The Rings of Power, la serie ambientata nell’universo creato da J.R.R. Tolkien è chiaramente una delle più chiacchierate – e viste se diamo per veritieri i dati forniti da Amazon Prime Video – di questo autunno televisivo: insieme ad House of the Dragon ha creato un importante evento seriale da seguire per tutti gli amanti del fantasy e dei due universi narrativi di riferimento, con la promessa di fornire agli spettatori due show con un altissimo budget e con grandi ambizioni sotto tutti i punti di vista.
È già stato fatto notare più volte che paragonare le due serie citate non ha molto senso: nonostante il macro-genere fantasy sia lo stesso, infatti, a separarle vi sono differenze enormi, a partire dallo stile visivo, da quello che raccontano e soprattutto da come lo raccontano. Anche il pubblico di riferimento non è lo stesso – anche se chiaramente ogni appassionato di serie tv le starà seguendo entrambe – poiché il mondo di The Lord of the Rings, dai romanzi ai film, è sempre stato diretto a raccontare storie appassionanti per diverse generazioni, dai ragazzi agli adulti, nelle quali chiunque poteva trovare qualcosa di interessante; l’universo Game of Thrones sviluppa invece la sua narrazione su basi molto più realistiche e che, dunque, sono rivolte dichiaratamente ed esclusivamente a spettatori maggiorenni. Insomma, The Rings of Power gioca in un campionato diverso da House of the Dragon e deve essere per forza valutato con parametri diversi e più che altro in base a come sta sviluppando il potenziale narrativo della pesante intellectual property di cui porta il nome; a tal fine il quinto e il sesto episodio non potrebbero essere più emblematici per questa valutazione perché mostrano chiaramente le grandi possibilità – visive e narrative – dello show ma anche i suoi grossi limiti.
Arrivati al giro di boa, infatti, è ancora ambigua la strada che vogliono prendere gli showrunner J.D. Payne e Patrick McKay per la serie: le diverse storyline cominciano sì a intrecciarsi – il sesto episodio ne unisce due nel finale – ma manca ancora una direzione di lungo corso chiara e definita che lasci intendere quale sia il punto di arrivo di The Rings of Power. Tutti gli indizi lasciano pensare che il ritorno di Sauron e la forgiatura degli anelli – e quindi anche dell’Unico Anello – siano questo punto di arrivo, teoria avallata dall’introduzione e dalla centralità di personaggi come Celebrimbor (Charles Edwards), Isildur (Maxim Baldry), ed Elrond (Robert Aramayo): questi ultimi due sono i protagonisti della vicenda che abbiamo visto raccontata molto brevemente nel preambolo di The Fellowship of the Ring, anche se qui ci si immagina verrà esplorata più a fondo e con una struttura narrativa diversa dal mero resoconto dei fatti del film.
Se il titolo stesso della serie, dunque, fa pensare che gli autori abbiano strutturato la narrazione per collegarsi direttamente agli eventi della terza era raccontati al cinema nella trilogia di Jackson, a rendere meno scontato questo esito ci pensa la scrittura della serie: la sceneggiatura di The Rings of Power è infatti altamente confusionaria su questo punto e, a causa di una gestione non eccelsa dei suoi personaggi e delle linee narrative sulle quali ha scelto di puntare, rischia di risultare respingente per chi non mastica il materiale originale.
