di una parte precisa della vita di queste persone, transitoria tanto per noi quanto per loro: non è un caso infatti che questa stagione si apra con l’arrivo di Fraser alla base e si chiuda con la partenza sia sua che di Caitlin alle porte.
Ma il ragionamento che si può fare sulla bolla temporale presa in esame dall’opera di Guadagnino è qui ancora più amplificata dal discorso sulla fluidità identitaria che sta alla base di questa stagione: se volessimo infatti leggere il titolo della serie e il titolo delle puntate come un tutt’uno, avremmo “We Are Who We Are, Right Here, Right Now”, ossia “ Noi siamo quelli che siamo, proprio qui, proprio ora”. Due assunti che sembrano apparentemente contraddittori – “Io sono quello che sono”, alla pari di “io sono fatta/o così”, è la frase per eccellenza di chi non vuole cambiare, di chi si vede in un determinato modo e non prende neanche in considerazione la possibilità di essere diversa/o da ciò che è –, ma che letti così, insieme, ci offrono da subito la chiave di lettura per questa serie, sia per i due protagonisti che per tutti i personaggi mostrati.
Il concetto legato alla propria identità, soprattutto durante l’adolescenza, non è stabile ma è fluido; cambia in continuazione, e questo non solo in un’ottica di genere, ma sotto qualunque profilo. Questo però non vuol dire che allora quei cambiamenti, in quanto transitori, abbiano meno valore, anzi: sarà esattamente la somma di quei momenti a condurci ad altre risoluzioni identitarie, che riterremo forse anche fisse e immobili fino a quando scopriremo che potrebbero addirittura cambiare di nuovo. Quello che siamo, nel qui e ora, potrebbe modificarsi nel prossimo qui e ora, e nessuno di questi due momenti perderebbe il suo peso, anche qualora le due prese di coscienza fossero una opposta all’altra.
“I think that Caitlin learns the very harsh lesson that the identity is constantly shifting.
I think she understands in that moment, with great sorrow, that she probably doesn’t want to be what she thought she wanted to be. But in this sense of defeat that she feels, she also finds something revelatory, something painfully beautiful.”*
– Luca Guadagnino, Inside the episode 8 –
In un ambiente e in una vita in cui questi ragazzi sono costretti alla temporaneità – dei luoghi, dei legami – Fraser e Caitlin si trovano e si riconoscono nella loro medesima necessità, ossia trovare qualcuno che li ami per quello che sono anche se quello che sono non è chiaro nemmeno a loro. L’accordo che i due intraprendono fin da subito, cioè quello di passare anche per coppia agli occhi degli altri ma di non esserlo affatto – “We’re never gonna kiss”, dall’episodio 3 –, li mette nelle condizioni di svelarsi nelle loro vulnerabilità e di mettersi a nudo in un modo che altrimenti non sarebbe stato possibile. Il loro fidarsi ciecamente l’uno dell’altro, al punto quasi di fondersi con l’altro (pensiamo a Caitlin che tocca Fraser per sapere come sia per un uomo urinare, o Fraser che veste Caitlin, le rasa i capelli o la aiuta a crearsi barba e baffi), ricorda molto da vicino il concetto di base di “Call Me By Your Name”, nello specifico proprio l’idea di chiamare l’altro col proprio nome: Caitlin ha bisogno di sentirsi un po’ come Fraser e Fraser ha bisogno di sentirsi un po’ come Caitlin, ed entrambi hanno bisogno di vedere se stessi come se fossero nella testa dell’altro.
Il fatto che l’ultimo episodio veda i due trovarsi veramente, capire che questo “tenersi a distanza” come coppia li abbia in realtà avvicinati molto più che attraverso qualunque altro tipo di rapporto, non deve però far pensare che allora il racconto sia stato tutto un grande errore; che la storia del ragazzo gay e della ragazza che non si sente donna e che intraprende un percorso di transizione FtM (female to male) siano stati gettati alle ortiche per una più conservatrice conclusione “ragazzo e ragazza pensavano ad altro ma alla fine si sono innamorati”.
