Big Mouth si era imposta alla prima annata come una delle serie imperdibili dell’anno, una vera e propria novità, che è riuscita ad adattare il format cartoon ad argomenti tipicamente “scomodi” o comunque a cui è difficile rendere giustizia. Avevamo quindi lasciato la prima stagione con il desiderio di vedere il seguito, di capire come Nick Kroll ed Andrew Goldberg sarebbero riusciti a continuare la saga dei loro alter-ego pre-adolescenti. E alla fine di questa seconda stagione possiamo dire che hanno centrato nuovamente il segno.
La sfida più grande era sicuramente non perdere la capacità di focalizzare a tutto tondo i dilemmi della pubertà, ed insieme il coraggio di raccontarli in maniera così onesta da trascendere per forza nella volgarità. Perché uno dei grandi problemi nel parlare di temi come le mestruazioni o l’autoerotismo, ma ancora più banalmente dei primi impulsi sessuali, è l’uso della maschera della metafora, come se queste sensazioni e questi momenti di transizione non fossero forse una delle “livelle” del genere umano, passaggi necessari e fondamentali cui nessuno può scampare. La prima stagione infatti si era concentrata molto sul costruire la propria retorica, nello scioccare lo spettatore con i suoi modi diretti e decisi, trasformando gli impulsi sessuali in personaggi concreti, che non fossero fatine o astrazioni, ma dei veri e propri mostri che agiscono sulla mente del ragazzino e lo spingono ad agire.
La prima ed inevitabile evoluzione degli hormone monster in questa stagione è l‘aperta conflittualità che Andrew, Jessi e Nick sviluppano nei loro confronti, il tentativo di resistere ai propri istinti, come a ribellione della loro condizione. I ragazzini iniziano un processo di consapevolezza e in parte di rifiuto verso i cambiamenti che avvengono troppo in fretta sul loro corpo (Andrew), o che avvengono troppo lentamente (Nick) o quelli che invece il mondo degli adulti riversa su di loro, anche se spesso in buona fede (Jessi). Ed è qui che si inserisce la principale new entry della stagione: lo Shame Wizard, che arriva a personificare il lato oscuro degli istinti pre-adolescenziali e a dare il primo caloroso benvenuto all’adolescenza, il periodo in cui la vergogna per il proprio corpo, pensieri e pulsazioni arriva all’apice massimo. Se prima la vergogna non era qualcosa di pienamente sviluppato, ma una sensazione più vicina all’inibizione, ad una oscura inconsapevolezza, qui prende corpo (più o meno) e diventa uno stregone che da solo riesce a toccare ciascuno di loro nel punto più profondo.
E non a caso un altro prezioso tassello di questa stagione è l’affondo su questioni apertamente femministe come il body shaming. Dopo un primo episodio non tra i più indimenticabili della stagione, che ha avuto giusto il pregio di reintrodurre i personaggi e far finire la storia tra Jay e Jessi, Big Mouth ricomincia a sfornare “genialate” sin dal secondo episodio, “What Is It About Boobs?”, che fa un po’ da seguito all’altro indimenticato momento della prima stagione: girls are horny too. I creatori della serie hanno deciso di sondare non solo uno degli argomenti più caldi e delicati tout court, ma soprattutto di questo periodo storico, provando a dare uno spaccato preciso di cos’è e come si sviluppa lo sguardo maschile, cosa vede e cosa sente, tentando di non esprimere un giudizio di valore, bensì mostrando come sia qualcosa non di innato, ma che viene da sovrastrutture così profondamente radicate da dimenticare persino se c’è un punto di origine. Quando Gina toglie la felpa e si muove in campo davanti agli occhi di tutta la scuola mostrando un seno prosperoso, si potrebbe semplicisticamente dire che “ovviamente tutti gli occhi sono puntati su di lei”.
Ecco che Big Mouth riesce a fare un passo in più: perché quell’ovviamente? Perché il corpo femminile, bello, brutto, più o meno attraente, deve attirare lo sguardo dell’altro? E il vero, grande momento di svolta è quando Gina “mostra” a Nick, ormai in una fase di post friend-zone, cos’ha provato nel sentire su di lei la concentrazione di tutte le persone presenti. Forse questo momento è l’esemplificazione migliore di cosa sia questa serie: l’anti-filtro per eccellenza, grazie al quale per una volta è come se il pubblico non stesse guardando il punto di vista di un’altra persona, un autore, uno sceneggiatore, un regista. In un certo senso è come se Kroll e Goldberg, assieme a Mark Levin e Jennifer Flackett, fossero riusciti davvero a creare un racconto universale, riconoscibile, chiaro e schietto.
