Amazon Prime non si è tirata indietro dall’avventurarsi nel genere fantasy, che il piccolo schermo relegava in secondo piano fino a tempi recenti. La piattaforma ha dato il via alle riprese per gli adattamenti di due colonne letterarie del fantastico: The Wheel of Time di Robert Jordan e uno show sulla Seconda Era di Arda, il mondo forgiato dallo scrittore inglese J.R.R. Tolkien. Nel mezzo fra ciò che è stato e ciò che verrà, si pone l’ultimo prodotto fantasy di Prime video: Carnival Row, supportato da un cast importante e da una cura ragguardevole per l’estetica e gli effetti speciali.
Lo show è stato annunciato nel 2015 e includeva nel suo progetto Guillermo del Toro, oltre a Travis Beacham e Rene Echeverria, gli attuali showrunner. Purtroppo, prima dell’inizio delle riprese, del Toro dovette tirarsi indietro perché già al lavoro ai propri progetti cinematografici, ma il suo tocco è rimasto nel worldbuilding. Carnival Row ci presenta un modo fatato e misterioso in egual misura, ma al contempo oberato dai non pochi problemi che si palesano nell’evolversi della storia, probabilmente allontanatasi dalla visione di del Toro.
La trama di Carnival Row parte da premesse molto interessanti, che riecheggiano in lavori fantasy e urban fantasy passati. Dopo aver perso la guerra, la Repubblica di Burgue ha abbandonato all’egemonia del Patto la terra fatata di Tirnanoc (un chiaro riferimento alla Tír na nÓg della mitologia celtica). The Pact annette la terra dei seelie, il popolo fatato, e questi divengono oggetto di repressione e deportazioni, causando un esodo di rifugiati verso Burgue, la capitale della Repubblica. Questa situazione di crisi affila tensioni fra umani e seelie, nonché fra i vari partiti politici, a favore o contrari all’integrazione di fae e faun. Un affresco con non pochi spunti presi dal nostro mondo, sebbene attraverso la lente del genere fantastico.
L’amalgama fra il fantasy e un periodo storico diverso dal medioevo è una commistione già calcata, anche nel mondo dello streaming on demand; American Gods ne è un esempio, oppure Bright, pellicola dalla genesi sfortunata. Non per questo Carnival Row sfigura, anzi. Il worldbuilding è il suo punto di forza. Gli effetti speciali e l’attingere a piene mani dagli aspetti folkloristici delle creature ritratte dona anche alle comparse caratteristiche iconiche, mostrando l’eredità mitica dei seelie, declinata nella decadenza della cruda realtà del Carnival Row (la malfamata via che dà il nome allo show).
La magia dei fae è degna di nota: ritualistica e ispirata agli antichi auspici, che assumono un certo peso durante l’evolversi degli eventi. Altrettanto interessante è il presentarsi dell’altra razza fantastica, ugualmente importante per la storia: i faun. Il loro nome è un chiaro riferimento alla creatura mitologica, che mostra un altro lato della natura, quello più selvaggio e indomito, il rovescio della medaglia dove i sentimenti più primordiali sono anche i più violenti, come mostrato negli ultimi episodi dal culto dell’Hidden One.
Notevole è anche l’attenzione alla società della città di Burgue; le varie religioni del mondo di Carnival Row si susseguono sullo sfondo, soprattutto quella del Martyr per gli umani e del già citato Hidden One per i faun; i nomi dei giorni della settimana sono inventati e il gusto per il fantastico si riflette nei toponimi, a volte un po’ ingenui, ma in grado di strappare più di un sorriso agli appassionati del genere. Nell’episodio “Kingdoms of the Moon” c’è molta attenzione nel presentare Tirnanoc: una sorpresa piacevole che favorisce l’immersione dello spettatore in un nuovo mondo fantastico. Nello stesso modo Carnival Row mostra qualche passo avanti nel trattare un tema delicato come il razzismo, rispetto a prodotti come Bright, perché riconosce che sia un problema sistemico e non individuale. In Carnival Row, il razzismo non è un difetto di questo o quel personaggio, ma una qualità negativa che accomuna gli umani nel loro modo di pensare, a causa di determinate convinzioni condivise, e che ha un reale effetto su ciò che li circonda; siamo lontani da una profonda critica sociale, ma è un elemento da tenere in conto.
Purtroppo, il worldbuilding non può reggere un’intera struttura narrativa e guardare Carnival Row potrebbe essere un’esperienza simile a contemplare un quadro con una cornice bellissima a racchiudere un dipinto scialbo.
La storia è raccontata con la coralità propria di un racconto moderno, ma a vedere più da vicino vi è un problema che svetta su tutti: sembra che né Beacham, né Echevveria si siano accorti che anche il genere fantasy è cambiato. Un worldbuilding che poteva dare tanto viene sacrificato per una storia che inizia con le migliori premesse, ma si declina in un finale senza pathos, in una risoluzione estremamente blanda che si risolve in una pugnalata alle spalle di un villain generico e sin troppo ordinario. Gli ultimi episodi sono incapaci di coinvolgere lo spettatore a causa della loro esasperata prevedibilità; raccontare cose già viste non è un male, ma la dissonanza con un mondo così curato si fa sentire. Il titolo del primo episodio, la presentazione del Darkasher come un mostro di Frankenstein nato dalla magia, le suggestioni lovecraftiane e i rimandi a Jack the Ripper sono indecoroso fumo negli occhi dello spettatore. Gli elementi propri del genere fantastico si intrecciano a suggestioni vittoriane (le ciminiere londinesi, i romanzi d’avventura, l’idea di scoperta del nuovo mondo), ma non bastano. La profezia è un topos arduo da usare, meritevole di ben più attenzione per non presentarsi come banale; essa conduce ad una risoluzione che dimentica gli sforzi di mitopoiesi per concentrarsi su di un dramma familiare risolto nell’arco di un episodio e che spreca tutto il lavoro compiuto nei primi quattro. C’è da sperare che la seconda stagione, già annunciata da Amazon, sfrutti tutto ciò che la prima ha creato e messo da parte.
