
Long Story Short è una comedy animata che racconta l’evoluzione nel corso degli anni della famiglia Schwooper attraverso una narrazione non lineare che segue le vite di Elliot e Naomi e i loro tre figli Avi, Shira e Yoshi.
Lo show fa ampio uso di salti temporali per mostrare scene di vita quotidiana della famiglia tra passato e futuro: questo fornisce movimento alla narrazione, che altrimenti sarebbe potuta risultare lenta e banale, alla stregua delle classiche sitcom familiari come The Goldbergs oppure Modern Family. Allo stesso tempo, l’uso di questo espediente narrativo crea un puzzle di momenti e sketch che riesce a catturare l’attenzione spingendo a proseguire la visione, alla ricerca del tassello mancante che spiega, ad esempio, il perché di una separazione fra due personaggi o l’origine di una battuta, come nel caso dell’espressione “a schnook is entitled” ripetuta spesso da Avi e Shira nel corso della stagione e la cui storia viene raccontata proprio nel finale.
La somma di questi piccoli momenti di gioia, dolore ed incomprensione vanno a comporre i dieci episodi della prima stagione della nuova creazione di Raphael Bob-Waksberg che, chiuso il mondo antropomorfo di Bojack Horseman, decide di tornare alle origini, portando su Netflix una famiglia ebrea e del North Carolina senza rinunciare, però, a tutto ciò che ha reso caratteristico il suo stile: dallo humour ai momenti di riflessione che riescono sempre a strappare qualche lacrima, ricordandoci che non importa se il protagonista sia un cavallo o un ragazzo ebreo, ci sono sensazioni ed eventi che sono universali nella vita delle persone.

Vi è il figlio maggiore, Avi, colui che ha spianato la strada agli altri fratelli andando a studiare a New York per seguire la sua passione per la musica, anche se con risultati non del tutto entusiasmanti. Nel suo aprirsi un varco al di fuori della vita e delle costrizioni familiari, Avi sceglie, forse, la strada più estrema: non si crea semplicemente una via di fuga ma procede con il rinnegare completamente le proprie origini; sposerà, infatti, una donna non ebrea e deciderà di non crescere sua figlia come tale, andando così a creare, involontariamente, un muro immaginario fra la sua famiglia d’origine e quella che si è costruito. Al contempo, però, la sua ribellione non si manifesta con sua madre, con la quale fino all’ultimo faticherà ad imporsi.
Shira, invece, non fatica a mostrare il proprio dissenso ai genitori, rappresentando la classica “ragazza ribelle” che però, silenziosamente, ricerca l’approvazione e l’affetto di sua madre, suo padre e del fratello maggiore. Ciò che è estremamente interessante di questo personaggio e soprattutto della gestione dello stesso da parte degli autori, è come il suo essere una donna lesbica non viene mai messo in discussione né diventa oggetto di scherno o controversia in famiglia. In un panorama politico mondiale ma soprattutto americano fortemente conservatore, vedere uno show sorvolare completamente il tema del coming out e del suo rapporto con la religione, molto presente nello show, è un’importante presa di posizione che, inoltre, permette di soffermarsi su altri aspetti del carattere di Shira e del suo rapporto con gli altri personaggi.

Nonostante le numerose peripezie che vive, come ad esempio la sua fallimentare ricerca di un impego che lo porterà a diventare venditore di una linea di materassi in tubo che esploderanno senza controllo per tutta la città, Yoshi riesce a trovare la propria strada: deciderà di diventare ebreo ortodosso trovando nella propria sinagoga e nella comunità di Los Angeles la calma e la dimensione di cui ha bisogno. Una decisione che sorprende non solo la sua famiglia, ma anche lo spettatore, perché proprio come nel caso della sessualità di Shira, la scelta di Yoshi viene affrontata con estrema apertura mentale e desiderio da parte della famiglia di comprendere ciò che lo ha spinto verso questa scelta e accettandola senza riserve, in quanto la felicità dei propri cari viene sempre prima di ogni personale ideologia.
Analizzando le storie dei tre figli, risultano, quindi, facilmente intuibili le due grandi figure che pervadono ogni episodio di Long Story Short: Naomi, la madre dei fratelli Schwooper, e la religione.
Entrambe guidano il filo dei vari episodi, generando momenti di comicità – come il litigio sull’accensione dell’ultima candela del bar mitzvah di Yoshi – e di trasformazione, come è accaduto alla moglie di Shira, Kendra, la quale troverà pace dalla sua vita completamente annullata dal lavoro nell’ebraismo.
Si tratta, sì, di presenze ingombranti il cui peso influenza fortemente le scelte di vita dei tre figli ma che non vengono mai poste agli occhi dello spettatore come intrinsecamente negative o positive. Come per le vite dei tre fratelli, le storia di Naomi e dell’ebraismo vengono studiate e scandagliate in tutti i loro aspetti, mostrando i momenti di unione e quelli di crisi senza giudizio.

