Dodici anni, sette film e due stagioni: è questo il bottino finale del personaggio di Loki, il re dell’inganno e il “villain” carismatico che anni orsono aveva battezzato la prima fase del Marvel Cinematic Universe. La storia di Loki – interpretato da un sempre brillante Tom Hiddleston – raggiunge il suo epilogo con un finale brillante, a coronamento di una stagione tuttavia non esente da difetti.
Il compito della serie Loki e la sua collocazione nella mitologia del MCU post-Endgame non sono stati problemi da poco per gli autori, e questo discorso è ancora più attuale arrivati alla seconda annata in un contesto tutt’altro che roseo per il franchise: questa volta oltre a riuscire a tenere unite le molte questioni aperte dalla prima stagione, bisognava dare il giusto addio ad uno dei personaggi più iconici e amati delle pellicole Marvel.
La seconda stagione di Loki, tuttavia, porta con sé sia i difetti della prima che i suoi punti di forza e, se per alcuni aspetti riesce a correggere il tiro (in particolare nel rapporto tra Loki e Sylvie), è proprio nella costruzione più tipicamente stagionale che la serie mostra segni di cedimento. La premessa della trama della seconda stagione è direttamente collegata a quanto visto nel finale di stagione della prima: il gruppo di comprimari si ritrova a fronteggiare le conseguenze della morte di “He who remains”, una variante di Kang, così come gli sconvolgimenti che causa all’interno della TVA.
Uno degli elementi meno riusciti di questa seconda stagione è proprio quello della caratterizzazione dei personaggi secondari, che diventano figurine di contorno al percorso individuale del protagonista. Se Sylvie aveva goduto di attenzione maggiore nel corso della prima annata, in questo gruppo di episodi non riesce ad emergere, e sembra essere utilizzata come deus-ex-machina occasionale, o personaggio da cui dipendono alcune scelte narrative, ma senza attribuirgli particolari dettagli che contribuiscano a renderlo tridimensionale e autonomo, e non l’ombra del protagonista.
La situazione non migliore per il personaggio di O.B. (Ouroboros), introdotto all’inizio di questa stagione e interpretato da un ottimo Ke Huy Quan; nonostante l’ottima messa in scena e le buone premesse sulla carta, il personaggio non ha il tempo di colpire lo spettatore – tanto per il volume di avvenimenti, che per la poca attenzione dedicatagli. Di conseguenza, quello che accade nel penultimo episodio (“Science/Fiction”) non risulta toccante né emozionante per lo spettatore: può far sorridere, infatti, il pensiero che O.B. sia anche uno scrittore sci-fi che non riesce ad emergere sul mercato editoriale, ma è una rivelazione poco impattante dato il poco screen-time fornito al personaggio.
Lo stesso accade con “1893“, un episodio quasi atipico e completamente dedicato alle vicende di Renslayer, Miss Minutes e Victor Timely. Si tratta di una parentesi interessante, ma in molti punti forzata, e nel contesto della stagione non riesce a fornire un valore aggiunto tale da giustificarne il minutaggio o la collocazione. In relazione alla stagione nella sua interezza, si tratta di una deviazione forse obbligata, ma che finisce per rallentare il ritmo degli eventi.
Non è questo il caso di Mobius che, complice il legame fortissimo con il protagonista, riesce ad emergere e ad esprimere le sue potenzialità come personaggio a tutto tondo. L’intero percorso del personaggio risulta particolarmente coerente e credibile; dalla finta nonchalance della richiesta di una fetta di torta anche nei momenti più impensabili, fino alla sua vita parallela come venditore di jet-ski, ed infine nella bellissima e toccante scena finale, in cui il Mobius della TVA osserva la vita che ha lasciato indietro, aspettando lo scorrere del tempo.
