American Gods – 1×08 Come to Jesus 2


American Gods – 1x08 Come to JesusGiunti ormai a metà di questo ricchissimo 2017 appare evidente come alcune delle migliori novità del panorama seriale siano rappresentate da trasposizioni letterarie che spaziano tra i generi più diversi, dalla distopia di The Handmaid’s Tale allo sperimentalismo di I love Dick, passando naturalmente per l’affascinante “serie sugli dèi americani” di Bryan Fuller, tratta dall’omonimo romanzo di Gaiman.

Ciò che è particolarmente interessante notare è come questa proliferazione di adattamenti sul piccolo schermo – che non sono certo una novità in senso assoluto – stia andando sempre più nella direzione di un netto superamento del tradizionale rapporto romanzo/film a cui le trasposizioni cinematografiche ci hanno abituato. Infatti, se per i film spesso il problema, più o meno giustificato, è quello di riuscire a mantenere il grado di approfondimento e stratificazione del materiale letterario, pena il rischio di essere tacciati di scarsa fedeltà o comunque di aver impoverito o banalizzato il racconto, nel caso della narrazione seriale la questione viene quasi a ribaltarsi: i tempi dilatati della serialità la rendono infatti il luogo ideale in cui non solo esplorare ma addirittura ampliare il materiale di partenza, giungendo a manipolarlo con una libertà e con dei risultati che fino a poco tempo fa sarebbero stati impensabili.

Too much going on at once. We should start with a story.

American Gods – 1x08 Come to JesusProprio in questo contesto si inserisce American Gods, che in questa prima stagione ha fatto delle digressioni dal racconto principale – quei “Somewhere in America” già presenti nel romanzo – il principale banco di prova su cui misurare la propria libertà creativa, espandendole e modificandole fino a renderle il perno estetico e tematico dello show, mettendo così in atto un’operazione senza dubbio coraggiosa e non priva di rischi ma che, alla luce del finale, si è rivelata nel complesso vincente. Non è quindi un caso che anche il finale di stagione si apra con una storia; il lungo prologo in cui Nancy, nonostante il disappunto di Wednesday e Shadow, si ostina a voler raccontare l’origin story di Bilquis prima di discutere dell’imminente guerra tra gli dèi, finisce così inevitabilmente con l’assumere un valore programmatico e meta-narrativo che sintetizza alla perfezione la poetica e le intenzioni di Fuller: l’autore infatti si rivela perfettamente consapevole del desiderio dello spettatore di arrivare al dunque, di vedere lo scontro tra gli déi, ma non è questo che a lui – e forse neanche a Gaiman – interessa veramente. Fuller vuole raccontarci innanzitutto una storia che ha come protagonista l’America, il suo rapporto con la fede e con la sua identità, e per farlo ha deciso di prendersi il suo tempo, al fine di lavorare da un lato sull’approfondimento della mitologia che sostiene il racconto, e dall’altro sulla costruzione di una personalità visiva e metaforica molto forte. Si tratta quindi di una scelta autoriale ben precisa, che solo in seconda battuta risponde alla necessità di adattamento di un romanzo relativamente breve al formato seriale, e che per questo non può essere semplicemente dismessa come un banale annacquamento del racconto: le iconiche parabole degli dèi, oltre a permettere a Fuller di dare libero sfogo alla sua attitudine visionaria, sono riuscite infatti ad instaurare un dialogo quanto mai diretto con la contemporaneità, non solo mettendo in luce la crisi identitaria americana e le sue contraddizioni, ma andando al tempo stesso a decostruire il mito dell’America come luogo di libertà e accoglienza assoluta: la sovrapposizione tra i vecchi dèi di American Gods e le minoranze a cui devono il loro arrivo li rendono infatti il simbolo per eccellenza – non particolarmente raffinato forse, ma di certo molto efficace – della loro lotta per essere riconosciuti e ricordati, che in fin dei conti equivale a quella per sopravvivere – “Gods are real if you believe in them”.

It’s religious darwinism. Adapt and survive.

