Siamo nella seconda metà di questo 2024 e possiamo già spingerci a dire che, a livello seriale, non sarà di certo un anno che passerà alla storia (salvo improvvise sorprese autunnali); e di certo non ricorderemo questa estate come foriera di grande qualità. Sulla quantità, invece, le varie piattaforme e network continuano a puntare moltissimo, con uno spirito che, più che sull’innovazione, sembra mirare sul “prima o poi qualcosa andrà in porto”: ecco che allora ci si trova davanti a diversi show creati, prodotti e interpretati anche da grandi nomi, che presentano caratteristiche mescolate in modi imprevedibili con la speranza che a un certo punto venga trovato il mix giusto. Bad Monkey, nuova serie AppleTV+ ideata da Bill Lawrence, fa con ogni evidenza parte di questo gruppo, con un’idea che sulla carta poteva anche funzionare, ma il cui risultato, almeno nelle prime due puntate con cui ha esordito il 14 agosto, si dimostra decisamente al di sotto delle aspettative.
“The Floating-Human-Body-Parts Capital of America” e “A Hundred Bucks Says You Won’t” danno il via a Bad Monkey, una serie in dieci episodi basata sul libro omonimo di Carl Hiaasen, che si potrebbe definire come una black dramedy che punta a mescolare il mystery col comico, una struttura narrativa ben studiata (in teoria) con personaggi e dialoghi che non si prendono mai troppo sul serio. Tutto questo va inquadrato in puntate da 45/60 minuti in cui si raccontano due vicende all’apparenza slegate, ambientate nel sud della Florida, che si uniranno più avanti nella storia – una garanzia, questa, offertaci direttamente dalla voce narrante, di cui parleremo più avanti.
La prima storyline è quella del protagonista, Andrew Yancy, interpretato da Vince Vaughn, un detective temporaneamente sospeso dal dipartimento di polizia di Miami per aver aggredito il marito della donna che frequenta, Bonnie Witt (Michelle Monaghan). La ragione per cui non riesce a stare lontano dal mondo investigativo si presenta sotto forma di braccio mozzato (con tanto di dito medio causato dal rigor mortis, o così sembra) pescato in mare nelle prime scene del pilot: la richiesta del suo ex collega, e del dipartimento delle Keys dove Yancy vive, di portare il reperto al dipartimento di Miami è il calcio di inizio di una vicenda che sembra coinvolgere il protagonista quasi suo malgrado, rivelandosi poi, indizio dopo indizio, come qualcosa di più complesso di un incidente marittimo. Ovviamente si tratta di un omicidio, che prevede una moglie, una figlia che vuole vederci chiaro ma che non sentiva il ricchissimo padre da molto tempo, e così via, di già visto in già visto.
La seconda linea narrativa è quella del co-protagonista, Neville Stafford (Ronald Peet), un ragazzo che vive con una scimmietta indomabile (da cui il titolo) in un capanno sulla spiaggia che apparteneva a suo padre e che lui ha riconvertito in casa. Come Yancy, anche Neville ama vivere a contatto con la natura e nel relax della sua casa, ma, proprio come nel caso del protagonista, anche lui viene costretto ad abbandonare la sua tranquillità, in questo caso perché la sua abitazione viene messa in pericolo: la gentrificazione è arrivata anche nella sua isola, in una zona vista come ideale per un resort di alto livello, e la sorella del ragazzo si è fatta convincere a vendere la proprietà di famiglia. Neville non ha alcuna intenzione di cedere, così decide di ricorrere alla Dragon Queen (Jodie Turner-Smith), una donna della zona conosciuta per essere legata alle pratiche voodoo e all’occulto: se il giovane seguirà le regole di questa leggenda locale, l’imprenditore che vuole distruggere la sua casa avrà quello che si merita.
Le due sottotrame sono ovviamente collegate, come si diceva, e del resto veniamo avvisati subito dal narratore, che si dimostra una figura piuttosto difficile da decifrare: è la voce narrante (Tom Novicki), è onnisciente, ma è anche un personaggio laterale della serie – è infatti il pescatore che porta i turisti a fare giri in barca, ed è presente nel momento del ritrovamento del braccio. La scelta è certamente curiosa (se sa già tutto vuol dire che le vicende sono già accadute e appartengono al passato? O anche questo ha a che fare con i poteri occulti che sembrano celarsi tra le onde e la sabbia del sud della Florida?), e bisognerà capire come (e se) verrà gestita nelle puntate successive. Di sicuro avere un narratore che si rivolge direttamente agli spettatori, anticipando possibili lamentele nel cambio del punto di vista o svolte imminenti, è uno strumento da maneggiare con cura, soprattutto se inserito all’interno di una serie che già in diverse occasioni mostra le sue debolezze riguardo al tono del racconto, spingendolo spesso (soprattutto con Vince Vaughn) in modo forzato verso un lato comedy che non sembra poi così necessario all’atmosfera.
