Siamo giunti al decimo ed ultimo episodio di questa prima stagione di The Newsroom e forse solo ora si può davvero provare a tirare le somme per vedere se il prodotto offertoci sia stato o meno all’altezza delle aspettative; questo perché il termine di paragone di una serie non è mai “il resto del panorama televisivo”, ma solo ed esclusivamente se stessa.
Un discorso un po’ facilone, se preso alla leggera, ma – come dicevo qualche recensione fa – la vera questione è “cosa mi aspetto da questa serie tv”. E su un punto credo si possa essere d’accordo: The Newsroom ha fatto davvero fatica a farcelo capire.
All’inizio si pensava volesse narrarci la costruzione della nuova redazione, con il suo staff e l’incontro di persone nuove che devono imparare ad interagire tra di loro, ma la prospettiva è stata presto spazzata via da una sola puntata che, in 50 minuti, ha coperto uno spazio di sei mesi.
Poi – ma anche durante – sembrava che si trattasse di “un nuovo modo, realistico, di fare informazione”, ma è difficile ormai trovare anche solo una persona che non riconosca in Will l’idealista più incallito, il personaggio più retorico, il greater fool – appunto – della nostra storia.
E poi ci sono state le storie d’ammmmore, e, ahimé, è l’unica cosa della quale si sia capito subito che avrebbero parlato sempre. Credo che, se avessero dedicato questo tempo (o almeno la metà) alle interazioni tra i personaggi non solo da un punto di vista lavorativo ma anche personale-non-sentimentale, a quest’ora il giudizio complessivo sarebbe un altro.
La struttura di questa puntata non segue affatto un ordine cronologico, ma si affida ad un intreccio più elaborato che permette di fare gli opportuni collegamenti solo verso la fine (una domanda su tutte, “Come mai Will ha ripreso ad attaccare il Tea Party?”, viene spiegata solo dopo l’intervento di Leona). Che la scelta sia apprezzabile o meno è un altro discorso, il punto è che utilizzare un escamotage simile in 3 episodi su 10 sembra una forzatura. Qui, inoltre, abbiamo degli avvenimenti che prendono luogo 2 mesi dopo l’ultima puntata, in particolare 2 settimane dopo la pubblicazione dell’articolo, ma con vicende che precedono di 8 giorni il momento della trasmissione anticipato in apertura. Vera necessità narrativa o voglia di far vedere che si è capaci di farlo? Inizialmente speravo nella prima, ora comincio ad avere dei dubbi.
I don’t have friends and I don’t want friends
Quello che invece funziona bene in questa puntata è il parallelo tra la figura di Solomon e Will, solo leggermente accennato da Charlie con quel suo “So I can help out a friend who’s a lot like you”. Entrambi vogliono cambiare situazioni che si sono ormai incancrenite, entrambi sono soli, entrambi stanno facendo quella cosa difficilissima che è “fare qualcosa per cui sai che verrai smerdato”. La conclusione per i due è, ovviamente, diversa: mentre Solomon non regge il peso del rifiuto e si suicida (e la reazione di Charlie a riguardo è forse la cosa migliore dell’intero episodio), Will trova l’appiglio giusto che lo trascina fuori dal letto e lo porta a voler di nuovo dettare le sue regole (sulle note di Baba O’ Riley).
(A questo proposito, grazie per averci mostrato finalmente qualcuno che si strappa la flebo e si fa male: a me tutti questi supereroi che in film e telefilm si strappano tutto e non perdono mai neanche una goccia di sangue non hanno mai convinto.)
It’s hard to watch YOU!
Maggie rivolge questa frase all’amica Lisa in un impeto di rabbia, ma quanti di noi hanno pensato alla stessa identica cosa davanti a questo triangolo che è diventato un quadrato e che ora ha assunto le inquietanti forme di un pentagono?!
In questa puntata, in particolare, sembra che Sorkin abbia deciso di dedicare ancora più tempo alle vicende sentimentali rispetto al solito, complice l’introduzione di Sloan in questo quadretto (perché l’hai fatto, Aaron! Lasciala stare! E non mettere le musichine romantiche quando sta facendo un discorso intelligente!) e soprattutto il primo vero confronto tra Jim e Maggie.
Tolto lo sfogo della ragazza su Sex & The City (divertente e ironico, anche se forse un po’ troppo sopra le righe per questa serie), tutto il resto si conclude in modo abbastanza scontato: i due chiaramente non finiscono insieme perché Jim è una persona buona che fa solo azioni buone e lascia che Maggie vada da Don (ma tutta questa bontà che fine fa quando mente spudoratamente a Lisa?), cosa che permetterà alla storia di essere trascinata in seconda stagione – con nostro sommo disagio.
