Il meccanismo a scatole cinesi di Hotel, rivelatosi vincente sin dal debordante pilot, appare a ormai sei episodi dall’inizio di stagione un espediente perfetto per dar vita alla creatività degli autori, oltre che un dispositivo narrativo utilissimo a lavorare sul genere di riferimento.
Tanti personaggi, numerose storie, archi narrativi deboli, disposizione al contagio tra storyline quasi gemelle e afferenze tematiche ripetute. Queste le prime linee guida che si stanno imponendo nella prima parte della stagione, in cui Murphy e Falchuk decidono felicemente di abbandonare ogni velleità di costruire storie forti, grandi racconti classici o viaggi di autocoscienza dei personaggi, per muoversi in territori popolati da replicanti postmoderni vari ed eventuali; lo fanno con enorme consapevolezza, consci del fatto che prosciugare la quinta stagione di ogni minima pesantezza drammatica (ciò che non è stato fatto in Coven, ad esempio) significa potersi dedicare a un discorso sulle immagini e sui costumi contemporanei, declinato attraverso il lavoro sul genere orrorifico, per il quale i due autori appaiono decisamente più portati.
“Il Post-modernismo sguazza, si immerge, nelle frammentate e caotiche correnti del cambiamento come se non esistesse che cambiamento” (David Harvey – The Condition of Postmodernity)
A conti fatti è la fusione tra lo stile – meglio se auto-riferito, cioè senza alcun significato narrativo da comunicare – e la riflessione sulle superfici (delle immagini, dei corpi, delle paure) il vero punto di forza di questa serie. Da sempre. In questa stagione, come solo e a tratti in Asylum, si constata il coraggio di puntarvi fino in fondo, facendo anche tesoro degli errori del passato, così come delle vittorie. Tre anni fa, parlando di una delle più interessanti puntate di Asylum, facemmo riferimento a una nuova maturità stilistica che stava acquisendo la serie, tanto da inserirsi nel solco di tutte quelle riflessioni sull’immagine, sui media e sulla cultura contemporanea legate al postmodernismo. Notammo anche come quel tipo di stile utilizzato in maniera così esasperata trovava una sistematizzazione radicale grazie alle regie di Alejandro Gomez-Rejon (il quale sarà presente con il suo ultimo lungometraggio al prossimo Torino Film Festival) piene di grandangoli estremi e uno sguardo mobile al limite del virtuale, stile che ha poi caratterizzato il resto della serie e che in questa stagione torna nella maniera più dirompente ed efficace. Prendiamo il prologo: la messa in scena della Los Angeles degli anni Venti porta alla coabitazione tra l’attenzione al dettaglio e i mastershot atti a riprendere il più ampio paesaggio possibile; la Contessa è raggiunta da un movimento di macchina, al contempo virtuoso e classico, mentre si appresta a consultare il Dr. Montgomery in quella che abbiamo conosciuto come la Murder House nella prima stagione (dando conferma alla promessa di Murphy circa i collegamenti più o meno espliciti tra le stagioni della serie). Altrettanto significativa è la potenza iconica di Lady Gaga, che questa volta ricalca perfettamente i contorni della diva hollywoodiana degli anni Venti, non solo nel nelle acconciature, ma anche nelle espressioni, dimostrando qualità interpretative decisamente inaspettate. Ovviamente questo è solo uno dei possibili esempi di quest’episodio (e questa stagione in generale), a cui non si può non affiancare l’entrata di Matt Bomer e Angela Bassett nell’hotel, dove quest’ultima buca lo schermo incarnando una versione vampiresca di Jackie Brown.
“E a un dio a lieto fine, non credere mai” (Fabrizio De Andrè – Coda di Lupo)
Nelle fasi iniziali dell’episodio vediamo l’ormai classico wall of evidence del detective John Lowe, un intricato miscuglio di fogli, post-it, colla, fili, che in quest’occasione si concentra su quello è che è forse il più naturale dei comandamenti: “Onora il padre e la madre”. Proprio su questa dialettica tra genitori e figli, incentrata sulla messa in mostra e sulla vergogna reciproca, “Room 33” intavola gran parte dei suoi discorsi. Temporalità diverse unite da un unico soggetto, dalla megalopoli del 1926 alla camera che dà il titolo all’episodio, abbiamo un tesoro orribile e indicibile, perturbante e terrificante. Qui entra in gioco la religione (“non nominare il nome di Dio invano” è l’altro comandamento citato) e i riferimenti che l’episodio sceglie di richiamare sono palesi. Sì comincia dal cristologico trentatré della camera a cui si abbina l’arrivo per la prima volta della Contessa a un terzo dell’episodio con un look dall’evidenza incontrovertibile: Lady Gaga è presentata come una donna angelicata, vestita completamente di bianco, richiamando spudoratamente l’iconografia della Vergine Maria. Il punto è che quel parto così strano, così disturbante, porta a una sorta di Redentore al contrario, un essere mostruoso, più mefistofelico che cristologico. In questo senso l’episodio si appoggia, con un atteggiamento splendidamente postmoderno, a due grandi film che nel passato hanno trattato quest’argomento: da una parte Rosemary’s Baby per lo sconcerto nel partorire il Demonio; dall’altra Eraserhead, per la mostruosità incalcolabile di un essere in ogni caso uscito dal grembo di una donna. La regia qui ci mette del suo perché, con uno piglio che guarda a tanto cinema di David Lynch, si invola in soggettive allucinate e disturbanti di quest’essere impossibile da guardare davvero, di cui solo alla fine si ha per un attimo la possibilità di apprezzarne le fattezze e con esse la nuova, imprevedibile e potenzialmente bellissima alleanza tra Alex e la Contessa.