Per esempio, tutta la storyline di Elrond e Durin – al momento la più debole dell’intero show – è palesemente una parte del racconto tanto necessaria quanto inserita forzatamente in mezzo alle altre: a parte la superficiale esplorazione del rapporto che lega i personaggi che ha i suoi lati interessanti dal punto di vista della politica della Terra di Mezzo e della diversità di vedute della nuova generazione di regnanti rispetto alla vecchia, tutto il resto si traduce in una serie di dialoghi prevedibili alternati a momenti molto lunghi di spiegazioni, l’ultimo dei quali proprio in “Partings”. È chiaro che uno show così stratificato e che affonda le sue radici in una mitologia così variegata e complessa come The Rings of Power non può prescindere dal fornire informazioni agli spettatori, ma ci sono tanti modi diversi per ottenere un risultato e quello scelto dalla serie di Amazon Prime Video non è certo dei migliori: arrivati al quinto episodio l’animazione sulla spiegazione di Gil-Galad (Benjamin Walker) sull’importanza del mithril per il popolo elfico interrompe bruscamente la narrazione, oltre a non essere di certo tra le migliori sequenze di questo tipo che si siano viste. Dal momento che la storia è entrata nel vivo, aggiungere un’ulteriore componente del racconto e spacciarla per una parte fondamentale appare quantomeno forzato. L’impressione che si ha è che queste informazioni sarebbero dovute arrivare prima allo spettatore affinché potessero essere assimilate e collegate all’importanza del percorso di Elrond e di tutto il suo arco narrativo.
Un’altra trama che ha ancora un enorme potenziale inespresso è quella degli Harfoot e del misterioso personaggio che li accompagna: è piuttosto chiaro che lo show si prepari a rivelare solo al momento giusto l’identità del personaggio interpretato da Daniel Weyman e ci immaginiamo che sarà importante sia a livello narrativo per la serie che per il suo collegamento alla mitologia di The Lord of the Rings. Questo segmento narrativo attraversa una fase di transizione in “Partings” regalando una bella sequenza di viaggio sulle note della già amatissima “This Wandering Day” cantata da Poppy (Megan Richards) e composta da Bear McCreary, il già ottimo musicista dietro serie come Outlander e Battlestar Galactica. Purtroppo non c’è molto altro sugli Harfoot nell’episodio e la narrazione si prende addirittura una pausa nel successivo per lasciare spazio alla grande battaglia di “Udûn” – dal promo del settimo episodio però si capisce che gli Harfoot torneranno centrali e vedremo sviluppi più consistenti del loro percorso in seguito.
La linea narrativa che finora ha avuto più peso, minutaggio e attenzione da parte degli autori è sicuramente quella di Numenor e dell’invasione in atto nelle Southlands; non per niente è quella designata per fare da contorno al primo grande episodio di battaglia che vediamo nello show, quasi un battesimo del fuoco per una produzione fantasy di questo calibro e con questi mezzi – un po’ come era stato per “Blackwater” in Game of Thrones. Il risultato è tutto sommato positivo: la regia di Charlotte Brändström – che segue quella di Wayne Che Yip dei tre episodi precedenti – è molto più dinamica e riesce a rendere avvincente le varie fasi dello scontro, dal piano messo in atto a Ostirith per guadagnare tempo alla preparazione della difesa del villaggio, dalle scene più drammatiche a quelle di inseguimento. Ce n’è davvero per tutti i gusti in “Udûn” che si fregia di una scrittura calibrata in grado di offrire varietà ed epicità ad uno show che fino a questo momento ha vissuto una lunghissima fase di preparazione, camminando in punta di piedi nel mondo creato da Tolkien per evitare di andare incontro a critiche ancora più feroci rispetto a quelle che gli sono già piovute addosso da prima ancora che venisse rilasciato il pilot.
Una delle cose che salta più all’occhio nell’episodio – e che dà l’idea di quanto gli autori ci tengano a far sapere di non aver paura di spingersi un po’ più in là di quanto ci si aspetterebbe a livello visivo – è la grande quantità di scene splatter che popolano la battaglia, tra le quali spicca quella tra Arondir (Ismael Cruz Córdova) e l’orco che sta per ucciderlo infilandogli in un occhio il pugnale che si è appena tolto dal suo. Si diceva prima quanto la differenza di stile e pubblico sia una discriminante che diamo per assodata tra The Rings of Power e show meno avvezzi ad edulcorare o nascondere scene di violenza molto esplicita, e di certo non si arriva mai ai livelli per esempio di House of the Dragon o Game of Thrones; tuttavia l’episodio invia segnali chiari rispetto ad una voglia di non adagiarsi sulle aspettative del pubblico e di voler provare a tirare fuori qualche sorpresa dal cilindro.
