Come molte altre serie Netflix (ma non solo) rilasciate nell’ultimo periodo, Russian Doll è uno show che si fa amare facilmente: un qualsiasi spettatore televisivo più o meno vorace non avrà difficoltà ad approcciarsi ad uno schema narrativo già consolidato, a riconoscere qualcuno dei riferimenti metatestuali presenti nello show o una o più delle personalità coinvolte, già viste in serie dalla grandissima portata di pubblico come Orange Is the New Black (Natasha Lyonne, non dimentichiamolo, aveva anche recitato, fra le altre cose, in quel gioiellino camp che è But I’m a Cheerleader), Parks ans Recreation o Wet Hot American Summer (Amy Poehler, che ha recitato praticamente in metà delle migliori comedy andate in onda dagli anni Duemila a oggi).
La sua struttura narrativa è caratterizzata da una libertà potenzialmente infinita, infatti, ed il modo in cui viene impiegata e ripiegata sui suoi personaggi ricorda molto da vicino le più recenti existential comedy come Forever e sicuramente The Good Place, che si divertono a tenere sospesi i propri protagonisti in uno spazio parallelo, post-mortem, dove hanno il tempo e la distanza necessari a riflettere sulle più comuni questioni esistenziali. C’è anche molto Black Mirror in questi episodi, soprattutto in quelli che si avvicinano al finale, perché Russian Doll è anche, a tutti gli effetti, un raffinatissimo sci-fi: dal più recente “Bandersnatch” a “Hang the DJ“, dei quali ricorda il tema videoludico e l’espediente più esplicito del reboot.
Tuttavia, a differenza di altre serie altrettanto ben connotate e interconnesse all’interno del panorama televisivo contemporaneo che rischiano di risultare troppo derivative o prive di personalità propria (impossibile non citare, fra le eccezioni, un altro brillante show, The Magicians, che fa delle reference estreme e deliranti il suo punto di forza), Russian Doll si mostra capace, fin da subito, di una commistione consapevole e calibrata dei generi drammatico, comico e fantascientifico, di un uso magistrale del mezzo televisivo e di una protagonista dalla recitazione e dalla presenza scenica straordinarie.
Natasha Lyonne ottiene finalmente un ruolo degno del suo magnetismo e riesce a dare alla serie il giusto tono muovendosi fra l’energico, il disilluso, l’ilare, l’esuberante, il tenero e l’attraente con una naturalezza sorprendente. Buona parte della potenza dello show risiede anche nella sua protagonista Nadia, personaggio femminile a tutto tondo, mai banalizzato, caricaturato o sessualizzato: una donna matura, intelligente, indipendente che ha costruito, nel tempo, significative relazioni interpersonali e che si porta dietro anche diversi spettri. Per quanto legata al personaggio maschile di Alan, inoltre, la loro non è una relazione romantica e la via d’uscita dal loop in cui si trovano intrappolati (o, il filo d’Arianna per uscire dal labirinto, come suggerisce il titolo dell’ultimo episodio) non si trova nell’atto di rifugiarsi nell’altra persona ma, prima di tutto, nello scavo psicologico nel proprio passato e nell’accettazione delle proprie responsabilità. Russian Doll non è, insomma, una rom-com ed è, in questo caso, un bene perché permette alla serie di portare avanti un percorso introspettivo personale e intimo che non sarebbe stato possibile altrimenti. La sospensione temporale termina non grazie ad un’azione, ad un qualcosa di fatto diversamente da prima, ma in seguito ad un movimento più interiore che fisico, ad una diversa percezione delle cose, ad una più completa conoscenza del proprio passato e della propria persona, ad un rinnovato desiderio di vivere.
L’espediente narrativo del reboot accompagna e struttura la narrazione di questo percorso di formazione in età adulta, cadenzandone le intuizioni ed i passi falsi, fungendo da ponte fra i momenti di tensione e quelli emotivamente e diegeticamente più distesi, declinandosi senza nessuna (apparente) difficoltà ora in toni comici ora in toni drammatici. La particolarità e la bellezza del reboot in Russian Doll è probabilmente proprio questa sua funzione più riflessiva che attiva, questo suo puntare l’attenzione soprattutto sui personaggi (o verso uno specchio riflettente la propria immagine). Così Nadia e Alan si ritrovano, dopo ogni morte, di fronte a se stessi, allo specchio: la soluzione era già presente, in nuce, nel setting in apertura al racconto.
Un altro elemento di freschezza della serie è proprio la sua scelta di gettarsi alle spalle ogni retorica della punizione e della redenzione concepite in senso religioso o morale e di abbracciare un punto di vista più psicanalitico concentrato più sulla riconciliazione fra i diversi sé dell’io (raffigurata dalla sua versione bambina che Nadia vede apparire, ma anche dalle altre versioni di se stessa che incrocia nel finale) e sulla riflessione introno al desiderio di morte e alla sua attrattiva (i nostri protagonisti si definiscono, infatti, come “a broken man and a lady with a death wish.”)
Con il suo formato così leggero e congeniale al bingewatching (otto episodi da venti/trenta minuti che si mangiano tranquillamente in un pomeriggio) e la sua scrittura così raffinata da non trascurare nemmeno uno dei personaggi secondari che restituiscono, con un buon minutaggio e grande personalità, un’affascinante sensazione di profondità, Russian Doll si regala al suo pubblico come un vero e proprio gioiellino incastonato nell’infaticabile piattaforma streaming di Netflix.
Voto: 8½
Sconsiglio il binge-watching. Cioè, il formato è chiaramente quello e infatti è così che ce la siam vista, ma superata la seconda ora la quantità di reboots diventa un po’ sfiancante ed è un peccato, perchè la serie merita davvero. Per il resto sono d’accordissimo con questa (bella) analisi, tranne che uno dei generi di riferimento è il fantastico, non il fantascientifico 🙂