American Gods – 1x08 Come to JesusAlla luce di queste considerazioni resta comunque innegabile che le vicende di Wednesday e Shadow abbiano patito, forse troppo, questo tipo di approccio: il tono rarefatto della narrazione, continuamente interrotto da digressioni e attento a non svelare tutto e subito, ha infatti finito col renderle spesso il segmento più debole dell’episodio, risultando poco coinvolgenti e rischiando di suscitare frustrazione nello spettatore, soprattutto se non ha familiarità con il romanzo di Gaiman. “Come to Jesus”, pur non tradendo la sua tendenza alle deviazioni, cerca di rimediare a questi problemi, facendo avanzare la trama a passo più spedito, fino a portarla a un punto di svolta: la rivelazione dell’identità di Wednesday e la decisione di Shadow di abbracciare la fede, unite all’alleanza con Ostara e alla dichiarazione di guerra di Mr. World, segnano infatti ufficialmente la fine di quello che in fin dei conti potremmo considerare come un lungo prologo. Fuller, anche grazie all’ottima regia di Floria Sigismondi, mette in scena un finale ricchissimo di suggestioni visive – la dimora di Easter, i Jesus, l’arrivo dei nuovi dèi… – che sorprende per il modo in cui riesce a essere costantemente sopra le righe senza mai risultare ridicolo o fuori luogo, e al tempo stesso ad affrontare temi complessi come il sincretismo culturale e religioso senza prendersi troppo sul serio, giungendo a definire in maniera lampante il vero terreno dello scontro a cui assisteremo. Quella di Wednesday/Odino è una ribellione alla presunzione dell’uomo contemporaneo di poter vivere senza dio, e all’accettazione da parte degli altri dèi – che siano nuovi come Tech Boy o antichissimi come Ostara – di un potere privo di devozione consapevole: il desiderio di tornare all’antica dinamica di preghiera e ricompensa, insieme all’inquietante scoperta che ha deliberatamente interferito con la vita di Shadow e Laura, vanno a delineare un quadro in cui appare sempre più chiaro come la distinzione tra vecchi e nuovi dèi non abbia alcun tipo di corrispondenza etica e, soprattutto, come al contrario abbia molto a che fare con le modalità di controllo dell’uomo, esplicito e dichiarato in un caso, subdolo e nascosto nell’altro, ma che ad ogni modo va a sottolineare l’esistenza di un solco incolmabile tra uomo e divinità.

“Come to Jesus” nel complesso chiude in maniera soddisfacente una stagione dal tono fondamentalmente preparatorio, forse non coinvolgente quanto ci si sarebbe aspettati ma senza dubbio emblematica di una nuova libertà creativa, sia nei confronti del materiale letterario (che viene manipolato per le esigenze più diverse – si pensi al lavoro strardinario fatto sul personaggio di Laura), che delle forme di narrazione seriale tradizionali (con il ribaltamento del rapporto gerarchico e qualitativo tra digressioni e main story), e che ha trovato nel linguaggio e nello stile di Fuller una delle sue massime espressioni.

Voto episodio: 8+
Voto stagione: 7/8

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2 commenti su “American Gods – 1×08 Come to Jesus

  • Michele

    Bella recensione!
    Sono d’accordo sia sul giudizio della puntata che della stagione.

    Rimango poi sempre molto colpito quando vedo la libertà con cui si parla di religione nelle serie Americane. In Italia non credo che lascerebbero usare lo stesso tipo di linguaggio. Poi ho trovato interessante Mad Sweeney che dice quello che gli Dei fanno di solito è interferire con la vita degli uomini.

    Una domanda di fondo rimane per me che non ho letto il libro: perché Wednesday ha scelto proprio Shadow? Chi è Shadow? E cosa diventerà? Qualche puntata fa Wednesday aveva buttato lì un “King of America” en passant. Staremo a vedere. Di sicuro sono curioso di vedere se crederà veramente, per esempio quando la moglie gli dirà chi è stato a ucciderla.

     
  • Setteditroppo

    D’accordissimo con la recensione. Aggiungo una considerazione di ordine generale. Hawley e Fuller sono in questo momento gli autori più coraggiosi del panorama seriale e continuano imperterriti a spostare l’asticella più in alto. D’altra parte stiamo raggiungendo probabilmente l’apice, il picco, il punto più alto dell’età aurea delle serie tv e, come in ogni parabola geometrica rivolta verso il basso, nel prossimo decennio dovremmo assistere ad una lenta e graduale discesa. Il solo modo per difendersi da quello che è un processo che sta nelle cose, inevitabile e naturale, è sperimentare, ricercare nuovi linguaggi, rivoluzionando contenuti e/o modalità di messa in scena di un materiale preesistente – come giustamente osservi nella recensione -, che sia film o romanzo o fumetto, perché ormai non s’inventa più nulla; e certo, a volte si può non centrare completamente il bersaglio, come è accaduto a questa prima stagione, ma va benissimo così.
    P.S. Non ho citato Lynch perché la sua opera è fuori concorso, è arte contemporanea, la serialità gli sta stretta, ed è godimento puro ad ogni puntata.