L’epoca dei Vanderbilt, Astor, Morgan, e Frick – per nominarne solo alcuni – è una delle più affascinanti della storia americana, quella in cui il mito del progresso senza limite degli Stati Uniti incontrava un’oggettiva produttività, a discapito ovviamente di intere porzioni della popolazione americana. Eppure, gran parte delle grandi opere pubbliche e private della New York contemporanea sono state fondate e foraggiate dai soldi prodotti in quel periodo storico, e se ora esistono istituzioni come il Met (Museo e Opera), o la New York Public Library lo dobbiamo proprio a loro.
Sentir dunque parlare di Julian Fellowes e HBO, insieme per una serie televisiva che racconta quel periodo storico così ricco di grandi novità, non poteva che far ben sperare. L’autore inglese, che era riuscito a incapsulare la storia britannica di inizio Novecento con Downton Abbey, si è ora confrontato con un prodotto per certi versi molto simile, ma con ideali (e sfide) decisamente più complesse. Se, infatti, il punto di attrito nella serie britannica era la differenza di classe – servitori e serviti – nella New York di fine Ottocento i problemi si concentrano invece su due direttive diverse (anche se affrontate, purtroppo, con intensità opposta a quella che ci si augurerebbe): le differenze tra nuova e vecchia ricchezza, e l’atavico dramma delle relazioni razziali in America.
A essere precisi, è proprio lo scontro tra nuovi e vecchi ricchi che si pone alla base dell’intera narrazione della serie, ovvero le differenze tra i parvenu, in questo caso rappresentati dai Russell, e the old money, quelli che la ricchezza ce l’hanno da generazioni (i nobili, si sarebbero chiamati, se gli americani non avessero fatto dell’abbandono dei titoli nobiliari un loro gran vanto), rappresentati invece dai van Rhijn. In realtà, non è che questo scontro sia effettivamente alla pari: non c’è (ancora) una volontà chiara di mettere i personaggi interpretati da Carrie Coon e Christine Baranski una contro l’altra, come ci si sarebbe aspettati. La veterana di The Good Fight, infatti, è poco più di una comparsa, rappresenta un ostacolo alla vita sentimentale della nipote e poco più. Al massimo, i riferimenti sono molto più direttamente rivolti a Mrs. Astor (questo sì un personaggio reale), la regina della vita mondana di New York, la sola che può fare la fortuna (o la rovina) di intere famiglie. È proprio lei, infatti, l’ostacolo da superare (in parte riuscendoci) nel finale di stagione.
Ad avere molto più spazio per brillare – e se brilla! – dal lato dei nuovi ricchi è proprio il personaggio di Bertha Russell, ispirato ad Alva Vanderbilt. Carrie Coon è senza dubbio la punta di diamante di questa serie, capace di dominare ogni scena in cui si trova, anche quelle in cui la vediamo sconfitta o umiliata. La volontà dei Russell (ma di Bertha soprattutto) di inserirsi tra i piani più alti della società mondana statunitense ci porta costantemente a fare il tifo per lei, facendoci dimenticare (o provandoci, quantomeno) quanto siano orribili tutte queste persone, annoiate da una vita senza alcuno scopo se non quello di partecipare a eventi e balli, in cui le attività di beneficenza non sono altro che metodi per guadagnare posti in società, e la cui vacuità intellettuale (ed emotiva) lascia spiazzati. Non ci importa, però: siamo tutti lì in attesa di scoprire se Larry potrà diventare un architetto, se Gladys farà finalmente il suo debutto in società, e se la povera Ada Brook si vendicherà finalmente delle angustie della sorella.
Ad avere molto più spazio per brillare – e se brilla! – dal lato dei nuovi ricchi è proprio il personaggio di Bertha Russell, ispirato ad Alva Vanderbilt. Carrie Coon è senza dubbio la punta di diamante di questa serie, capace di dominare ogni scena in cui si trova, anche quelle in cui la vediamo sconfitta o umiliata. La volontà dei Russell (ma di Bertha soprattutto) di inserirsi tra i piani più alti della società mondana statunitense ci porta costantemente a fare il tifo per lei, facendoci dimenticare (o provandoci, quantomeno) quanto siano orribili tutte queste persone, annoiate da una vita senza alcuno scopo se non quello di partecipare a eventi e balli, in cui le attività di beneficenza non sono altro che metodi per guadagnare posti in società, e la cui vacuità intellettuale (ed emotiva) lascia spiazzati. Non ci importa, però: siamo tutti lì in attesa di scoprire se Larry potrà diventare un architetto, se Gladys farà finalmente il suo debutto in società, e se la povera Ada Brook si vendicherà finalmente delle angustie della sorella.
