La prima cosa che salta all’occhio di Moon Knight rispetto all’intero ecosistema di film e serie che popolano l’ormai molto grande e vario Universo Cinematografico Marvel è il suo essere apparentemente un vero e proprio standalone, ovvero un prodotto – per ora – quasi completamente slegato dalle storie e dai personaggi che già conosciamo: nessun collegamento apparente, nessuna scena dopo i titoli di coda che tenta di agganciarsi a uno dei tanti fili narrativi aperti in questa Fase 4, una caratteristica che porta in seno pro e contro che si riflettono poi sulla tenuta generale dello show.
Il lato positivo di questa caratteristica è presto detto: Moon Knight può permettersi di raccontare la storia che vuole e come vuole. Nonostante i paletti imposti dall’omogeneità produttiva del grande franchise transmediale Marvel, infatti, la serie creata da Jeremy Slater (The Exorcist, The Umbrella Academy) può permettersi uno stile molto personale – in alcune scene più violento di quanto siamo abituati e dal punto di vista narrativo meno lineare – e poco preoccupato di non tradire una certa continuity o l’evoluzione caratteriale di un personaggio che gli spettatori già conoscono.
Il lato negativo di non essere direttamente collegato ai personaggi già visti al cinema è, d’altro canto, la difficoltà nel costruire una storia e dei personaggi abbastanza interessanti da poter sorreggere da soli uno show supereroistico che, come invece è successo con gli altri show Marvel/Disney+, può invece sostenersi e alimentarsi proprio grazie ai continui collegamenti ad un universo narrativo conosciuto. Quanti dei più riusciti cliffhanger o plot twist di WandaVision e The Falcon and The Winter Soldier, per esempio, si sono basati esclusivamente sui rimandi agli eventi o ai personaggi delle pellicole cinematografiche? Questa mancanza si fa sentire in Moon Knight: nemmeno il finale, nel quale potevamo aspettarci qualche collegamento che inserisse lo show in continuity, regala questa soddisfazione, con la conseguenza di non far dimenticare i grandi difetti che affliggono lo show dal punto di vista narrativo.
Proprio la narrazione, infatti, è uno dei punti deboli di Moon Knight: i sei episodi che compongono questa prima stagione sono molto diversi tra loro ma faticano a mantenere un filo conduttore abbastanza solido da evitare la sensazione che i personaggi si muovano da un punto all’altro solo per esigenze di trama. Si pensi alle tante forzature della scrittura che spingono Marc Spector/Steven Grant a viaggiare da Londra all’Egitto e ad affrontare un viaggio pericolosissimo con Layla, il tutto in pochissimo tempo, senza la possibilità per gli spettatori di assimilare la loro relazione e le ragioni che li spingono a partire. Inoltre nonostante la chimica tra i due attori sia evidente – soprattutto grazie alla bravura di Oscar Isaac e May Calamawy – il loro rapporto è trattato in modo piuttosto superficiale, con poche linee di dialogo e con una trama più preoccupata di mantenere alto il tasso di avventura piuttosto che giustificare davvero lo scopo del loro viaggio; persino il colpo di scena che riguarda i due personaggi – la verità sulla morte del padre di Layla – non ha un grande impatto emotivo proprio a causa di come è stato mal gestito il loro screentime.
Dove invece lo show appare più riuscito è certamente dal punto di vista visivo e tecnico: se a giudicare solo dal primo episodio sembrava di essere di fronte a un prodotto scadente rispetto agli standard ai quali ci aveva abituato lo strapotere economico di Disney, il resto dello show migliora e offre una computer grafica di buon livello, perlomeno al punto che non risulti così straniante vedere delle persone viaggiare su un’imbarcazione egizia guidata da un ippopotamo che solca le dune del deserto. Gran parte del merito va anche al regista della maggior parte degli episodi, l’egiziano Mohamed Diab (Cairo 678), che fa un ottimo lavoro nel rendere coerente lo sguardo della storia raccontata dall’inizio alla fine, con l’utilizzo frequente di una particolare simbologia visiva – i richiami visivi alla luna e come questa si fonde con i movimenti del protagonista – e con una bella scelta di colori e ambientazioni che regalano alcune riprese davvero spettacolari.