Certo, non tutte le storyline hanno funzionato bene, come ad esempio la verginità di Coach Steve Steve, che, per quanto sia un personaggio simpatico e in alcuni contesti una buona spalla per sviluppare certe situazioni, ha avuto fin troppa ed inutile rilevanza, avendo come pregio quello di dare un po’ di risalto alla situazione familiare di Jay ed essere quindi l’aggancio per un episodio come “Guy Town”. In questa stagione, molto più che nella precedente, c’è stata una maggiore attenzione sui genitori, sia nell’episodio appena citato che mette in fila i temi del cameratismo maschile e della conseguente esigenza di esporre le proprie conquiste, per poi ritrovarsi a condividere stanze affittate da Guy Bilzerian (inutile ricordare chi sia il modello a cui il personaggio attinge); sia nell’ancora più esplicito e decisamente interessante “The Planned Parenthood Show”, che mette insieme la contraccezione, l’aborto, il ruolo del consultorio, combinando l’appello alla conoscenza alle storie sul passato dei propri genitori.
Altri importanti argomenti affrontati sono inoltre la droga e la depressione. Entrambi passano per il personaggio forse più bello e complesso tra tutti, ovvero Jessi, martoriata soprattutto dalla sua situazione familiare con i genitori separati, dove il padre è un eterno Peter Pan e la madre una donna insicura che cerca le attenzioni in un’altra donna. E la reazione che ha la ragazzina passa appunto prima per l’uso di stupefacenti, la scorciatoia peggiore per scampare ai problemi che non si riescono a gestire o ad affrontare, e poi per la chiusura e l’adagio nella negazione che quegli stessi problemi esistano, decidendo di ignorarli e di lasciarsi cullare da Depression Kitty. Su di lei si è scelto di investire buttandole addosso le situazioni più pesanti, come anche ad esempio la questione dello sguardo maschile che viene traslato su di lei con la misoginia latente insita nella donna, spinta a competere con le sue “sorelle” per ottenere l’attenzione del maschio alfa, una tematica molto importante e allo stesso tempo spesso sottovalutata. C’è insomma moltissima carne al fuoco in questi dieci episodi di Big Mouth, che si intrecciano e si compongono l’uno sull’altro, l’uno grazie all’altro, provando a restituire la complessità di questo momento della vita, che mentre lo si vive da protagonisti appare lunghissimo, lentissimo, una piaga che sembra non dover mai passare (e forse lo è anche agli occhi di un genitore, chissà); eppure, a guardarsi indietro, sembra non solo lontanissimo, ma durato veramente poco; come se, pur essendo stata una fase così cruciale, non ci fosse stato realmente il tempo per decidere che direzione prendere, chi diventare, avendolo così vissuto per inerzia.
Tutto quello che viene portato a galla trova la sua conclusione negli ultimi due episodi che hanno il pregio di mettere in uno stesso luogo tutti i personaggi, compresi gli hormone monsters e lo Shame Wizard, come a voler ricomporre un enorme puzzle e avere la possibilità di riproporre tutto in un’unica soluzione. E non a caso si conclude su altri fondamentali temi, che speriamo vengano approfonditi ancora di più nella prossima stagione: l’omosessualità e la gender fluidity.
Se esiste un concetto ambiguo e molte volte inutile nel mondo dell’arte e dell’intrattenimento è quello della necessità. Decidere che un’opera, un atto artistico siano necessari equivale tante volte a impoverire quelle stesse cose, trasformandole da espressioni a propaganda o, peggio ancora, semplice pubblicità. Ma Big Mouth riesce a salvaguardare la propria bellezza grazie all’onestà e alla schiettezza dei suoi intenti, imponendosi come un prodotto necessario, che dovrebbe davvero essere dato in pasto alle masse perché riesce a parlare di tutto a tutti e con un sarcasmo mai semplicemente fine a se stesso.
Voto stagione: 8
Nota:
Tutti i personaggi hanno dietro dei bravissimi attori a dar loro voce: qui l’elenco completo delle new entry, su cui svettano la bravissima Gina Rodriguez di Jane The Virgin, che presta la sua voce a Gina Alvarez, e David Thewlis, che ricordiamo tra i tanti ruoli per quello di Fargo, che dà la voce allo Shame Wizard.