Eppure, nemmeno Coon può salvarci dal lato più melenso e meno riuscito della serie, ingiustamente rappresentato da Louisa Jacobson, alle prese con uno dei personaggi peggiori visti in TV recentemente, ovvero Marian Brook: si tratta di una donna che dovrebbe voler rappresentare la modernità all’interno della classe sociale più tradizionalista, ma che in realtà si rivela altrettanto (se non persino peggio) chiusa e ottenebrata dai propri preconcetti. Tutto il suo dramma personale è consumato in una storia d’amore con un uomo chiaramente affascinato più dal potere che da lei, la quale si diverte a essere ideologicamente più libera della zia Agnes – salvo poi continuare a perpetuare perlopiù scelte classiste e che la tengono al riparo dai veri scossoni della vita: moderna solo se le torna comodo.
L’attenzione al suo personaggio è tra i punti deboli della serie – probabilmente perché l’intento autoriale era ben diverso da quello che alla fine si realizza sulla scena e la rottura della coppia ad un passo dal matrimonio appare quantomeno raffazzonata. Questa debolezza, tuttavia, va a rappresentare alcuni dei problemi della scrittura di Fellowes, il quale tende a ripetere personaggi e situazioni in tutti i suoi progetti: non solo Agnes è costruita per rappresentare il contraltare alla contessa Violet (Maggie Smith) di Downton Abbey, ma anche altri personaggi sembrano ripetere certi stereotipi, come la cameriera crudele e pronta a combinare guai, il servitore anziano punto di riferimento, i giovani poveri e innamorati, l’omosessuale nascosto che si esprime attraverso opportunismo e crudeltà; insomma, il grosso dei personaggi scritti per questa serie sono nella migliore delle ipotesi deboli, a tratti davvero sbagliati. Fellowes non ha alcun reale interesse nel parlare della parte povera della storia, più affascinato dai giri di valzer e di carrozze.
Paradossalmente, troppo poco spazio viene riservato invece al lato più interessante di The Gilded Age, pochissimo rappresentato nelle serie e film americani, ovvero la presenza nella New York di fine Ottocento di una popolazione nera non in posizione servile. Le vicende di Peggy Scott e della sua famiglia – con tanto di servitori – vanno a mostrare come ci fosse a New York una middle class nera di discreto successo, che viveva parallelamente alla più opulenta società bianca ma non necessariamente in posizione inferiore. Questo rappresenta un grande elemento dirompente rispetto a tante altre forme narrative viste negli anni e meriterebbe molto più spazio di quello che la serie è disposta a concederle. Sarebbe invece molto interessante vedere quest’altra faccia di New York, per una narrazione meno sensazionalistica ma più ricca di sottotesti.
A scanso di equivoci, l’unica cosa da non fare quando si è alle prese con The Gilded Age è approcciarvisi con uno sguardo interessato alla ricostruzione storica o persino a una conversazione più seria sui rapporti di classe e razza; la serie vuole divertire e divertirsi sullo stesso ritmo di Downton Abbey, cioè attraverso storie d’amore melense e drammatiche, scontri tra donne dell’alta società, strepitose feste e sgargiantissimi vestiti. Da questo punto di vista la serie è un autentico successo perché riesce a divertire con poco – e con una certa cura alla scenografia e agli abiti che davvero colpisce. Con quest’ottica davanti a sé, allora le cose possono essere vissute in maniera diversa e, pur consapevoli di alcuni limiti evidenti nella scrittura di molti personaggi, non si può non rimanere incantati davanti ai cappelli di Carrie Coon, all’accento georgiano di Nathan Lane, né davanti alle ricostruzioni di certi spazi metropolitani ormai persi o trasformati per sempre.
E allora la chiave per capire The Gilded Age è tutta qui: la serie di Fellowes è un feuilleton con qualche ispirazione in più rispetto a Downton Abbey, ma fondamentalmente innocuo, e che non va oltre il mero racconto degli eventi. Ci chiede di partecipare ai drammi di personaggi completamente assorbiti dai loro ego, sempre troppo annoiati per fare qualcosa di significativo, ma che si perdono tra partite di polo e svolazzi di tulle e stoffe preziose. Per sua fortuna, poi, The Gilded Age ha il potere dei soldi, e le ricostruzioni degli abiti e dei luoghi dell’epoca valgono da sole le nove ore della prima stagione.
Voto: 6 ½
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