But time passes for me. You measure decades by the changes in hemlines. It means nothing to you. You know as well as anyone that we all just get one great one in our lives.
“Room 33” è anche uno degli episodi più tragici della serie fino a questo momento. Questa volta la genitorialità non c’entra, o meglio, interviene in maniera indiretta su due personaggi: Liz e Tristan. Arrivati a questo punto conosciamo entrambe le loro storie, le ragioni della loro sofferenza e della loro rinascita, così come sappiamo del legame inscindibile con la Contessa, a tutti gli effetti loro madre acquisita, artefice della loro nuova vita e indiscutibile demiurgo. In una bellissima scena in cui i due vengono mostrati nel pieno di un amplesso accompagnati da One Caress dei Depeche Mode, si ha l’opportunità di saggiare quanto il senso del tragico degli autori possa divampare all’improvviso. L’esordiente John J. Gray segue alla lettera i dettami di Murphy e scrive una storia di amore e morte, di sofferenza, ribellione, emancipazione e atrocità che non può lasciare indifferenti. L’incontro tra Tristan e Liz è avvolto nel romanticismo, una relazione che in un attimo passa dal corpo alla mente, riuscendo a comunicare una sorprendente alchimia tra il maturo amante dei classici (che stavolta gli dedica Wilde e Bronte) e il vigoroso ribelle e indisciplinato. Come ogni vero rapporto romantico che si rispetti, non può che arrivare la tragedia nel finale, vestita coi panni della mortifera Contessa che, non prima di aver assistito alla reale emancipazione della propria giovane creatura, gli leva la vita in maniera brutale, punendo in modo forse ancora peggiore l’incolpevole Liz.
This isn’t a crisis. It’s a… invitation for an adventure
Un’altra cosa abbastanza tipica dell’opera creata da Murphy è la difesa di una certa stranezza dell’essere umano, declinatasi in varie forme nel corso delle stagioni vedendo quella più estrema, seppur poco riuscita, in Freak Show. In questo caso le differenze sono soprattutto legate alla dissimile resa estetica degli autori, di un discorso sui caratteri molto più solido e riuscito, ma sempre limpido e coerente con il pensiero che tiene insieme l’intero progetto. In quest’episodio per esempio abbiamo diverse dimostrazioni, soprattutto tra le pieghe della narrazione, in quegli anfratti forse poco rilevanti dal punto di vista del main plot, ma non per questo meno significativi di quello del discorso della serie. In “Room 33” a un tratto viene presentato il breve ma emblematico caso di Cara: si tratta di una ragazza abbondantemente sovrappeso, depressa (“She had so much love to give, but nobody to give it to”), che a un certo punto decide di togliersi la vita in vasca da bagno. In una specie di contrappasso, Cara, da sempre torturata in vita, il cui aspetto è ormai aggravato dalla putrefazione della carne, nella sua reincarnazione mostruosa post-mortem si mette a spaventare i clienti dell’albergo in cerca di una magra soddisfazione. Questa è quella difesa degli ultimi che, quando a Murphy riesce bene, si impone come una delle cose più potenti della serie, in una maniera molto più sofisticata e meno smaccata di quanto accadeva ad esempio in Sense8.
Good to see you’re finally, truly checking in to the Hotel Cortez.
Un’altra parte consistente dell’episodio è dedicata alla ricerca spasmodica del detective John Lowe, ormai totalmente (auto)esautorato dal suo mestiere e irrimediabilmente immerso nell’incubo labirintico dell’Hotel Cortez. Come in caduta libera attraverso i gironi dell’inferno, John passa senza soluzione di continuità da un incubo all’altro, saggiando diversi livelli del dolore, da quello fisico (e sanguinario) a quello mentale, specie quando si scontra con la mutazione della moglie. Il repentino movimento di va e vieni che caratterizza i continui spostamenti di John all’interno e all’esterno dell’hotel è rappresentato alla perfezione dalla regista Loni Peristere, autrice dalla mano estremamente mobile, amante del pedinamento e dell’action esasperato, come hanno dimostrato anche le sue direzioni di alcuni episodi di Banshee. Lowe rappresenta l’incarnazione del senso comune, dell’uomo medio; è la volontà stoica di uno spettatore impreparato e disarmato rispetto a ciò che arriva dal di fuori del suo seminato; è il soggetto contemporaneo che incontra il perturbante e ne esce inevitabilmente sconfitto, o quantomeno dominato e poi cambiato. Non è un caso che Marsh gli appaia a un certo punto come il fato che bussa alla porta. E ancora, non è assolutamente un caso che la maggior parte dei suoi incontri, specie i più disturbanti, siano incentrati oltre che sulla violenza sul grande tema del sesso, passando dalla nuova versione della moglie sino alle due russe, là dove sesso e sangue sono metafora dei suoi orizzonti fin troppo ristretti al cospetto del caleidoscopico mondo di Ryan Murphy.
Praticamente a metà stagione American Horror Story: Hotel riesce nell’impresa che all’inizio sembrava impossibile, ovvero tenere un livello alto sulla media distanza, dimostrando di poter essere ancora un prodotto ispiratissimo, in grado di parlare al presente del presente e del passato, di lavorare sul genere di riferimento e di dimostrare quanto possa essere innovativo al giorno d’oggi il formato antologico.
Voto: 8,5
Ottima recensione, che condivido appieno, così come il discorso sul postmoderno e il perturbante. Unico appunto, del tutto marginale, le due ragazze sono svedesi.