Forse la prima definizione che viene in mente per un prodotto firmato da David Simon è sicuramente “chirurgico” e, arrivati al penultimo episodio di The Deuce, non può che essere ancora questa la sintesi della sua nuova fatica. E per quanto questo sia il suo stile, la sua firma, ci troviamo comunque ogni volta davanti ad un risultato diverso, la cui filigrana fatta di precisione e qualità non cambia mai.
Per pochi altri nel mondo della tv contemporanea è possibile parlare di “autore”, ma per Simon è quasi d’obbligo, perché appunto il suo stile e il suo modo di concepire le storie rimane sempre coerente con se stesso, figlio di quel backgound giornalistico da cui proviene. La cura dei particolari, l’attenzione spasmodica ad ogni minimo dettaglio, sia visivo che a livello di “atmosfera”, non può che avere una presa diretta e precisa sullo spettatore, che si trova inevitabilmente coinvolto nella narrazione che vede accadere davanti agli occhi. Questa è ovviamente una questione ben diversa dall’affezione o dall’empatia, ovvero quel sentimento che spinge a partecipare emotivamente alle avventure o – molte volte – alle disavventure del protagonista, perché sicuramente non è questo il coinvolgimento che viene fuori dai suoi lavori.
In The Deuce, così come in The Wire e, ancora di più, in altri suoi lavori più brevi come Generation Kill, l’affezione accade prima per l’autore e poi per i personaggi che riesce a mettere in scena, proprio perché nel tempo è riuscito a costruirsi un mondo così facilmente riconoscibile che non è possibile ribaltare l’equazione. E a questo punto ciò che s’innesca dal punto di vista del pubblico è necessariamente una certa pazienza e non ingerenza nella voglia di azione o movimento, è come una sorta di conoscenza reciproca in cui inevitabilmente tutto è concesso – e che, puntualmente, non viene mai delusa. A ben vedere tutte le serie citate di Simon condividono una certa lentezza d’intenti, dove la descrizione fagocita molte volte la narrazione, ma senza che questo ne infici assolutamente la visione; in questo stesso modo abbiamo visto procedere The Deuce e così, senza neanche accorgercene, siamo giunti al penultimo episodio.
Di conseguenza a quanto appena detto, sembrerebbe che pochi “fatti” siano accaduti, e invece basta fare un veloce inventario per capire quanto è stato costruito: non solo la passerella sul The Deuce delle varie protagoniste, ma abbiamo visto il racconto di un luogo, di un periodo, di uno spaccato di storia che ha caratterizzato il passaggio tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70. Infatti in questo episodio veniamo catapultati direttamente nel 1972, un periodo che nell’immaginario collettivo è inevitabilmente collegato agli effetti del movimento hippy, agli studenti che provano a ribellarsi ai padri, benestanti e benpensanti, e alla guerra. Ma evidentemente è solo una visione parziale, perché una delle più grandi e permanenti rivoluzioni si sta svolgendo proprio sui marciapiedi di New York e per mano di quelle donne che identifichiamo troppo semplicisticamente in due modi: le prostitute da stereotipo si riducono necessariamente o a vittime di un sistema maschilista di sfruttamento del corpo e del sesso femminile o come costrette a battere i marciapiedi dalla vita, dalle circostanze o dai propri scheletri nell’armadio. Più di ogni altro episodio, invece, proprio questo “Au Reservoir” non smentisce ma ridimensiona i luoghi comuni, prova cioè a raccontare come sia molto più complesso il rapporto tra carnefice e vittima, tra necessità e libido.
Le storie che sicuramente colpiscono di più sono quelle di Ashley/Dorothy (Jamie Neumann) ed Abby (Margarita Levieva), entrambe vittime di un sistema uomo-centrico, ma in cerca di affermazione o quantomeno di riscatto. Le loro storie personali appaiono antitetiche, ma ad un’analisi più attenta sono paradossalmente identiche, perché figlie – putative o meno – di un amore/odio a cui sono legate fino ad esserne anche dipendenti. E se questa situazione di dipendenza si evince benissimo guardando il rapporto di Ashley/Dorothy con C.C., in cui c’è quel filo rosso di gelosia perché la donna si sente ormai sostituita dalla new entry Lori (Emily Meade), la relazione e l’astio di Abby verso la sua ricca famiglia ha diverse sfumature, nascoste sotto una situazione abbastanza tipica. In realtà, in entrambi i casi assistiamo a delle storie ordinarie per tanti versi, ma quello che fa davvero la differenza è come Simon, anzi in questo caso la brillante scrittura di Megan Abbott coadiuvata dalla regia di James Franco, riesca a dare rotondità e solidità alla storia interna e allo stesso tempo inserirla perfettamente in una cornice storica e quindi universale. I risentimenti verso la famiglia o la voglia di fuga da una vita che ormai inizia ad essere sempre più stretta (e che Ashley/Dorothy sintetizza in quel suo “Fuck this”) sono cose senza tempo, che attraversano i racconti e le storie; ma colorarli dei dettagli di cui sono fatti il rapporto prostituta/protettore e i cosiddetti “daddy issues” che tornano ciclicamente in scena è l’ennesima affermazione del grande talento che c’è dietro la serie.
