“Nel mondo oggi più di ieri domina l’ingiustizia,
ma di eroici cavalieri non abbiamo più notizia;
proprio per questo, Sancho, c’è bisogno soprattutto
d’uno slancio generoso, fosse anche un sogno matto”
(Don Chisciotte – Francesco Guccini)
Che lo si voglia o no, The Newsroom ci ha insegnato qualcosa, a tutti, sostenitori, detrattori, osservatori curiosi. “Solo i cinici e i codardi non si svegliano all’auora”, recitava un celebre verso della canzone con cui si apre questa recensione, ed è proprio sulla figura di Cervantes che ragiona l’episodio finale della serie: personaggio preso e messo al centro di tutto, come estrema sintesi letteraria di uno spirito che ha attraversato la serie dall’inizio alla fine, dalla scenata di Will nel pilot fino all’ultima edizione di News Night. Quello spirito è incarnato soprattutto e prima di tutto da Charlie, morto illustre della serie, agnello sacrificale quasi necessario per riportare tutti sulla retta via, sui binari tracciati dal suo esempio. “What Kind of Day Has It Been” è un episodio in cui non succede nulla, perché la serie è per certi versi terminata in quello precedente, con il tragico finale. Questa sorta di coda conclusiva, di nome sesto episodio, ha il compito di riportare in vita quello spirito di raccontare la storia di una resurrezione, articolandosi su due livelli temporali: il presente (il funerale di Charlie) e il passato (i flashback che legano il defunto agli altri personaggi).
“I have faith.”
“Why?”
“There’s a hole in the side of the boat.
That hole is never going to be fixed and it’s never going away and you can’t get a new boat.
This is your boat.
What you have to do is bail water out faster than it’s coming in.”
La storyline che lega Will da una parte alla notizia della prossima paternità e dall’altra ai ricordi che lo rimandano a Charlie è una di quelle meglio confezionate dell’episodio, specie perché riesce a bilanciare perfettamente diversi registri narrativi, confinando con generi differenti. C’è il racconto di formazione, c’è il dramma, c’è la commedia romantica e la screwball. A proposito di quest’ultima, Sorkin azzecca soprattutto i tempi, gli incastri con cui al ricordo delle lezioni apprese da Charlie segue l’immagine di Will in piedi e in estasi mentre tutti gli altri in chiesa sono già seduti e Mac che perentoriamente gli dà una pacca sulla gamba per riportarlo alla realtà. L’accostamento tra dramma e commedia, amore e lavoro, sconfitte e superamento delle stesse è da sempre stato caratteristica della serie e anche in quest’occasione non poteva mancare. Charlie ha significato tanto per Will, come si intuisce già dalla reticenza a proferire il discorso funebre; è stato colui che l’ha aiutato a smussare molti dei suoi lati peggiori – come l’allergia ai nuovi media (“It’s a website. It doesn’t have integrity”), o la tendenza a non attirare le antipatie di nessuno, specie dell’elettorato cattolico – e lo ha esortato a scommettere su un futuro diverso. Charlie, però, è stato anche colui che gli ha aperto uno spiraglio sulla paternità e sull’idea che quest’ultima non sia una sorta di ultima spiaggia di cui accontentarsi (“Being a father. It lives up the hype”), ma un valore da aggiungere agli altri.
I just took it up recently. I bowled a strike once when I was a little girl and it seems to me if you can do it once, then you should be able to do it 12 times in a row, which would be a perfect game.
Nel corso di queste tre stagioni la serie ha subito diverse critiche, sia in patria che all’estero, soprattutto sulla scrittura dei personaggi femminili. Premettendo che Aaron Sorkin non è certo un esperto dell’universo femminile e in tutte le sue storie ha parlato soprattutto di uomini, sia al cinema sia in TV, ci sono alcune figure che fanno eccezione, alcuni caratteri femminili che l’autore di Studio 60 è riuscito a costruire in maniera esemplare. Uno è sicuramente C.J. Cregg di The West Wing, l’altra è Mackenzie McHale. Donna sopra l’uomo (è lei la Executive Producer, non Will) e dietro l’uomo per eccellenza, è per certi versi il personaggio più sorkiniano di tutti in quanto capo di quella squadra di creativi che realizzano da dietro le quinte ciò che apparirà poi in superficie, costante tematica nella carriera di Aaron Sorkin. Nel flashback vediamo come Charlie sia riuscito a recuperarla e a portarla nel suo show, a riprenderla da un periodo di noia e alcol senza alcun indugio perché certo di star riportando alle corse un cavallo di razza, qualsiasi cosa gli altri possano dire – “Haters gonna hate” dice Mac e chissà quanta gioia ha provato l’autore nel metterle in bocca questa frase. Charlie è non solo l’artefice della squadra e quindi della relazione tra i due protagonisti, ma anche una fondamentale figura paterna per Mac e il momento in cui le mima come lanciare la palla da bowling è di rara tenerezza.
