
Netflix, con Atypical, prova a dare una sua personale risposta alla stessa domanda.
La serie, scritta da Robia Rashid (già autrice e co-produttrice per How I Met your Mother) e rilasciata in blocco lo scorso 11 agosto in otto episodi da trenta minuti, è incentrata sulla vita di Sam Gardner, diciottenne affetto da disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento. Dopo 13 Reasons Why il colosso dell’on demand sceglie nuovamente di trattare un argomento delicato e controverso, questa volta la disabilità mentale. Se nel primo caso, a prescindere dai gusti personali, è innegabile che Netflix abbia saputo e voluto osare, parlando di Atypical non possiamo dire lo stesso.
La trama in sé, se spogliata dall’autismo, è alquanto banale, ovvero un adolescente in preda alle prime pulsioni sessual-romantiche che decide di trovarsi una ragazza. L’ambientazione è il classico liceo americano compreso di tutti i cliché, tra cui non manca nemmeno il ballo della scuola all’ultima puntata. Ciò che distingue Atypical dal resto delle serie a tematica teen è, appunto, l’autismo di Sam, e le ripercussioni che ha sulla sua vita e su quella di chi gli sta vicino. Può quest’aggiunta fondamentale, nell’immenso panorama seriale di oggi, dirsi abbastanza? Secondo noi, se l’argomento viene trattato come succede in queste circa quattro ore di show, la risposta è no.
Partiamo dal presupposto che Atypical non è certo una brutta serie, anzi. È ben confezionata, fresca, semplice, scorre via veloce e ci fa fare anche qualche risata. Come si dice di solito, si lascia guardare. Tutto ciò però non basta, almeno non in questo caso. Quando si sceglie di trattare un argomento come l’autismo (o come il suicidio giovanile in 13 Reasons Why) ci si carica implicitamente di tutta una serie di responsabilità morali. Bisogna far riflettere, discutere, dire qualcosa di importante, o perlomeno di nuovo.
Invece, nonostante le sue pretese di originalità, Atypical non è così coraggiosa o insolita come vuole presentarsi.
I’m a weirdo. That’s what everyone says.

Sam, egregiamente interpretato da Keir Gilchrist, invece deve fare tutto da sé, reggendo lo show quasi solo sulle sue spalle per sopperire alla debolezza della trama. La cosa positiva è che ci riesce, e anche abbastanza bene. Certo, resta pur sempre un personaggio alquanto stereotipato: il suo è un autismo lieve ed edulcorato, e l’espediente dell’interesse per un argomento nerd è qualcosa di visto e stravisto. Il nostro protagonista incarna perfettamente l’autistico tipico da schermo, quello strambo ma innocuo, che ci offre uno sguardo poetico e dolce sulla vita e le sfide di tutti i giorni. Nulla da ridire, certo, e purtroppo neanche nulla di nuovo.
Eppure Sam ci piace davvero, e fin dal primo minuto.
“Sometimes, I don’t know what people mean when they say things, and that can make me feel alone even when there are other people in the room.” Quello che il ragazzo racconta, grazie agli efficaci espedienti delle sedute di terapia e della voce fuori campo, è solo in apparenza peculiare della sua condizione autistica, perché in realtà potrebbe essere applicato alla vita di qualunque adolescente, o più in generale di tutti noi. Chiunque, almeno una volta, ha avuto voglia di spegnere ogni suono per poter stare da solo coi propri pensieri. Attraverso queste scelte di scrittura del personaggio, con similitudini tra le emozioni di Sam e quelle dello spettatore, è chiaro l’intento degli autori di rendere la tematica dell’autismo più comprensibile, avvicinandola al sentire comune. Allo stesso tempo però le persone autistiche (o meglio, individui affetti da autismo, come ci terrebbero a precisare le mamme del gruppo di sostegno) sono interessanti perché riescono a essere così simili a noi eppure nello stesso tempo profondamente diverse. Sam è immune alle regole della società, se ne crea di sue su un quaderno; non finge mai, dice sempre e solo quello che pensa senza preoccuparsi delle conseguenze della sua sincerità. È più sensibile, in qualche modo più puro, ed è anche questo a renderlo un protagonista accattivante.
Adélie, chinstrap, emperor, gentoo.

Perfettamente inserita in questo filone stralunato e un po’ fiabesco è la figura di Paige. La ragazza si presenta da subito come un personaggio risoluto, estroverso e determinato, ma anche molto dolce e bizzarro quanto basta; è la compagna giusta per Sam perché non lo tratta mai con condiscendenza, pur mantenendo sempre ben presenti la sua condizione e i suoi problemi. Non si relaziona a lui come se avesse paura di poterlo rompere (come fa suo padre Doug), e non si fa nemmeno troppi problemi nell’inondarlo di parole o limitarlo con la regola delle tre carte sull’Antartide. Ma allo stesso tempo è lei a dimostrarsi la più attenta e premurosa di tutti, nel proporre la Silent Night al Consiglio d’Istituto. Se Netflix produrrà una seconda stagione sarà interessante vedere come si evolverà il loro rapporto.
Piacere, siamo i Gardner.

C’è Elsa, la mamma che si sente prigioniera nel suo ruolo e risolve con una squallida scappatella; c’è Doug, il padre che soffre perché non riesce a legare col figlio diverso; c’è Casey, la sorella un po’ rude ma col cuore d’oro, che ama Sam ma che si sente anche schiacciata dall’essere quella “normale”. A mancato sostegno delle scene che coinvolgono i Gardner ci sono dialoghi piatti e superficiali, con spunti importanti appena accennati. In Speechless, un gioiellino di comedy uscita nel 2016 che tratta di disabilità, la forza della serie sta proprio nell’avere costruito attorno al protagonista una famiglia unita e credibile (e anche molto divertente). Qui invece è proprio questo a mancare, credibilità e unione: i quattro Gardner ci danno troppo spesso l’idea di gente che passava di lì per caso.
Bisogna ammettere che con l’andare delle puntate questa sensazione un po’ si attenua, grazie ai nuovi dettagli che emergono sulle varie backstory, ma non ci lascia mai del tutto, soprattutto per quanto riguarda l’insopportabile madre. Sembra quasi che gli sceneggiatori lo facciano apposta a non mettere assolutamente nulla che ci possa far piacere Elsa, una ben poco espressiva Jennifer Jason Leigh. La madre di Sam non fa altro che tentare di tarpare le ali a entrambi i suoi figli, riempirli di paure, sfogare le sue frustrazioni sul marito, per culminare poi in una scontatissima relazione extraconiugale con un barista di cui in realtà non le importa granché.

Quando proviamo a guardare ad Atypical come a un ritratto dell’autismo, cercando un prodotto che sia originale e verosimile, subito ci accorgiamo che qualcosa non torna; se invece proviamo a leggerlo come una dramedy tradizionale, prescindendo dalla questione della disabilità, allora risulta piacevole (seppur banale). Tirando le somme, qual è lo scopo, il messaggio che Atypical vuole dare? A quale domanda vuole davvero rispondere? Se si tratti di una riflessione su cosa sia davvero la normalità, se voglia mostrare com’è l’amore visto da una persona autistica, o se voglia farci capire che chiunque ha difficoltà nel vivere la propria vita, il punto dolente è che non lo capiamo. Nessuno di questi messaggi ci viene passato con abbastanza coraggio né chiarezza.
Atypical sembra un compitino delle vacanze, che Netflix sicuramente ha svolto secondo tutti i crismi, ma che una volta tornati in classe a settembre faremo davvero molta fatica a ricordare.
Voto stagione: 6-