È proprio con la storyline di Mobius, però, che emergono anche le più grandi occasioni perse dalla serie: in particolare, la possibilità di fornire una riflessione acuta e non banale sul concetto di tempo, soprattutto all’interno di un mondo sfaccettato e imprevedibile come quello del multiverso Marvel. Nel percorso di Mobius si legge quello che poteva essere, ma non è stato: la serie decide di optare per una scrittura più semplice e per degli episodi action-oriented, sacrificando una lettura più profonda degli eventi che avrebbe regalato profondità e complessità allo show.
I am Loki, of Asgard, and I am burdened with glorious purpose.
Impossibile parlare di questa seconda stagione senza menzionare una delle scene più significative della storia del MCU – nonché, a tutti gli effetti, uno degli addii più emozionanti dell’intero universo, che ha il pregio di risultare totalmente in linea con la storia del personaggio. In una sorta di foreshadowing dal gusto dolceamaro, è proprio Mobius, nel corso del terzo episodio, ad indicare una serie di statue di legno raffiguranti Thor e Odino e a ricordare a Loki che lui “è uno di loro”; la scrittura della serie si fa quindi furba e accompagna con intelligenza questa “dimenticanza”, di fatto ponendo il dio dell’inganno contro situazioni progressivamente più ingestibili, e di certo non risolvibili con un semplice deus-ex-machina (pun intended).
La discesa agli inferi e rispettiva salita al trono di Loki è il coronamento di un sogno inespresso di una vita intera: il trono così a lungo desiderato, con un Loki destinato a perdere in qualsiasi timeline. La decisione di concentrarsi sul personaggio principale per il finale di serie si rivela più che giusta da parte degli autori, e la difficile salita di Loki al trono risulta essere una scena dalla carica emozionale molto forte: impossibile infatti non ricordare il dio del passato che, preso da un capriccio momentaneo, aveva deciso di far guerra alla Terra, ed è lo stesso personaggio che ora decide invece di rinunciare alla sua vita ed ai suoi giorni, pur di dare una possibilità ai suoi amici. Il percorso di maturazione di Loki risulta naturale proprio perché non snatura l’essenza del personaggio, ma anzi la evidenzia: Loki è pur sempre egoista, ma con un cuore grande e un forte desiderio di condivisione e accettazione. Proprio per le persone che più lo hanno accettato Loki compie il sacrificio definitivo, fino a trasformarsi in Yggdrasill – l’albero cosmico, l’albero del mondo. In una scena dalla fotografia iconica l’MCU dice addio ad uno dei suoi personaggi più emblematici, e lo fa con un rispetto e una coerenza assolutamente encomiabili.
Nel complesso, la seconda stagione di Loki rappresenta tutto quello che poteva essere ma non è stata; ancora più in crisi sulla sua identità rispetto alla prima, riesce a convincere proprio nel momento in cui smette di fingere di essere qualcosa di diverso e si concentra unicamente sul suo protagonista, motore portante dello show e catalizzatore degli eventi. Nonostante i difetti e una tenuta stagionale altalenante, è indubbio che questa stagione rappresenti una chiusura ottima per la storia del personaggio principale, e la fine di un’era per il Marvel Cinematic Universe in toto.
Voto: 7-
Seppure un pelo meno bella della prima stagione, soprattutto nella prima, frenetica parte, secondo me resta la serie più azzeccata dell’universo Marvel, dove si parla dell’ormai omnipresente Multiverso, ma finalmente in un modo affascinante e gradevolmente fruibile. Cast e soundtrack top, artdirection raffinatissima ed effetti speciali bellissimi (la “spaghettizzazione” del negozio di dischi manda fuori di testa!).
Ciao! Mi trovi concorde sull’estetica generale, anche io l’ho trovata molto azzeccata e particolarmente cucita addosso alla serie. Mi ha un po’ meno convinto la trama, soprattutto quanto hanno allungato gli eventi nella seconda stagione, ma come risultato complessivo la mia valutazione rimane positiva 🙂