L’aspetto sentimentale si ritrova anche con Will e Mac e qui paghiamo lo scotto di una scelta sbagliata fatta sin dall’inizio. Provate infatti a riguardare la scena in cui Will scopre che era davvero lei in mezzo al pubblico alla Northwestern e a pensare a come sarebbe stato se l’avessimo scoperto anche noi con lui, senza aver visto quel block notes in mano a Mac già dal primo episodio. Certo, commuovere il pubblico è la mossa paracula furbetta per eccellenza, ma a mio avviso, dopo tutti i momenti romantici della serie, questa era l’unica che avrebbe avuto davvero bisogno di un coinvolgimento emotivo maggiore.
Il ragazzino di Camelot e il greater fool
L’accusa mossa dall’articolo nei confronti di Will è esattamente la stessa che, giunti a questo punto, possiamo muovere anche noi verso MacAvoy e l’intera elaborazione del suo personaggio. E’ tuttavia la spiegazione di Sloan a comunicare davvero con noi e a spiegarci perché Will sia stato immaginato così idealista, così retorico e sognatore da passare per il più stupido di tutti. Ci vuole sempre qualcuno che veda il possibile dove tutti gli altri vedono solo un muro insormontabile, qualcuno che veda il bambino della fine di Camelot in ogni mezzo disponibile; siamo pronti a chiamarli pazzi e folli, ad approfittare di loro fino a quando non hanno successo, e solo allora li chiamiamo rivoluzionari.
E’ indubbio che la retorica usata da Sorkin in questa serie sia stata fin troppa, ma il fine è sempre stato tra i più nobili: come a dirci che forse, per cambiare modo di fare informazione, abbiamo davvero bisogno di qualcuno che cambi le carte in tavola e ci dica che esistono altre strade dove noi vediamo solo erbacce e divieti di accesso. E del resto, quante volte sentiamo dire riguardo alla nostra televisione che “è inutile fare tal programma perché tanto la gente è abituata all’intrattenimento e non lo seguirebbe”, per poi stupirci il giorno dopo dei picchi di ascolti quando qualcuno fa davvero qualcosa di diverso? Forse qualcosa può cambiare sul serio, se c’è un greater fool devoto alla causa.
Sì, forse è difficile immaginarsi un vero attacco così frontale e articolato al Tea Party; sicuramente avrà provocato non poche reazioni quella definizione di “Talebani Americani”, data a persone che si spacciano per veri detentori dell’essere americano salvo poi impedire ai più poveri di votare con dei sotterfugi discutibili, o proclamare in diretta nazionale che “non si dà da mangiare ai randagi perché poi si riproducono”. Eppure non dimentichiamo che questa è una serie tv e che sognare che “il mondo sia un posto migliore” rientra nelle sue possibilità, anche se a volte esagera e rischia di uscire persino dai limiti che si è autoimposta – la conversione di Nina Howard, per dire, è stata assolutamente inutile e forzata, e la stessa confessione di Reese davanti alla madre fin troppo facile e scontata.
La puntata risulta quindi sbilanciata, tra buone idee e inutili digressioni; sappiamo, grazie a questo, cosa ci porteremo nella prossima stagione – la ragazza della Northwestern in versione “bambino di Camelot”, le minacce di morte a Will, gli strascichi amorosi di cui si potrebbe fare a meno – e anche cosa lasceremo qui, presumibilmente tutto lo scandalo delle intercettazioni che sembra essere finito a tarallucci e vino con la chiusura del tabloid di gossip e la promessa “Let’s do the news, you and me” di Charlie e Leona.
La serie ha molto da sistemare, e credo che se limitasse alcune parti e ne accentuasse altre potrebbe andare molto meglio di così. Pur con tanti difetti, comunque, è una serie piacevole da seguire e con molti punti a suo favore: la speranza è che vengano sfruttati in modo migliore l’anno prossimo.
Voto puntata: 6/7
Voto stagione: 7
Concordo con la recensione: non si è mai capito bene dove volesse andare a parare “The Newsroom”, troppi alti e bassi, ironia spesso gratuita e vicende amorose stucchevoli.
Forse avevamo tutti aspettative più alte dopo le prime ottime puntate e visto che si parla di Sorkin e di HBO, ma a me personalmente ha deluso molto questa prima stagione.
Il punto è che comunque, nonostante tutti questi difetti, l’ho sempre visto molto volentieri – a parte la questione romantica di questa puntata che ho trovato molto stucchevole, giuro che la musica di sottofondo alle parole di Sloan mi ha fatto venire i nervi.
Non sono stata troppo cattiva con il voto semplicemente perché ci ho intravisto dietro tutto questo discorso e alla fine ho capito che mi va anche bene così, mentre magari ad un altro per gli stessi motivi la serie fa schifo e gli dà 4. C’è di buono questo: è stata una serie che ha diviso moltissimo e che ha fatto parlare tanto, il che non è mai un male.