Copenhagen Cowboy – Stagione 1


Copenhagen Cowboy - Stagione 1Uscita il 5 gennaio, la nuova miniserie di Nicolas Winding Refn si preannunciava come un imminente gioiellino della sezione “serie internazionali” di Netflix: il regista di Pusher e Drive si ripresenta al piccolo schermo, dopo Too Old to Die Young, con un thriller-noir che promette di unire una trama avvincente al suo marchio di fabbrica del simbolismo e dello slow burn. Ma il risultato finale è tutt’altro che un capolavoro, dal momento che in 6 episodi, di circa un’ora l’uno, il focus su luci al neon e una lentezza esasperante lascia ben poco spazio alla trama, che senza essere tirata tanto per le lunghe poteva avere la durata di un solo film.

È evidente che la moda di adesso sia quella di fare serie TV, e pare che il pluripremiato regista cinematografico ne sia stato tentato per raccontare una storia che, c’è comunque da dirlo, non è affatto da buttare via. Parliamo di Miu, la ragazza con poteri propiziatori e la sua odissea per i bassifondi di Copenhagen, tra peripezie e voglia di vendetta in un altalenante equilibrio tra il naturale e il trascendente. Se è vero che, nell’arsenale di un regista e di Refn in particolare, i ritmi lenti sono un’arma potentissima per creare tensione e lasciare dispiegare la trama nella sua complessità, in Copenhagen Cowboy quest’arma si ritorce contro la serie stessa e il suo regista, tanto che già dopo 20 minuti del primo episodio, “Miu the Mysterious”, si avverte la tentazione di cercare qualcos’altro da guardare, dal momento che vicenda e personaggi vengono appena abbozzati per poi essere lasciati in stallo per buona parte del tempo. Bisogna invece aspettare i minuti finali del pilota per vedere la storia prendere forma e far sì che inizi ad appassionare, anche grazie all’interpretazione di Angela Bundalovic (The Rain) che dipinge un personaggio ermetico lasciandone solo intravedere la profondità, sbilanciandosi quanto basta con la mimica facciale e centellinando ogni movimento – almeno fino alle scene di combattimento finali, spiazzanti e suggestive allo stesso tempo.

Copenhagen Cowboy - Stagione 1Miu appare come una super eroina uscita da un fumetto, con la sua tuta e giubbotto blu acceso, con la posa timida, elegante, sempre in allerta. L’impressione iniziale è che si muova, incorporea e fuori luogo, in balìa degli eventi, salvo poi apparire sempre in controllo delle situazioni in cui si trova immischiata. La simbologia, di Miu e della serie in generale, è anche da cercare nei colori: viola, rosso e blu pesantemente calcati dalla fotografia – almeno quando esce da penombre e toni scuri – con le ultime due tinte che rispecchiano, in contrasto, la purezza, la vendetta e, se vogliamo, il bene e il male. Ma tutto ciò tende a prendere il sopravvento sulla trama (per non parlare delle sottotrame che non vengono mai davvero approfondite), con le frequenti scene di Miu intenta a muoversi tra le luci e a riempire il minutaggio, in primi piani fuori scena degne di un film grottesco/sperimentale anni ’70, con tanto di sintetizzatori e bassi in sottofondo. Si può parlare di Copenhagen Cowboy come di un buon libro appesantito dallo stile dell’autore, uno di quei romanzi che fanno immergere gradualmente nelle storie dei personaggi, ma in cui si passa volentieri oltre le descrizioni superflue di luoghi e stati d’animo. Nei dialoghi, ogni battuta è preceduta da interminabili primi piani dei protagonisti in silenzio, piacevoli e intriganti fino a un limite che viene quasi sempre sforato, senza parlare dell’abuso di estenuanti movimenti di camera in panoramica circolare tra un personaggio e l’altro, tra una battuta e l’altra. Non tutte le serie sono per tutti i gusti, ben venga, e questa non è decisamente adatta a una visione di svago ma che sa comunque farsi apprezzare dagli appassionati del lavori del regista danese; rimane un’occasione sprecata per quello che sarebbe potuto essere un piacevolissimo film della durata di massimo un paio d’ore, ripulito da tutti i tempi morti, le sottotrame lasciate in sospeso e simbologie che tutto fanno meno che dare valore al prodotto seriale. A proposito delle sottotrame, c’è da dire che non è esclusa l’uscita di una seconda stagione, e sebbene non mancasse il tempo di approfondire tutto nella prima, in quest’ultima si può comunque intravedere tutto il potenziale di cui questa serie poteva dare sfoggio. Tante cose sono lasciate all’immaginazione del pubblico – anche in positivo – e in certe scene gli stratagemmi per creare tensione fanno davvero il loro compito, a partire dalla complessità dei personaggi, appena accennata, agli indizi che creano un sottile senso d’angoscia – in ogni scena in cui sono presenti dei maiali si sa che c’è qualcosa di losco, ad esempio.

Copenhagen Cowboy - Stagione 1In conclusione, Copenhagen Cowboy si presenta come una serie che sembra non voler sviluppare il proprio potenziale: una bella trama, composta da personaggi ben scritti, sacrificata da troppe velleità di regia e montaggio, che puntano quasi tutto su una narrazione sensoriale indirizzata per lo più al pubblico di appassionati. Con un occhio attento si può cogliere la bellezza e la profondità degli episodi nel loro complesso, ma il loro scarso dinamismo non riesce ad arricchire tutto ciò, anzi lo appesantisce. Non è una serie per tutti, e minuto dopo minuto, episodio dopo episodio, fa una scrematura del pubblico portando solo i più fedeli e/o pazienti al finale di stagione – anche questo lasciato in buona dose all’immaginazione.

Voto: 5½

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