Questo è forse l’errore più grande che si possa fare davanti a questo season finale, nei confronti di entrambi i personaggi ma soprattutto di Caitlin: il loro è e rimane un percorso che ci racconta la fluidità identitaria, in particolare di questa generazione; il fatto che loro si riconoscano uno come àncora dell’altra, che si bacino e che trovino nell’altro quell’amore di cui sentono di aver bisogno, non vuol dire null’altro se non che quello di cui hanno bisogno in quel momento è quello – che potrebbe benissimo essere un bacio nell’alba di Bologna e nulla più, del resto entrambi stanno per partire dall’Italia con le loro famiglie.
Il discorso si fa poi ancora più complesso nel caso di Caitlin: il suo non riconoscersi nel suo corpo di donna l’aveva portata in automatico a pensare che se allora non si sentiva donna, doveva per forza sentirsi uomo; ma questa è una visione figlia di una società che divide ancora il mondo in modo binario, che non considera quello che è invece l’assunto di base di questa serie – la fluidità, appunto, e in questo caso la possibilità di essere non-binary. Quella “dolorosa bellezza” di cui parla Guadagnino nella citazione sopra, e che si riferisce alla scena del bagno in cui Caitlin si lava via dal viso la barba, ha esattamente lo stesso valore di quel bacio: non è e non vuole essere una negazione di quello che i ragazzi hanno vissuto fino a quel momento, bensì la presa d’atto del fatto che forse c’è altro per loro; che possono essere “quello che sono”, ma al contempo seguire il loro sentimento e il loro desiderio nel “qui e ora”.
Non a caso Francesca Manieri, nello stesso Inside the episode 8, dichiara: “Penso che a noi stesse a cuore, che a me stesse a cuore, da anni, riflettere su una semplificazione che viene fatta sul concetto di identità nell’era contemporanea, e su cercare di porre l’attenzione non più sull’identità, sul genere, ma sul desiderio”.
E del resto la stagione ci ha raccontato il desiderio nel modo più anticonvenzionale possibile, soprattutto se si considera l’ambientazione che, al contrario, è invece la rappresentazione dell’ordine e dell’ubbidienza a regole ferree senza possibilità di appello. Vediamo tutti, adolescenti ma anche adulti, vivere una vita che da una parte è assolutamente rigorosa, mentre dall’altra esce in continuazione dagli schemi: ne è un fulgido esempio il quarto episodio, in cui il desiderio di vita dei ragazzi, di essere loro stessi in base a quello che sentono in quel momento, si concretizza prima con un matrimonio improvvisato, poi con i festeggiamenti nella “villa dei Russi senza i Russi”.
Un luogo, quest’ultimo, che rappresenta il vero contraltare rispetto alla base militare: è l’isola felice dei ragazzi, il loro non-luogo, mostrato in una puntata che si conclude con la partenza anticipata di Craig e che tornerà come rifugio nell’episodio in cui arriverà la prevedibile ma devastante notizia della morte del giovane soldato. È l’unico luogo dove i ragazzi danno sfogo a quello che sentono in modo libero, provocatorio e al contempo perfettamente naturale: e in questo senso è d’obbligo riconoscere a Guadagnino quanto il quarto episodio riesca a viaggiare in modo esemplare su quella linea sottile che divide la sperimentazione dall’esagerazione. Bastava poco, pochissimo per cadere dall’altra parte, proprio perché si spinge molto sull’acceleratore, e invece il risultato è l’episodio migliore della stagione e uno dei migliori di questa annata seriale.