Ovviamente non tutte le parti di “Udûn” sono perfettamente riuscite e la puntata risente certamente del lunghissimo minutaggio – settanta minuti di battaglia sono veramente tanti, anche con tutti gli stratagemmi narrativi e capovolgimenti di fronte studiati per mantenere alta l’attenzione. Per fare degli esempi parliamo del fatto che bisogna sicuramente sospendere l’incredulità di fronte all’arrivo tempestivo dell’esercito di Numenor guidato da Galadriel (Morfydd Clark) o soprassedere alla plot armor che avvolge il personaggio di Bronwyn (Nazanin Boniad); tutti questi cliché non fanno che ricordarci di stare assistendo ad un prodotto che può osare ma solo fino a un certo punto e che alla base dei racconti originali e della storia della Terra di Mezzo c’è una grande lotta del bene contro il male. Anche la parte finale dell’episodio, con la presunta vittoria degli uomini e la cattura di Adar, spezza un po’ il ritmo concitato dell’episodio e appare come una parte di racconto che poteva essere in parte tagliata o quantomeno gestita in modo diverso; bisogna però dire che il cliffhanger che chiude l’episodio è visivamente molto potente e affascinante.
Con l’eruzione del Monte Fato – o Orodruin – si compie il piano orchestrato da Adar (Joseph Mawle), e cioè l’obiettivo di creare un luogo dove i suoi “figli” – gli Uruk – possano vivere al riparo dalla luce del sole: con questo twist narrativo The Rings of Power fa il suo primo e più importante collegamento con la trilogia di Tolkien, creando un “mito delle origini” per uno dei luoghi più iconici non solo del genere fantasy ma della cinematografia di inizio millennio. La nascita di Mordor assume così per la serie un punto di svolta che spiana la strada al ritorno di Sauron, che sin dal pilot è stato additato come il villain principale dello show: torniamo allora a chiederci se è questa la strada narrativa che gli autori stanno percorrendo, ovvero una rappresentazione progressiva del ritorno del “male” – inteso come il Signore Oscuro – nella Terra di Mezzo.
Dal punto di vista estetico e simbolico assistiamo alla creazione di Mordor attraverso una modificazione geologica del territorio che assume anche un valore rispetto al tema dell’ecologia – come confermato dagli autori che hanno ammesso di volerlo riprendere in quanto molto caro allo stesso Tolkien. L’acqua scorre per le gallerie scavate dagli orchi – la cui funzione assume ora un senso – e entrando in contatto con il magma sotterraneo causa la terribile eruzione – gli autori si sono affidati ad alcuni esperti geologi per rendere il tutto quantomeno verosimile. Questo avviene mentre gli Uruk inneggiano a “Udûn” che in elfico significa “inferno” e fa riferimento alla prima fortezza di Morgoth, il mentore di Sauron, citata nel Silmarillion, oltre che richiamare la frase che Gandalf pronuncia nella sua battaglia contro il Balrog nelle miniere di Moria, nella quale si riferisce a lui come “fiamma di Udûn”.
Giunti a due episodi dal finale di questa prima stagione, The Rings of Power comincia a delineare la sua immagine nel panorama televisivo contemporaneo: nonostante molti giungano a conclusioni affrettate e basate più su pregiudizi piuttosto che fatti – ricordiamoci che la serie di Payne e McKay ha cominciato ad attirarsi critiche paradossali sin dagli annunci di casting, tanto per ricordare quanto il fandom di The Lord of the Rings sia uno dei più tossici e con chiare infiltrazioni da parte dell’ideologia di estrema destra – si può dire che, al netto di tutti i pregi e i difetti che si possono trovare, la serie è un buon prodotto, in grado di maneggiare con sapienza – e a volte anche furbizia – il complesso materiale da cui trae ispirazione. Se dal punto di vista visivo, estetico e stilistico non c’è molto da rimproverare allo show, dove deve assolutamente migliorare è sul versante narrativo e sulla scrittura dei personaggi – alcuni davvero piattissimi – oltre che sullo smettere di cercare forzatamente la pomposità e l’epicità ad ogni inquadratura – la scelta dei ralenti è incomprensibile e di poco gusto. The Rings of Power, in definitiva, è una serie godibile e una chicca per gli appassionati di Tolkien, capace di mettere in scena allo stesso tempo episodi molto poco riusciti e altri molto ben realizzati – Udûn è di gran lunga il migliore finora: se saprà trovare il suo equilibrio potrà darci ancora tantissime soddisfazioni, anche perché è difficile pensare che Prime Video non porti avanti il progetto per molte stagioni a venire.