I personaggi sono un altro problema della storia: vivono in un limbo fra spunti interessanti, sempre nati dalla costruzione del mondo in cui si muovono, e degli stereotipi che, per quanto legittimi in una storia, diventano un peso. Il lato attoriale non delude, ovviamente, alla prima prova da protagonisti nel piccolo schermo per Orlando Bloom e Cara Delevingne, ma neanche sfigura il cast di contorno, fra cui spiccano i nomi di Simon McBurney (Utopia), Tamzin Merchant (Salem, Supergirl), Jared Harris (Chernobyl, The Crown) e Indira Varma (Game of Thrones).
Rycroft Philostrate è un mezzosangue, oggetto di una profezia di cui è ignaro e un ex-militare, ora investigatore impegnato in un caso scottante; ognuno di questi tratti suona di certo già sentito. Combinati avrebbero potuto fare la differenza per renderlo memorabile, ma anche qui ci si scontra con una delle grandi limitazioni di Carnival Row: buone idee affrontate con superficialità e accantonate quando avrebbero potuto far osare di più alla sua storia.
Vignette Stonemoss è un altro personaggio che avrebbe potuto dare molto di più e non ricadere nello stilema della ragazza-fata. Non è delineata da una sua qualità, oltre al suo essere una fae, ma essendo il suo arco narrativo incentrato su Philo e non su una crescita che le appartenga, anche lei diventa dimenticabile, nonostante la sua avventura con i Black Raven. Un vero peccato, perché gli spunti, anche in questo caso, sono lampanti: il senso di colpa per aver quasi ucciso un suo simile sparisce fra una puntata e l’altra e la bella idea di lei come custode del sapere del suo popolo si rivela solo un pretesto perché lei e Rycroft si incontrino e rincontrino in galera. In “Unaccompanied Fae” il ritrovamento da parte di Vignette della libreria dei fae, ora bugigattolo di una Wunderkammer, è davvero una scena forte emozionalmente, che meritava più attenzione.
Carnival Row, ad onor del vero, possiede molte scene in grado di rimanere impresse: un esempio è il culmine del rapporto tra Imogen e Agreus alla luce di una lampadina, simbolo di una modernità che ‘benedice’ il rapporto tra un’umana e un faun. Imogen e Agreus vivono una delle poche sottotrame interessanti, seppur estremamente convenzionale: l’amore proibito che lega la giovane umana e l’anfitrione seelie, divisi dalla razza e non dall’estrazione sociale. È divertente seguire questo rapporto svilupparsi e rimane la curiosità riguardo il loro destino, una volta salpati da Burgue; inoltre, il loro racconto dona l’occasione alla prossima stagione di mostrare allo spettatore la misteriosa terra di Ignota.
Purtroppo, lo stesso non si può dire per gli intrighi politici, che avrebbero dovuto sorreggere l’impianto narrativo dello show. In particolare, la vicenda della famiglia Breakspear. Il giovane Johan è tenuto in catene finché la serie non ha di nuovo bisogno di lui, e il suo rapporto con Sophie Longerbane, sorella illegittima e alleata politica, è ancora fumoso in vista della seconda stagione. La stessa Sophie, purché motore degli eventi di Carnival Row, ha mostrato ben poco oltre un buon monologo e qualche proclama sul caos, sebbene si possa ipotizzare un ruolo di rilievo nei prossimi episodi. Altrettanto, Absalom Breakspear è un personaggio arduo da inquadrare, per le sue incoerenze sin troppo oltre le righe; la grande rivelazione sulla paternità di Philostrate suggerisce che il suo interesse per l’integrazione dei seelie nasca da ragioni puramente individuali, nate dal senso di colpa, e non da un accorato pensiero politico, alimentando la dissonanza fra l’ambientazione e la sua trama di cui si accennava in precedenza.
Infine, le leggerezze sui personaggi costano anche alla storia: la madre, Piety, inanella un errore dopo l’altro, lasciando le prove della sua colpevolezza sulla scena del delitto, lasciando un bisturi a portata di mano di Vignette, lasciandosi ingannare da una semplice lettera. Purtroppo, dopo Ellaria Sand di Game of Thrones, la pur bravissima Indira Varma sembra perseguitata da ruoli di villain dai piani articolati e dall’acume quantomeno discutibile.
Una menzione di riguardo, perlomeno, va fatta all’unico personaggio davvero positivo in Carnival Row: Tourmaline, interpretata da Karla Crome (Misfits, Under the Dome). Tourmaline passa l’intera stagione ad aiutare il prossimo e alla fine ottiene ben poco, ma ciò non la frena dall’essere sempre altruista, anche di fronte ad una storia che alle volte usa la sua bontà come spalla comica.
Carnival Row non è ancora un’occasione mancata – è solo la prima stagione – ma delude su più di un fronte. Show come The Dark Crystal: Age of Resistance e lavori nell’animazione come The Dragon Prince hanno alzato l’asticella come rappresentanti del fantasy nella serialità e, con The Witcher e His Dark Materials all’orizzonte, Amazon Prime dovrà impegnarsi di più, specie con nomi così importanti come J.R.R. Tolkien e Robert Jordan tra le mani.
Voto: 6