Giunta al termine della sua quarta stagione, Only Murders in the Building, la serie comedy/mystery di Hulu creata da Steve Martin e John Hoffman e distribuita in Italia da Disney+, si conferma come una delle poche certezze del panorama seriale contemporaneo.
Dopo una terza annata ambientata a Broadway, quest’anno gli autori ci hanno portato a Hollywood, intrecciando le indagini sull’omicidio di Sazz alla realizzazione di un film basato sul podcast dei tre protagonisti: l’idea di affiancare la satira del true crime a quella della cultura hollywoodiana e del mondo dello spettacolo in generale, già presente fin dagli esordi dello show, raggiunge così un nuovo apice nel corso di questi episodi, regalandoci momenti di grande comicità, ma non solo. La presenza di Eugene Levy, Eva Longoria e Zach Galifianakis, bravissimi nell’interpretare non solo delle versioni fittizie ed esilaranti di loro stessi ma anche delle perfette controparti di Charles, Mabel e Oliver, funziona infatti su più livelli, in cui lo humour derivante dall’incontro/scontro tra i protagonisti e i loro alter ego è solo il punto di partenza.
Le tre star infatti finiscono per instaurare un rapporto personale con i tre podcaster, arrivando a svolgere un ruolo fondamentale sia nello sviluppo del loro arco narrativo – pensiamo alla gestione della rabbia di Charles o al matrimonio di Oliver –, sia nelle indagini, partecipando attivamente agli interrogatori e fornendo ipotesi più o meno plausibili circa l’identità dell’assassino. Si conferma così l’abilità degli autori nel fondere momenti comici a momenti più profondi, all’interno di una struttura narrativa (e metanarrativa) sempre più complessa, in cui quest’anno al podcast true crime si affianca il blockbuster hollywoodiano.
Il tema del doppio si riflette anche nell’introduzione degli inquilini del palazzo ovest dell’Arconia: pur trattandosi, a conti fatti, di un gigantesco red herring, questa linea narrativa si amalgama in maniera sapiente all’interno del racconto, grazie alla peculiare caratterizzazione dei suoi personaggi e alle ottime performance delle star che li interpretano, da Richard Kind a Kumail Nanjiani. Proprio come Charles, Oliver e Mabel, gli inquilini del palazzo ovest sono un gruppo di outsider apparentemente male assortiti, in grado di regalarci non solo momenti di grande divertimento – pensiamo alle numerose gag derivanti dalla presunta ossessione di Rudy per il Natale, o a quelle legate alla benda di Vince –, ma anche di malinconica tenerezza – l’origin story del loro incontro tramite l’enigmatico personaggio di Dudenoff –, nonché una riflessione sulle spietate politiche abitative newyorkesi. Se, come vedremo, il legame tra la storyline hollywoodiana e quella investigativa è più stretto che mai, lo stesso non può dirsi per quella degli inquilini del West Arconia, legati all’omicidio solo a causa delle ricerche fatte da Sazz durante la scrittura della sua sceneggiatura. Nonostante ciò, la loro introduzione non può non essere considerata uno dei tanti punti di forza di questa stagione, tanto da far sperare in un loro ritorno nella prossima annata di episodi.
Ne abbiamo già citate molte, ma le guest star che popolano questa stagione di Only Murders in the Building non finiscono qui: oltre al graditissimo ritorno di Meryl Streep nei panni di Loretta e a quello di Paul Rudd in quelli dello stuntman di Ben Glenroy, non possiamo non menzionare la presenza di Melissa McCarthy, che interpreta la sorella di Charles con un debole per le bambole e per Oliver, ma soprattutto quella di Ron Howard nei panni di se stesso. “Escape from Planet Klongo”, senza dubbio uno dei picchi di questa annata, è emblematico della capacità degli autori nel gestire queste apparizioni nel migliore dei modi, senza che risultino mai superflue o gratuite, ma anzi rendendole parte integrante dello sviluppo del racconto e sfruttandone a pieno il potenziale comico.
Veniamo quindi all’aspetto della detection: fin dal cliffhanger della scorsa stagione, che ci ha mostrato la morte di Sazz, è apparso chiaro che l’intento degli autori fosse quello di alzare la posta in gioco, individuando come vittima una figura legata a uno dei protagonisti da un rapporto molto intimo e stretto. Le indagini si intrecciano quindi con la rappresentazione della profonda amicizia tra la stuntwoman e Charles, messo in scena tramite flashback e dialoghi immaginari che ci restituiscono, con la delicatezza e profondità a cui la serie ci ha abituato, tutte le sfaccettature di questo rapporto decennale. La convinzione di Charles, oltre che degli spettatori, che la morte di Sazz sia stata accidentale, ovvero che la vera vittima designata fosse lui, funziona da perfetta distrazione sia a livello diegetico che extradiegetico, favorendo l’effetto sorpresa della rivelazione finale: i veri protagonisti della storia – sia nel ruolo delle vittime che in quello del carnefice – sono, per una volta, non le star ma gli stuntman e, in seconda battuta gli sceneggiatori, figure abituate a restare nell’ombra sul set ma fondamentali per la riuscita della produzione tanto quanto le stelle che stanno davanti alla cinepresa.
Già rinnovato per una quinta stagione, lo show si conclude, come ormai da abitudine, con un nuovo omicidio: in questo caso la vittima è Lester, il portiere dell’Arconia, trovato morto nella fontana subito dopo il matrimonio di Oliver e Loretta. Arrivati a questo punto, parlare del rischio di “Cabot Cove Syndrome” sembra ormai superfluo: è chiaro come gli autori siano perfettamente consapevoli dell’assurdità degli eventi che mettono in scena e che chiedano allo spettatore un buon grado di sospensione dell’incredulità, necessario a godersi tutto ciò che di buono la serie ha ancora da offrire. A fronte di un cast dalla chimica pazzesca e di una scrittura ancora in ottima forma, non possiamo che chiudere un occhio di fronte all’improbabile tasso di omicidi dell’Arconia, e attendere con ansia l’arrivo della prossima stagione.
Voto: 8