Voto 1×05: 5 ½
Voto 1×06: 7 ½
Continuo a trovarlo tecnicamente meraviglioso, con costumi, musica e CGI praticamente perfetti. Peccato per certe sciocchezzuole distribuite qua e là, come ad esempio le tre caravelle che trasportano quell’esercito di centinaia di cavalli e uomini di Numeron o quell’ascia al posto di una chiave verosimilmente di peso, influenza e forma diversi.
ultima puntata, penosa.
altro che sospensione dell’incredulità… la cavalcata dell’esercito di Numenor in tutta fretta per arrivare non si sa perchè in un apparentemente anonimo villaggio (popolato però da centinaia di umani, i quali peraltro si ostinano a difenderlo, invece che fuggire e carcare aiuto) proprio nel momento clou della battaglia è a dir poco imbarazzante. Aggiungiamoci scene telefonate (l’arrivo del figlio, Isildur, a salvare il padre Elendil, avvistato in difficoltà, quando ancora non lo era, da chilometri di distanza), dialoghi semplicemente venuti male e male interpretati (dal confronto fra Galadriel e Adar, si crea il risultato comico involontario che lo spettatore finisce per “tifare” per il capo orco, probabilmente l’unico personaggio finora con un minino di spessore, tanto è insopportabile l’eroina elfa) (Galadriel e Halbrand che non si capisce che problemi hanno), per poter dire di essere dinanzi a uno delle più evidenti fratture fra soldi spesi per la grafica (perchè in termini di spettacolo visivo nulla da dire) e consistenza (ridicola) della sceneggiatura e nella costruzione dei personaggi.
Recensione che sintetizza bene, anche se in maniera troppo(ma proprio troppo. Ti prego, spiegami il 7emezzo) gentile, i pro ed i contro di questa serie. Vorrei lanciarmi in un’analisi approfondita delle cag… pazzesche che ho visto, ma il commento di Macno, giusto sopra il mio, ha spiegato bene ed energicamente il mio stesso punto di vista.
Posso solo ribadire il concetto che sta diventando mortalmente noioso e a tratti ridicolo, cioè, io ho una piccola fortezza che mi protegge, non sarà gran cosa, ma due pietre ci stanno. Quindi noi che facciamo? Lo abbandoniamo per un villaggio senza nemmeno un recinto per le pecore, in campo aperto, con casette in legno marcio (dove facciamo rifugiare i più deboli senza una via di fuga. Generale Custer spostati) e li aspettiamo. Ok sospensione dell’incredulità, ma qui ci si chiede di spegnere il cervello. Ah già, però hanno costruito un carretto di legno incendiario. Ok, tutto risolto.
Va bene allungare il brodo, se no non si chiamerebbe serie tv, va bene che ci siano 1000 dialoghi lunghi ed estenuanti, Tolkien scrive un botto di cose che sintetizzare è fatica erculea, va bene tutto, ma il ridicolo, accostato a The Lord of the Ring, è oltraggioso.
Neanche approfondisco il resto della battaglia, tutto è stato già detto, né mi soffermo troppo sull’episodio 5 (ammeto di detestare i piedi pelosi, o come si chiamano, e gli attori cani che li interpretano)che sono riuscito a vedere in 3 step.
Speriamo migliori, se no, speriamo non ne facciano 7 stagioni. Si sa, le prime sono sempre le migliori, di questo passo, non oso immaginare cosa possa essere una stagione 4 per esempio. Sono deluso. Molto.