Si ha spesso la sensazione, visti i precedenti prodotti di Bill Lawrence, che l’intento iniziale fosse quello di raccontare questa storia con un tono narrativo molto simile a quello di Ted Lasso, con una comicità dosata ma ficcante, inserita in vicende umane di una certa rilevanza; il risultato, tuttavia, appare inadeguato, finanche artefatto in certi dialoghi – soprattutto quelli che riguardano Yancy e Bonnie, in cui la ricerca spasmodica dell’effetto comico “botta e risposta” sovrasta quella di un minimo di realismo nelle interazioni.
Forse non aiuta l’interpretazione di Monaghan, dato che ad esempio gli scambi tra Yancy e Rosa Campesino (Natalie Martinez), medico legale con cui il protagonista porterà avanti le ricerche, vanno in una direzione migliore grazie all’ottima performance di Martinez. Anche qui però Vaughn continua a risultare un po’ troppo fuori fuoco con questa sua interpretazione che vuole essere tutto e il contrario di tutto – disinteressato, ma coinvolto; annoiato, ma comicamente inarrestabile; desideroso di starsene a casa sulla sua sedia vista mare, ma disperato all’idea di non poter tornare a lavorare.
Si fatica a inquadrare bene i personaggi, così come la cifra stilistica dello show: la parte dedicata a Neville per ora funziona un po’ meglio, proprio perché – pur avendo i suoi momenti comici – riesce a bilanciare il tono del racconto in modo più coerente, dimostrando di saper passare da un registro all’altro con più agilità, nonostante la difficoltà maggiore di dover integrare proprio qui la vena esoterica del racconto.
Il resto dell’umana gente che popola la zona tra Miami e le Keys sembra non essere mai davvero quello che sembra, e non in un modo accattivante: ogni personaggio ha qualcosa da nascondere, a ogni angolo paiono esserci doppie facce, lavoratori con mentalità mercenaria disposti a piegarsi a chiunque sia disposto a pagare, in generale approfittatori di ogni ordine e grado. Se è vero come è vero che il mondo non è certo popolato da santi, questa rappresentazione quasi grottesca sembra di nuovo alzare il livello oltre il limite consentito, non permettendo una costruzione di personaggi dotati di chiaroscuri: basta poco, infatti, per posizionare ognuno di loro in una delle due categorie, i “buoni” e quelli con almeno un secondo fine.
La prima puntata, “The Floating-Human-Body-Parts Capital of America”, presenta l’indiscutibile valore aggiunto della struttura doppia, in cui le storyline si presentano bene in modo separato fino a mostrare il primo punto di convergenza che, benché prevedibile, risulta abbastanza solido da garantire una costruzione successiva. Il secondo episodio, “A Hundred Bucks Says You Won’t”, una volta smontato il giochino delle storie che diventano ormai due noti percorsi destinati a incrociarsi, non fa altro che evidenziare i difetti riscontrati fin qui, attenuati solo in parte dalle ambientazioni meravigliose, con una fotografia a colori caldi che però in un paio di occasioni si avvicinano a un effetto saturazione à la CSI: Miami (c’è un dialogo in un parcheggio che è piuttosto imbarazzante sotto diversi profili, ma principalmente sotto quello cromatico).
Il problema principale rimane quello di aver voluto portare in scena una serie crime che vira sull’aspetto comedy anche quando non necessario, e averlo fatto con puntate da un’ora: una narrazione sopra le righe non deve essere per forza un errore, anzi, ma così dà proprio l’impressione di aver mancato il bersaglio, e di molto.
Bad Monkey poteva essere un prodotto di gran lunga diverso, grazie soprattutto ai nomi coinvolti: non lo è stato – non con i primi due episodi, almeno – perché non si è capito fino in fondo come lo si voleva portare su schermo. Mescolare elementi, presentare comedy da un’ora, non sono cose obbligatoriamente sbagliate: se si vuole innovare bisogna rompere le regole, disegnare fuori dai bordi, e nel farlo è inevitabile che qualcosa andrà storto. Il problema è che in questi due episodi ciò che va dritto è proprio poco: quando tutto il resto sembra forzato e si ha la sensazione continua che non sia quello il tono reale della storia, è difficile pensare che possa proseguire in maniera diversa.
Voto 1×01: 5½
Voto 1×02: 4½