And then I said, “But Maggie Jordan is the sixth best we’ve got.
You couldn’t do any better than Maggie unless you went with one of the other five.
La storia d’amore tra Maggie e Jim, presente sin dalla prima stagione e che in maniera intermittente ha fatto capolino nella vita professionale di entrambi, è arrivata a un punto di svolta durante la scorsa puntata, nel famoso viaggio in aereo, dove in un non-luogo perfetto per l’occasione, l’amore ha potuto realmente dare uno schiaffo ad entrambi, mettendo alla berlina, come se ce ne fosse ancora bisogno, le rispettive insicurezze. All’ultimo giro di questa corsa seriale Sorkin riscatta i suoi personaggi ponendoli di fronte a una scelta difficile che proprio in quanto tale funge da ultimo passaggio all’età adulta, uno di quei riti iniziatici prettamente americani. A Jim viene chiesta una referenza su Maggie da una redazione di Washington D.C. mettendolo così di fronte a un grande dilemma: il classico bivio tra amore e lavoro questa volta viene esaltato dalla sovrapposizione delle due cose, non si può scegliere l’uno senza scegliere anche l’altro e viceversa. Jim allora sceglie, dimostrando grande eroismo, entrambe: l’amore (per Maggie) e il lavoro (di Maggie) anche a costo di perdere la donna amata. Essendo tutt’altro che un personaggio perfetto, Jim nel finale fa marcia indietro ed appena presentatosi un posto libero (il suo), a seguito di una promozione (la sua), dà per scontato che Maggie rinunci al colloquio. Se i due si amano, nel mondo ideale di Sorkin, è anche perché si completano, come dimostra in ultimo Maggie che, scegliendo di andare lo stesso a Washington, sceglie (anche lei) al contempo sia l’amore sia il lavoro, perché sa benissimo che per piacere a Jim – come per piacere a Charlie, come per piacere a Sorkin – l’ultima cosa che deve fare è accontentarsi della pappa pronta. Maggie accetta la sfida, va a costruirsi un futuro in un altro stato e sfida le insidie di una storia a distanza certa dell’amore che lega lei e Jim.
He wasn’t angry that you guys were fighting him. He was coming on it. He loved you, Don. And he was so proud of you. I doubt you killed him. That had to be hard to say to me and I appreciate it, but I don’t care. I care what you did for him while he was alive.
E agli altri? Agli altri due che hanno da sempre fatto parte del gruppo storico della redazione cosa succede? Sloan e Don si sentono entrambi responsabili della morte di Charlie e in parte lo sono realmente. Come nel caso di Will, l’autore è meticoloso nel bilanciare la pesantezza del senso di colpa con il gusto per l’ironia sdrammatizzante, come quando tutti imputano a Sloan la responsabilità della morte di Charlie. Don riprende la storyline che lo ha visto protagonista dell’episodio più criticato dell’intera serie e va dalla moglie di Charlie a confessarsi, denunciando così anche ai suoi occhi tutte le sue difficoltà, tutta la sua incapacità di divincolarsi dai pregiudizi che in passato l’hanno paralizzato. La risposta della moglie di Charlie è semplicemente commovente, esaltata dall’azzeccatissima scelta di mostrarla attraverso il piano d’ascolto di un Don che non riesce a trattenere le lacrime.
Per quanto riguarda la sezione relativa al passato scopriamo come si sono conosciuti Don e Sloan e che a quest’ultima il primo è piaciuto sin dal primo incontro. Scopriamo come è nata la loro squadra e apprezziamo la mentalità vincente di Don, il quale, anche grazie agli insegnamenti di Charlie, ha il coraggio e l’ambizione di rifiutare il posto di Mac e portare avanti la propria creatura. Don e Sloan dimostrano di essere professionisti veri e quindi, nel mondo sorkiniano, anche inguaribili romantici.
Charlie Skinner had some kind of mission.
Come detto in apertura, Sorkin si è premurato di terminare la sua serie al penultimo episodio, in modo da poter avere le mani libere nell’ultimo per raccontare il perché e il come di queste scelte, per mostrare il cuore dello spirito che ha pervaso la serie e fare della figura di Charlie il collante di tutta l’impalcatura narrativa. Charlie è colui che dà il la a tutti i flashback e questi sono il collante di tutto, anche perché raccontano la genesi della squadra, l’inizio dell’avventura (o del match, per usare una metafora sportiva tanto cara all’autore). Charlie è il maieuta della redazione, colui che ha fatto partorire il meglio di loro stessi ai figli putativi che ha incontrato sulla propria strada; è il regista di tutto, come vuole alludere anche una scena che lo vede intento a guardare la performance di Will su YouTube. Perché quell’idea di gruppo, di team di professionisti che vivono per il proprio lavoro, che da sempre ha segnato l’ideale di vita sorkiniano, è ciò che ha tenuto in piedi questa serie e anche ciò che la chiude definitivamente, con quella splendida canzone che molti di loro (tra cui un erede di Charlie) si trovano a cantare, tutti insieme, esattamente come in Un dollaro d’onore di Howard Hawks (autore con cui Sorkin condivide tantissimo), tutti intenti a difendere quel il fortino chiamato integrità giornalistica.