È un discorso che vale, e moltissimo, per l’adolescenza, ma che di certo non lascia fuori gli adulti di questa storia: senza dover necessariamente ripercorrere le relazioni o i rapporti tra i vari personaggi, è però da notare il fatto che il desiderio stesso sia vissuto in modo davvero spontaneo – e questo nel bene e nel male, al di là di ogni giudizio – da praticamente tutti gli adulti messi in scena: le coppie hanno più struttura – più regole, potremmo dire – rispetto ai ragazzi, ma in fondo è solo una facciata. Il sentimento e il desiderio interni alla coppia, o al contrario il desiderio esterno – come nel caso di Maggie e Jenny – seguono la temporaneità tanto quanto quello dei loro figli, anche se cercano di apparire più equilibrati. La prova ce la offre proprio il penultimo episodio, quando Sarah (una eccellente Chloë Sevigny) dimostra di aver sempre saputo tutto di sua moglie e di Jenny – e ci informa del fatto che non è certo la prima volta – subito dopo aver già discusso l’opzione di un ricollocamento lontano da Chioggia.
È tutto in bilico, tutto legato al momento in cui si sta vivendo: ed è così che possiamo interpretare anche la scelta registica di bloccare dei frame in momenti ben precisi durante le varie puntate, come delle istantanee che racchiudono in sé tutto il significato di quel momento, indipendentemente dal fatto che il futuro possa o meno metterlo in discussione.
“We wait for the order to relocate and we move. That’s life. You should know that by now”
“That’s your life.”
Tutto questo è quindi espressione di un’esigenza di libertà nella costruzione del proprio sé che però fa a pugni col contesto in cui è inserita, come si diceva più su, ed è proprio nella singolare ambientazione l’intuizione più efficace di Guadagnino: potremmo insomma dire che lo stesso discorso effettuato in un luogo diverso da una base militare sarebbe stato meno d’impatto, meno comprensibile. In un contesto in cui i ragazzi, ma anche i loro genitori, devono ricostruirsi una vita, rapporti e amicizie ogni volta che cambiano base militare, è non solo ovvio ma anche necessario che “vivere nel momento” e dare valore al “qui e ora” sia la cosa più importante in assoluto, per il semplice fatto che non si può puntare al lungo termine: tutto è transitorio, tutto è destinato a cambiare, il migliore amico di oggi non sarà molto probabilmente quello dell’anno prossimo, e se questo è già vero per ogni adolescente lo è ancora di più in questo caso.
La necessità di essere liberi di sentire, e di sentirsi, in ogni modo che si reputi opportuno nasce come controcanto della costrizione a cui sono obbligati dalla vita che conducono: e se gli adulti reagiscono in determinati modi avendo però scelto quella vita, i loro figli – che quella vita la subiscono – non possono che avere reazioni ancora più estreme, non solo quindi per la loro età ma anche e soprattutto per il contesto in cui sono.
Questo era un concetto che poteva rischiare di apparire quasi didascalico se fosse stato sottolineato fin dall’inizio, e invece non è stato così: la rivendicazione di un figlio che dice al genitore “questa è la tua vita, la tua scelta, non la mia” arriva infatti solo alla fine, in quell’ottavo episodio in cui ci si prepara all’ennesimo trasferimento.
Per tutta la stagione siamo portati a vedere ragazzi che sono abituati a vite molto diverse da quelle dei loro coetanei, esistenze che ricalcano il modello della vita normale, con queste basi militari che assomigliano a delle piccole cittadine, ma che in realtà sono una finzione di cui i ragazzi sono ben consapevoli: è proprio Britney a spiegarlo a Fraser nel pilot, quando gli dice che i supermercati di tutte le basi militari sono identici fino all’ordine delle corsie, proprio per ricreare un senso di familiarità, di stabilità che è però fasullo e che non inganna nessuno. Ed è per questo che i rapporti tra questi ragazzi sono così forti, intensi, sentiti: perché devono condensare in un tempo brevissimo una vita intera, quella che non avranno la possibilità di vivere insieme non perché banalmente la vita potrà dividerli, ma perché è già scritto che la loro vita (anzi, la vita dei loro genitori) li dividerà.
Una riflessione sull’identità a tutto tondo, dunque, non poteva che arrivare da un connubio tra tutte queste caratteristiche così peculiari, e per questo si può dire che il progetto di Guadagnino abbia trovato una formula praticamente perfetta per restituire proprio il discorso al centro della narrazione, e che il titolo della serie e delle puntate spiegano così bene.
