Una struttura isolata, un mistero che si infittisce, un gruppo di giovani protagonisti al centro di un sistema che promette cura ma evoca controllo. The Institute, nuova serie distribuita da MGM+ e ispirata all’omonimo romanzo di Stephen King, esordisce con una puntata densa di elementi inquietanti, ma anche sorprendentemente didascalica. In bilico tra distopia giovanile e thriller psicologico, la serie mostra le sue carte sin da subito, ma forse troppo in fretta.
In un luogo non meglio precisato, lontano dal mondo esterno e sorvegliato da occhi invisibili, un gruppo di ragazzi si risveglia in una struttura chiamata “l’Istituto”. Le stanze sono arredate come quelle originali dei ragazzi, il personale è gentile e sorride sempre, eppure qualcosa non torna: non c’è via d’uscita, e nessuno sa esattamente perché si trovi lì. Quella che in apparenza potrebbe sembrare una scuola d’élite o una clinica sperimentale, si rivela fin da subito come un ambiente altamente controllato, in cui la libertà individuale è più illusoria che reale. I primi due episodi della serie ci introducono a questo universo chiuso, seguendo principalmente un nuovo arrivato (il protagonista Luke Ellis) che — insieme agli altri ospiti — dovrà cercare di capire le regole del gioco, ma il tempo per farlo è poco e gli eventi si susseguono senza respiro.
Nel suo impianto concettuale, The Institute ha tutti gli elementi per funzionare: una location claustrofobica, un potenziale sottotesto fanta-politico, la dimensione young adult virata al cupo, e un cast di giovani interpreti chiamati a navigare in un contesto emotivamente instabile. Eppure qualcosa stona: l’inquietudine c’è, ma è scolpita a colpi troppo grossi, raccontata più che evocata; ogni informazione ci viene servita in modo esplicito, ogni meccanismo del luogo spiegato a voce alta o mostrato frontalmente, come se gli autori non si fidassero della capacità dello spettatore di leggere tra le righe.
L’effetto è paradossale: The Institute è pensata per essere disturbante e misteriosa, ma nel suo bisogno costante di “dire” finisce per anestetizzare proprio quel senso di minaccia silenziosa che dovrebbe essere al centro della sua forza espressiva. I riferimenti a opere come The OA o persino Stranger Things sono evidenti, ma ciò che manca è il respiro, la pazienza di costruire l’inquietudine senza fretta, di lavorare per sottrazione invece che per accumulo.
Uno degli aspetti che più pesa nella visione è il ritmo: l’episodio corre, e lo fa non tanto per generare adrenalina quanto per mettere sul tavolo, il prima possibile, tutte le sue coordinate narrative. In cinquanta minuti assistiamo a una presentazione accelerata dell’ambiente, ad uno spiegone sul funzionamento della struttura, a diversi momenti di tensione interpersonale e perfino a un primo (quasi) colpo di scena. Il problema non è la quantità, ma la qualità del tempo: nessuna delle situazioni ha davvero il tempo di sedimentare, e la regia sembra più interessata a “passare alla scena successiva” che a far vivere pienamente quella in corso.
Questo approccio, che forse nasce dalla volontà di catturare l’attenzione fin dai primi minuti, si traduce però in una sensazione di superficialità. Non si crea attesa, non si genera spaesamento autentico: ogni elemento è accompagnato da un sottotesto troppo esplicito, ogni passaggio emotivo viene guidato da una colonna sonora invadente o da scelte di regia fin troppo marcate. Il risultato è una tensione preconfezionata, che anziché insinuarsi sotto pelle, rimbalza sullo schermo come una costruzione troppo consapevole di sé.
Eppure, sotto la superficie troppo levigata, si intravede un’intenzione più ambiziosa. The Institute vuole parlare di potere, di controllo, di manipolazione sistemica. Il contesto in cui si muovono i personaggi non è solo una prigione travestita da casa, ma anche un dispositivo simbolico: l’istituzione che ingloba, plasma e rieduca, secondo logiche che sfuggono alla comprensione. In questo senso, l’Istituto non è solo una location, ma una metafora potenzialmente potente della nostra epoca, in cui la sorveglianza si maschera da assistenza e la coercizione si traveste da benevolenza.
Tuttavia questa metafora, almeno per ora, rimane solo accennata: non viene esplorata davvero, né arricchita da scelte formali particolarmente efficaci. L’estetica visiva è funzionale ma priva di invenzione: la fotografia alterna toni freddi e luci morbide in modo prevedibile e la regia si affida a soluzioni convenzionali per creare senso di minaccia (campi lunghi, dettagli sfocati, soggettive disorientanti). Tutto è al suo posto, e forse è proprio questo il limite: The Institute non osa disturbare davvero, non prende deviazioni, non gioca con il linguaggio per generare un reale cortocircuito emotivo.
Il cast, composto da giovani volti in parte esordienti e in parte noti al pubblico seriale, si muove con discreta solidità, ma ancora senza guizzi. Colpa anche di una scrittura che, pur imbastendo rapidamente le dinamiche tra i personaggi, li lascia per ora piuttosto abbozzati. Le linee di conflitto sono chiare — chi si adatta, chi si ribella, chi manipola — ma mancano le sfumature, i sottotesti, i gesti che raccontano più delle parole. Alcuni interpreti riescono comunque a far emergere un senso di fragilità o di inquietudine latente, ma è ancora presto per parlare di vere figure memorabili.
Tirando le somme di questi prime due ore scarse di show, il giudizio è inevitabilmente sospeso. La serie ha dalla sua un concept intrigante e una struttura narrativa che potrebbe aprirsi a sviluppi interessanti (sperando non devii troppo dall’idea originale di Stephen King, che come sempre funzionava a meraviglia), soprattutto se riuscirà a rallentare, a respirare, a fidarsi del silenzio e dell’ombra. Per ora resta la sensazione di un’occasione solo parzialmente colta: troppe parole, troppa esposizione, troppo poco mistero.
La serie sembra voler rassicurare chi guarda, anziché metterlo in crisi. Eppure, è proprio nel perturbante che risiede il suo potenziale più forte. Se le prossime puntate sapranno abbandonare la comfort zone dell’espositivo e lasciarsi attraversare dal dubbio — narrativo, visivo, emotivo — allora The Institute potrà ancora trasformarsi in qualcosa di più complesso e disturbante. Per ora, resta un esperimento imperfetto, con buone intenzioni e un’esecuzione ancora timida.
La speranza è che non faccia la fine di moltissimi prodotti sia televisivi che cinematografici basati sulle opere di King, finite in un mezzo o totale disastro. Per ora ci limitiamo a concedere a questo show quantomeno il beneficio del dubbio.
Voto 1×01: 6
Voto 1×02: 6