“Sotto il suo occhio”: è sufficiente questo mantra per risvegliare gli appassionati di The Handmaid’s Tale che, dopo un’attesa di quasi tre anni, possono finalmente tornare nell’universo ideato da Bruce Miller e basato sull’omonimo romanzo di Margaret Atwood. Siamo giunti ormai alla sesta e ultima stagione e sarà per l’attesa, sarà per la qualità a cui lo show ci ha abituati, ma le aspettative sono altissime.
Le prime tre puntate impostano una premessa, la preparazione all’atto finale di una lotta che vedrà – nel bene o nel male – la conclusione di un racconto che negli anni ci ha procurato dolore e un diffuso senso di impotenza con una storia distopica e amara, ma anche terribilmente possibile e credibile nel nostro tempo.
L’ultimo capitolo di The Handmaid’s Tale riparte da dove ci eravamo lasciati, con June (Elisabeth Moss) e Serena Joy (Yvonne Strahovski) casualmente ricongiunte, in fuga da un Canada sempre più pericoloso per entrambe. Due donne, due madri, co-protagoniste di questi primi tre episodi – disponibili in Italia in esclusiva TimVision -, che si concentrano proprio sul dualismo che rappresentano. Simboli di schieramenti opposti, le vediamo confrontarsi in un’alternanza di sentimenti contrastanti. Si aiutano e poi lottano, si proteggono nonostante il risentimento che nutrono l’una verso l’altra, sono solidali, a volte alleate per necessità ma – come ricorda più volte June – non sono amiche. I loro punti di vista restano infatti in netto contrasto e andranno inevitabilmente a scontrarsi fino alla chiusura della serie. Da una parte, June, che abbiamo conosciuto in tutte le sue sfaccettature nel corso delle precedenti stagioni, incarna la lotta per la libertà e per l’autodeterminazione. È una donna che nonostante tutto sogna ancora di smettere di scappare e combatte in modo instancabile per poter riabbracciare la figlia Hannah, motore della sua resilienza colma di rabbia. Dall’altra parte Serena Joy, che è sempre un’incognita: forte, con risorse inaspettate, imprevedibile in tutto ciò che fa. Vuole libertà per sé e per il suo bambino, poi strumentalizza la sua posizione e si trova a rappresentare l’ideale di Gilead in prima persona.
La vedova Waterford finisce per diventare simbolo di un mondo artificiale e perfetto per alcuni a scapito di altri, del regime guidato da Dio e da un’armonia che è solo fittizia. In questa stagione come mai prima assistiamo alla presa di potere delle due protagoniste: l’una in grado di muovere accordi segreti tra Gilead e il mondo libero, l’altra scelta come rappresentante del progetto “Nuova Betlemme”, ossia un’edulcorata versione del regime. Così rientriamo in contatto con l’estetica e la simbologia che conosciamo: i colori e i ruoli, i rituali, l’apparenza perfetta, l’ordine. Se tutto è facciata a Gilead, è quello che accade dietro le quinte ad essere davvero interessante. Continuiamo quindi ad assistere a giochi di potere e complotti, in un intreccio di May Day, Occhi, Comandanti, ex Ancelle agguerrite e Zie pentite. Negli edifici segreti, nei boschi, nei palazzi abbandonati sorge la vera natura di un mondo creato da fanatici, che sempre più incontra la reazione di chi vorrebbe solo tornare alla propria vita.
Il perenne scontro dei due schieramenti è concretizzato infatti da una serie di altri personaggi, che ormai conosciamo bene. Nick Blaine, il Comandante Lawrence, Mark Tuello, senza dimenticare Moira, Luke, Janine e Zia Lydia. Proprio loro diventano sempre più parte della vicenda corale che si crea in questa stagione in cui il punto di vista esclusivo di June lascia spazio anche agli altri personaggi, da sempre presenti ma mai centrali come ora. Così Luke e Moira avranno un ruolo fondamentale nella rivoluzione, e lo stesso potrebbe valere per Janine e per tutti coloro che sono pronti a combattere alla ricerca di giustizia e di vendetta. Probabilmente assisteremo a scene crude e disumane, mosse da quella rabbia profonda che solo la privazione della propria libertà può generare. Altri dovranno fare i conti con gli orrori causati dal mondo che hanno creato, e per qualcuno scegliere da che parte stare sarà più difficile che mai. Pensiamo in particolare a Nick (Max Minghella), combattuto tra i sentimenti per June e il potere che Gilead gli ha dato, con la consapevolezza che comunque vada avrà molto da sacrificare. La protagonista dal canto suo ha sempre più il ruolo di eroina solitaria, e nemmeno Luke o la ritrovata madre Holly riusciranno a fermarla: la liberazione di Hannah è l’unico obiettivo.