Queste otto puntate di We Are Who We Are chiudono quella che lo stesso Luca Guadagnino chiama “stagione 1”, cosa che quindi non può portarci ad escludere un prosieguo della serie; questo, oltre a farci ben sperare riguardo al progetto complessivo, apre anche alla possibilità che il racconto riprenda a seguire almeno alcuni di questi personaggi, portando così avanti il discorso sul loro percorso di accettazione del sé che ha ancora parecchi spunti da approfondire.
Per quanto riguarda questa stagione, c’è davvero poco da criticare in un’ottica complessiva; sicuramente l’inizio non è stato dei più incoraggianti, sembrava quasi non riuscire a mostrare quale fosse il vero punto del racconto: c’era un’aria di confusione, di incompiutezza, che può aver allontanato qualcuno dall’idea di proseguire. La realtà è che già a partire dal secondo e soprattutto dal terzo episodio il discorso si è fatto più chiaro, nel suo obiettivo di voler effettivamente lasciare il pubblico confuso ma in modo positivo, nel senso di privo di inutili certezze e aperto invece a tutte le possibilità che si configurano per questi personaggi, a tutto quello che queste persone vogliono essere nel momento in cui lo desiderano.
Per dirla, insomma, con lo stesso Guadagnino: “So, I hope the audiences feel love. I hope they feel confusion. I hope they feel restlessness. And eventually, I hope they understand all of the people that we describe.”**
Voto: 8½
Traduzioni:
* “Penso che Caitilin impari la lezione, molto dura, che l’identità è qualcosa in continuo mutamento. Penso che lei capisca in quel momento, con grande sofferenza, che probabilmente non vuole essere quello che pensava di voler essere. Ma in questa sensazione di sconfitta che prova, trova anche qualcosa di rivelatorio, qualcosa di dolorosamente bello.”
** “Quindi, spero che gli spettatori sentano l’amore. Spero che sentano confusione. Spero che sentano irrequietezza. E alla fine spero che capiscano tutto delle persone che descriviamo.”
La capacità di Gudagnino nel raccontare in un modo così violentemente intimo e sincero una fase della vita, della nostra vita, piena di confusione, di emozioni e di paure, mi inquieta! Lo dico in senso positivo perché provo davvero tanta, tanta stima in questo straordinario regista che smuove tutto e ti fa riaffiorare ricordi lontani. E lo fa sempre con un linguaggio diretto, schietto e naturale, non sempre facile da digerire, ma mai estremo e volgare. Bellissimo quello che scrivi Federica e se posso aggiungere una riflessione, direi che alla difficoltà dei giovani protagonisti di vivere in un contesto di transito perenne, si somma l’aggravante di genitori incapaci di trasmettere loro sicurezza e protezione (un paradosso visto il loro mestiere di militari/protettori universali). Non so, io ci ho visto anche una velata critica ai nuovi modelli di famiglia.
Ciao Boba Fett! Grazie mille, concordo con quello che dici (quel tuo ‘inquietante’ lo trovo particolarmente azzeccato, era più o meno quello che ho provato davanti all’episodio 4, come ho scritto nella rece. Dirò qui più prosaicamente: poteva mandarla in vacca praticamente in ogni momento, esagerando anche solo una mezza scena, un mezzo nudo in più. E invece oh, poesia).
Su quello che aggiungi: assolutamente! Come immaginerai ho lasciato fuori dalla recensione un mucchio di riflessioni, in particolare sulla inadeguatezza dei genitori. Spezzo però una lancia in favore di Maggie: l’unica che NESSUNO vede come madre, e L’UNICA che abbia un vero rapporto col figlio, senza minacce (vd il padre di Caitlin), senza follie varie ed eventuali. Di sicuro un bel giro gratis di terapia a tutti non farebbe male eh ☺️
Bravissima…!…
Grazie mille!!!