Allo stesso modo, si sente forte l’intenzione del creatore di raccontare, attraverso la famiglia immaginaria degli Schwooper, il proprio modo di essere ebreo; il che non significa semplicemente inserire qualche battuta qua e là nella trama, come si vede in alcune rappresentazioni, o dare una visione salvifica dell’ebraismo ma significa semplicemente vivere la propria religione come una componente importante e ben radicata della propria cultura e vita. Non si tratta di un vezzo ma di qualcosa di vivo che viene continuamente discusso, analizzato e vissuto dai personaggi e con la quale ognuno a fine stagione si troverà a fare i conti, trovando la propria dimensione al suo interno.
Yoshi, il caso forse più estremo, trova chiarezza nell’ortodossia mentre nel versante opposto Avi troverà pace nel suo rapporto con la religione – e con sua madre – vivendola semplicemente come parte della sua storia. Per lui, quindi, non è necessario sapere il perché dietro alcuni riti o il rispettare lo Shabbat perché ciò che è importante sono i momenti passati insieme, i piccoli rituali ripetuti in compagnia di chi ama. Questo momento di profonda catarsi per Avi avviene proprio nel finale di stagione, quando sua figlia sta accendendo le candele dello Shabbat e alle sue spalle vi è il fantasma della madre che compie le stesse azioni della figlia ma in diversi momenti della sua vita. Si assiste, quindi, alla fine della fuga del protagonista dal suo passato e alla riconciliazione con se stesso e sua madre.

Nonostante la disegnatrice, Lisa Hanawalt, sia la stessa che ha creato il mondo di Bojack Horseman, Long Story Short ha uno stile molto più cartoonesco e abbozzato, con background spesso privi di dettagli. Una scelta stilistica dettata principalmente dalla natura del progetto fortemente ambiziosa: si tratta di uno show con molti salti temporali che, quindi, prevede numerosi design dei personaggi, oltre che a diversi setting – casa natale, esterni, le diverse case dei fratelli una volta adulti – che comportano numerose lavorazioni.
Una scelta dunque dettata anche dall’economicità del progetto ma che in realtà riesce a dare carattere alla serie, distinguendola dai precedenti lavori del creatore e dalle altre produzioni Netflix, che spesso tendono verso uno stile d’animazione fortemente realista; si vedano per esempio molti degli episodi dell’ultima stagione di Love, Death & Robots.
Dopo il grande successo di Bojack Horseman, le aspettative intorno a Long Story Short erano più che alte e si può dire che sono state ampiamente rispettate, se non superate. Raphael Bob-Waksberg riesce a mantenere un filo conduttore fra le sue serie, il desiderio di raccontare di emozioni e sentimenti, senza risultare ripetitivo ma, anzi, regalando dei racconti che nella loro unicità – un attore-cavallo che affronta crisi depressive e una famiglia ebrea del North Carolina – riescono ad essere universali, portando alla luce tutti i bellissimi e complicatissimi aspetti dell’animo umano.
Voto: 10

Vedere voto 10 qui a questa serie animata, così come alla stagione conclusiva di Twin Peaks, fa un po’ strano devo dire…credo che questo voto sia stato dato sull’onda dell’entusiasmo ma forse un pochino pompato. Mia opinione ovviamente…