Moon Knight cerca di unire questa ricerca visiva al fascino della mitologia egizia: una delle parti più intriganti della serie è difatti come vengono rappresentate le divinità protagoniste – Konshu e Ammit – e il loro contrasto millenario. Questa differenza di vedute sul tema della giustizia è alla base della serie e si rivede anche nel confronto tra i personaggi di Oscar Isaac e Ethan Hawke, entrambi in grado di regalare performance notevoli, in particolare quest’ultimo che riesce a donare uno spessore a un cattivo poco valorizzato dalla scrittura dello show. La parte dedicata alla rievocazione storica e archeologica è dunque ben fatta e non per niente al fine di evitare errori grossolani gli autori si sono affidati a degli esperti egittologi; resta un po’ di delusione sulla scelta rispetto alla rappresentazione del pantheon di divinità egizie oltre alle due principali, nella serie comodamente impersonate dai loro avatar e prettamente funzionali a far avanzare la trama, come già si diceva riguardo le caratteristiche di Moon Knight.
Uno dei temi imprescindibili e certamente più chiacchierati della serie di Jeremy Slater è, però, il disturbo dissociativo dell’identità del protagonista, caratteristica fondamentale presente fin dall’inizio dello show. Questo viene sviluppato attraverso le due identità del protagonista, antitetiche e caratterialmente agli antipodi: Steven Grant è l’inglese mite che svolge una vita normale – l’ordinary man – mentre Marc Spector è l’americano avventuroso con un passato oscuro e pieno di segreti. Queste due identità, alle quali se ne aggiungerà una terza più estrema nel finale, vengono raccontate come due personaggi diversi, con vite e ricordi diversi, che condividono un corpo e, come suggerito attraverso i richiami alla mitologia egizia, anche un’anima che non sarà mai in equilibrio finchè i due non risolvono i propri problemi. L’episodio cardine di questo rapporto è “Asylum”, il quinto, quello più introspettivo che spiega come la divisione delle identità è stato causato dai continui abusi della madre di Marc/Steven sul figlio, imputato dalla donna di aver avuto una parte di responsabilità nella morte accidentale del fratello. L’episodio in generale funziona e riesce quasi sempre a evitare la trappola di essere uno “spiegone” fatto e finito, anche grazie alla non linearità della scrittura che porta i personaggi da un’ambientazione all’altra in un viaggio quasi onirico e che fino alla fine lascia il dubbio al protagonista su quale sia la verità. Inoltre, i richiami di questo episodio ad un’altra serie su un personaggio della Marvel Comics, Legion, sono evidenti, anche se non è chiaro quanto fosse voluto.
A livello di macrostruttura narrativa c’è da sottolineare come Moon Knight, sia nelle cose che funzionano che in quelle che potevano essere migliorate, risulta come un prodotto di genere molto derivativo che tenta di rimodulare lo stile classico – per famiglie – dei prodotti Marvel su toni più dark. Il risultato è una serie di capitoli di una origin story lunga sei ore dove, sebbene ogni episodio cerchi di trovare la sua verticalità, non si può prescindere dall’analizzare l’opera nel suo complesso poiché la trama orizzontale è più importante: possiamo infatti considerare i primi due episodi come introduttivi, il terzo e il quarto ambientati in Egitto come la parte “avventurosa” dello show, quella che cita esplicitamente la saga di Indiana Jones per capirci, il quinto come la risoluzione dell’enigma e quello in cui l’eroe deve risolvere le questioni in sospeso con il suo passato, e l’ultimo come la “battaglia finale” fracassona in puro stile Marvel che tuttavia porta ad una conclusione confusa e assolutamente non risolutoria – siamo sempre di fronte a un prodotto in continuity che vorranno sfruttare in seguito in altri film o serie tv.
A conti fatti Moon Knight non è certo un prodotto pessimo, ma non è nemmeno uno di quelli che saranno ricordati in questa Fase 4 del MCU: siamo di fronte ad una classica storia delle origini in stile Marvel, e forse è questa la più grande delusione. Rispetto alle premesse che annunciavano qualcosa di diverso e mai visto prima siamo stati certamente delusi, un po’ come era successo per Loki; a conti fatti questa nuova wave televisiva dei Marvel Studios finora è stata molto al di sotto delle aspettative e l’exploit qualitativo di WandaVision appare oggi più come un’eccezione che la regola.
Voto: 6 ½
Ok, credo che mi prenderò una lunga pausa da questi show che sembra vogliano accontentare senza riuscirci un po’ tutti, eccezion fatta per quella vasta platea di youtuber dediti alle reaction. Anche qui come nelle serie precedenti, il finale rovina tutto il buono (pochino in verità) visto prima, con in particolare un episodio 5 (Asylum) al top. Secondo me anche WandaVision aveva lo stesso problema, mentre Loki, che ho particolarmente apprezzato, mi è sembrato il più equilibrato. Comunque per adesso basta così e il mio interesse per She Hulk e Ms Marvel è zero.