Negli ultimi anni, il genere western – che non aveva mai del tutto abbandonato il piccolo schermo – sembra essere tornato in grande spolvero, in quella ricerca tanto attuale dell’origine del sogno americano tra conservatorismo e rilettura del mito.
Si è fatto gran parlare di Yellowstone e dei suoi vari spinoff che hanno riportato grande attenzione sul genere Western come elemento fondativo della società americana. Pur abbracciando un ideale vicino al mondo conservatore, l’universo di Yellowstone ha reso evidente come ci sia un redivivo interesse nel genere, passando però attraverso una riconsiderazione più moderna di alcuni rapporti di forza narrativi tipici di questo racconto (come il sempre teso e complesso rapporto tra i ‘conquistatori’ del West e i nativi americani).
Diretta da Peter Berg e scritta da Mark L. Smith, che ha alle spalle il crudo The Revenant del 2015, American Primeval è una miniserie in sei episodi su Netflix che prende il genere Western e lo declina secondo una volontà di maggiore accuratezza storica (o quantomeno, accuratezza percepita). La trama, che nel pilot si mostra solo in parte, inizia con Sara Rowell (Betty Giplin) e suo figlio Devin (Preston Mota) alla ricerca di un passaggio sicuro attraverso il selvaggio West nel tentativo di avvicinarsi al marito partito da tempo. Privati violentemente della loro guida (la prima di una lunga serie di uccisioni), i due si rivolgono a Isaac (Taylor Kitsch), da cui sperano di essere condotti attraverso un territorio preda di lotte costanti e nelle mire dei mormoni (mai rappresentati in modo così crudo e violento come in questa serie).
C’è un dato che risulta immediatamente chiaro già a partire dai primi minuti di questo pilot: American Primeval è una serie violenta, a tratti al limite del surreale e dell’esagerato. Narrativamente, è molto chiaro che l’obiettivo sia quello di rappresentare il Far West come, appunto, un luogo non solo privo di legge, ma in cui le peggiori pulsioni umane salgono costantemente a galla e in cui nessuno può permettersi il lusso di provare pietà e compassione. La crudezza ideologica dello Utah (qui a rappresentare un territorio privo anche di minimi riferimenti urbani) si palesa subito, con morti violentissime che lasciano un po’ tutti indisturbati – tranne, ovviamente, Sara, la donna di Boston che ha abbandonato la civiltà della città per ragioni tutte da esplorare. Ci sono tutte le ragioni per pensare che si tratti di una violenza a tratti gratuita, soprattutto perché non sembra essere elaborata dalla scrittura e quindi fine a sé stessa. In alcuni momenti (come nel finale del pilot) sembra ci sia un certo compiacimento in lasciarsi andare a scene di grande impatto visivo, certi che aggiungerà una dose di realismo alla narrazione.
Certo questo è tanto più evidente in quanto si fatica a trovare, almeno nel pilot, un grande interesse per trama e personaggi. Anche se ci sono vari aspetti del racconto che sottendono a segreti e sotterfugi, questo primo episodio non brilla molto per l’intenzione di costruire un percorso narrativo solido che possa concludersi nei sei episodi; a farla da padrona è piuttosto una serie di suggestioni dominate dall’aspetto visivo (Berg fa in genere un ottimo lavoro nel dare un senso di vastità al territorio in cui è ambientata la serie). La trama sembra delinearsi in modo molto semplice, chiaro segnale che non sia l’aspetto di maggior interesse. Allo stesso modo, non c’è molto che si possa dire dei personaggi della serie, se non che Sara non si presenta affatto nel migliore dei modi. Per essere una donna in fuga del tutto aliena del territorio e delle sfide in cui si trova, non fa altro che dimostrare una estrema (ed ingiustificata) fiducia nei propri mezzi, rendendo però così molto difficile riuscire ad entrare in empatia con le sue difficoltà. Allo stesso modo, l’Isaac di Kitsch non fa che rivestire i panni del tipico ideale di uomo duro e rozzo ma che sotto sotto nasconde un passato di traumi e dolori; e cosa si può dire di Abish e Jacob? È ancora presto per dirlo, ma si presagisce un uso un po’ troppo calcato di alcuni stereotipi di genere che non fanno bene a una narrazione che vuole essere, per scelte registiche e stilistiche, più coraggiosa in questo senso. Mentre vari personaggi secondari si stagliano all’orizzonte, la facilità con cui si descrive la morte in questa serie non depone necessariamente a favore di un lungo viaggio insieme (insomma: lo spettatore non si affezioni a nessuno).
La prima impressione di American Primeval non è troppo positiva: al netto di un racconto più crudo e diretto che può generare interesse per il coraggio di certe scelte, e la volontà di rappresentare questo periodo storico americano con maggiore schiettezza, si fatica ad andare oltre la sensazione che la serie voglia più spesso sorprendere lo spettatore con una violenza molte volte non necessaria al limite della pornografia del dolore piuttosto che raccontare un periodo storico attraverso un racconto coerente e stratificato. Questo prodotto in parte inusuale per Netflix che vuole parlare soprattutto a un tipo di pubblico più ampio di quello del passato, è un primo passo verso una maggiore diversificazione. Ecco perché è un inizio solo in parte riuscito, in una dominanza dello stile sulla sostanza che rischia di passar via velocemente una volta superata la sorpresa iniziale.
Voto: 5