Prendiamo i “daddy issues” appunto: sarebbe stato facile e un po’ banale, ma sicuramente efficace, “buttare” tutto il palinsesto del perché-una-donna-sceglie-di-fare-la-prostituta sulla questione padre violento o maniaco; sappiamo che questo aspetto esiste nella storia della protagonista Eileen/Candy, ma non è ancora chiaro cosa sia, non ci viene raccontato esattamente di cosa si tratta. E se questa scelta ha l’aspetto positivo di tenerci con il fiato sospeso per la curiosità, è contemporaneamente il modo più intelligente per dire che no, non si può ridurre tutto ad una causa semplice e che dia quasi nobiltà o giustificazione alla loro condizione di vita, perché non è così. Ecco che nuovamente torna l’esattezza “chirurgica” di Simon, quella precisione che con maestria sa andare velocemente al nocciolo della discussione, che sa indirizzare al meglio la nostra attenzione. L’architettura della storia della pornografia ha preso vita in una maniera così naturale eppure così focalizzata che la sensazione è di aver assisitito al perfetto assemblaggio di un puzzle. Il numero di personaggi coinvolti poteva anche scoraggiare, ma come sempre ognuno di loro diventa il portatore di un determinato aspetto dell’universo che si voleva raccontare. Eileen ha finalmente tirato fuori tutto il suo grande talento visuale, iniziando il passaggio da davanti alla camera a dietro, facendoci percepire perfettamente il suo brivido alle parole “direttore artistico”: che Maggie Gyllenhaal sia bravissima è ormai assodato, ma stupisce comunque ogni volta vedere come anche solo la mimica del suo corpo riesca a passare le evoluzioni del suo personaggio e quindi di quel business che sta contribuendo a costruire.
L’altra grande parte della narrazione e dell’architettura citata prima è il nuovo bordello gestito da Bobby (Chris Bauer), protagonista della scena che dà il titolo all’episodio: l’errata citazione del saluto francese che chiude l’ennesima visita da parte di un difensore dell’ordine che viene a chiedere il suo pizzo dà la misura di quanto sia farragginoso questo progetto, un po’ come le pareti di cartongesso della struttura. Al contrario dell’inconsapevolezza di Bobby o Vincent, noi sappiamo bene che questa nuovo rifugio non ha la solidità né del bar di quest’ultimo né del riciclo di denaro nell’azienda di Bobby; e infatti rappresenta semplicemente un palliativo momentaneo agli ordini restrittivi del distretto di polizia, questione che innesca a sua volta l’insofferenza dei protettori che sentono di stare perdendo il loro potere. Ed è qui che vediamo la situazione diventare sempre più complessa, ma non complicata: l’altro enorme aspetto positivo della serie è infatti di esssere riuscita a costruire un’organizzatissima ragnatela di situazioni, tutte incastrate in maniera chiara tra loro, così che tutto abbia non solo senso, ma anche profondità. Ad esempio, lo sparo che chiude l’episodio arriva inaspettato, certo, ma al momento giusto e supportato dalla nostra totale comprensione del movente (se non vogliamo parlare di vera e propria condivisione). Altra questione, vagamente più marginale ma che speriamo abbia sempre più spazio, è la parte omosessuale che arriva qui ad un altro grande momento di svolta e che si inserisce perfettamente nella storia generale, ovvero la prima di Boys in the Sand, il primo film porno gay passato nelle sale cinematografiche e recensito da Variety.
Non potevamo che aspettarci un percorso ascendente da Simon, un mix in crescendo di situazioni ed emozioni che testimoniano ancora una volta come non sia necessario puntare sulla lacrima facile o sul colpo di scena o sulla fascinazione a tutti i costi o empatia con i personaggi per costruire un’ottima serie, perché la verità non ha bisogno di fronzoli, ma di essere elaborata, compresa, sminuzzata; Simon crea la partecipazione dello spettatore puntando all’intelligenza del cervello, e non partendo dalla bocca dello stomaco. Per dirla con le parole di Michelle McLaren (che ha già diretto la premiére e dirigerà anche il prossimo episodio che chiude questa prima stagione): Sometimes there’s a beauty in the ugliness of the truth. To me, when you are authentic and real to what something looks like, it brings a different kind of beauty in the honesty of it.
E questo episodio non ne è che l’ennesimo, perfetto e – a suo personale modo – bellissimo esempio.
Voto: 8½