Il dolore per le persone care strappate e le violenze subite, così come il risentimento e i ricordi amari si accostano alla ricerca di ripristino dell’equilibrio che spronano June e che, allo stesso tempo, le impediscono di abbandonare il suo atteggiamento distaccato e disperato persino nei confronti di Luke (O-T Fagbenle). Una dinamica simile è quella nei confronti di Nick, con cui il rapporto -nato per necessità – si è sviluppato in modo instabile. Insomma, la carne al fuoco è parecchia, e le aspettative sono altissime: The Handmaid’s Tale sin dal suo debutto è stata la serie distopica per eccellenza di questi ultimi anni, il cui spessore si è concretizzato non solo attorno alla questione femminile e al ruolo delle donne in società, ma anche attraverso altre tematiche. Infatti, a partire dalla quinta stagione, è venuto a galla il tema – molto attuale – dei migranti in fuga da Gilead e che il Canada rifiuta, stanco di cedere risorse e spazio.
A ciò si collega inoltre la tematica politica, anch’essa drammaticamente attuale considerate le minacce ai diritti civili a cui assistiamo quotidianamente. Nello show si alternano democrazie labili a regimi totalizzanti, con politici che professano l’oppressione, stringendo accordi in nome del cieco potere e organizzando incontri diplomatici per legittimare il loro fanatismo. Così avviene per la visita a Nuova Betlemme, una finzione ridicola per ingannare gli altri governi e nascondere la realtà. Il senso di impotenza e la tensione restano i due cardini principali della serie, e questo grazie alla regia raffinata e ricca di dettagli, con inquadrature capaci di esaltare ogni singolo passaggio della narrazione, e alla fotografia studiata in modo impeccabile che si accompagna al ritmo lento – anch’esso un carattere fondamentale dello show -, elementi che ci fanno percepire il mondo di The Handmaid’s Tale come se ne facessimo parte.
A questo si accosta l’interpretazione sempre incredibile di tutto il cast: non solo la bravissima Elisabeth Moss – intensa e convincente in ogni scena, capace di rappresentare fino in fondo l’angoscia di June – ma anche tutti gli altri attori. Non sono solo i dialoghi a restituire la potenza delle interpretazioni, ma soprattutto gli sguardi e i silenzi ci fanno percepire il peso di questa storia così intensa, ancora una volta. Nel complesso questi primi tre episodi della serie sono un ottimo inizio per l’atto finale: il mix di colpi di scena e suspense, l’alternanza tra azione e pause ci fa percepire una costante sensazione di pericolo e di sopraffazione, ma anche voglia di unirsi alla resistenza. L’alta qualità della scrittura, unita alle già citate regia e interpretazioni, ci restituiscono un prodotto che si conferma impareggiabile per capacità espressive, che non necessita di dialoghi infiniti o di scene dinamiche per tenere alta l’attenzione o per portare alla luce temi e storie di rilievo. Così si passa dalla violenza alla tenerezza, attraverso una narrazione potente che stimola riflessioni profonde, non solo personali ma soprattutto sulla società che ci circonda.
Non ci resta quindi che goderci le ultime puntate – che usciranno al ritmo di una a settimana – fino al gran finale di questa serie, per scoprire se sarà June a tirare le fila della storia o se la resistenza richiederà un prezzo alto oltre ogni previsione pur di rimettere le cose a posto, traendo in salvo Hannah e tutte le vite strappate alla libertà.
Voto 6×01: 8 ½
Voto 6×02: 7
Voto 6×03: 8 ½
Mi spiace ma proprio non condivido questo entusiasmo. Anzi… Dopo una premessa interessante che sembrava delineare una nuova cornice per la storia, ecco che tutto ritorna subito al punto di partenza. Ognuno con il suo ruolo stereotipato. Che bisogno c’era di far finire in Alaska le protagoniste per poi far tornare tutto al punto di partenza dopo due episodi? Fuga ed (eterno) ritorno inevitabile a Gilead. Le figure di contorno, Luke, Nick, il comandante, tutte congelate nella ripetizione stantia delle loro contraddizioni. E Gilead che per qualche ragione misteriosa ha perso la connotazione retro e a-tecnologica che la caratterizzava nelle prime stagioni… Staremo a vedere, ma come molte altre serie insegnano il traguardo delle 6 stagioni è spesso foriero di modesti risultati.