Why is overrated more fun than, say, underrated?
Molti hanno preso in giro questa visione così idealistica del giornalismo, l’hanno vista come ingenua, vecchia. Tuttavia non è così immediato capire cosa c’è dietro quella rappresentazione così eroica, non è così chiaro a tutti che valore ha l’integrità in un modo del genere. Il sistema televisivo statunitense è molto diverso da quello italiano e presumibilmente l’ACN non è affatto un canale finanziato dallo Stato (sono rarissimi e spesso irrilevanti), quindi quando si sente parlare di servizio pubblico non si tratta di un riferimento a un lavoro di tipo statale, ma di un reale incarico che ha più a che fare con la missione che col capitalismo, di un impegno fatto di disciplina e devozione. Per queste ragione la serie è amata anche da esperti del mestiere italiani. Nel finale dell’episodio arriva la riscossa dei nuovi media, un settore da sempre molto criticato dall’autore attraverso personaggi prevalentemente “analogici” (e questo è uno dei frangenti di maggiore debolezza della serie). Non prima di aver dato vita all’ennesimo ammonimento verso i rischi dell’informazione e la mancanza di responsabilità sul web (questa volta sensato e ben argomentato), Sorkin ci presenta l’altra faccia di internet, quella creativa, propositiva ed eticamente irreprensibile, quella che finalmente può assumere la forma della missione e che assume le fattezze antropomorfe di Neil, tornato rigenerato e visibilmente più adulto dopo l’esilio.
You know how? We just decided to.
Prima di chiudere definitivamente c’è lo spazio per una piccola postilla, un finale muto, dove si lavora e basta, senza fare altro, come se lo spettatore non esistesse; un omaggio a tutti i personaggi come se fosse una sigla, un insieme di volti che semplicemente hanno deciso (decided to) di essere una squadra.
The Newsroom non è stata una serie perfetta (anzi!), è stato sicuramente il prodotto meno riuscito di Aaron Sorkin, e il fallimento di Charlie (in vita) è un po’ anche il simbolo di quello dell’autore. The Newsroom non ha certo raggiunto le vette estetiche di altri suoi show, ma forse proprio per questo ha potuto mettere in evidenza, nei suoi pregi e nei suoi difetti, una mente autoriale di grandissimo talento e originalità.
Da questa settimana in avanti, indipendentemente dai gusti, la lontananza di Sorkin dalla televisione sarà un’assenza pesante.
Voto episodio: 8,5
Voto stagione: 8
Voto serie: 7,5
Ho adorato la citazione della canzone di Guccini, a mio avviso una delle migliori canzoni italiane degli ultimi anni e assolutamente azzeccatta per l’episodio ed in generale la serie e non solo per il titolo.
Non si possono spendere 2 parole su una serie che finisce soprattutto se si chiama Newsroom. Serie complicata, a volte pesante, spesso contestata e non sempre costante nel corso dei 3 anni di messa in onda ma pur sempre una serie che si è lasciata ammirare ed ha regalato qualche cosa da portarci dietro.
Ed è questa forse la risposta più positiva che la serie possa averci dato alla domanda”ma cosa ha lasciato newsroom allo spettatore medio?”
Ha lasciato degli insegnamenti banali ma mai meno attuali di quanto lo siano oggi. Integrità, onestà, passione nel lavoro, nella vita e nelle idee ripagano e ripagheranno sempre il nostro animo, il nostro spirito, il nostro cuore forse o meglio sicuramente senza ripagarci mai in termini materialistici o economici.
Oggi il 99,99% della informazione italiana ed in minor parte internazionale spopola con notizie spazzatura, gossippate e malvagità di ogni tipo incentrate sempre e solo su congetture, malizie e invenzioni di ogni tipo atte ad addormentare lo spettatore, la mente dello spettatore e a far tutto fuorchè informarlo.
Questo grande e banale insegnamento lascia questa bella serie, impacchettato in un prodotto godibile e sempre sul pezzo che non ha saputo fare il salto verso l’olimpo ma resterà comunque e sempre una serie da consigliare al tuo amico seriale di turno.