Si è parlato moltissimo (anche su queste “pagine”) di un cambio di rotta – che forse sarebbe meglio definire un’evoluzione – a livello di modelli produttivo-creativi nel contesto della serialità televisiva, un percorso che dai grandi drama della New Golden Age post-Sopranos ha portato al diversificatissimo palinsesto della Peak TV.
Matt Zoller Seitz, ad esempio, aveva sottolineato già l’anno scorso la decadenza dell’hour-long, serialized drama – ovvero il simbolo della New Golden Age – in favore dell’emergere sempre più deciso della comedy (in theory) e della serie antologica quali nuovi modelli di riferimento per la critica televisiva. Ma non bisogna fare l’errore di credere che questa “rivoluzione” consista meramente nell’affermarsi di nuovi (spesso ibridi) formati e/o generi: ancora più interessante è forse la questione dell’allargamento dei soggetti, sia quelli scriventi – e dunque nuovi autori, nuove esperienze e nuove “visioni” – sia quelli raccontati da una tv che è sempre più curiosa, inclusiva e consapevole. Da questo punto di vista, un ruolo significativo nel “cambio di paradigma” che ha interessato il passaggio da Golden Age a Peak Tv lo ha giocato – e continua a giocarlo – da un lato la (rinnovata) rappresentazione e dall’altro il coinvolgimento creativo delle donne nella produzione seriale contemporanea. Proviamo, quindi, ad analizzare questo percorso, parlando di archetipi, ma anche “sguardi” e dunque serie femminili e/o femministe.
Female antihero – primi passi
Se il prestige drama è il prodotto simbolo della New Golden Age, l’antieroe è senza dubbio il suo feticcio. Maschio, bianco, di mezza età: da Tony Soprano a Don Draper, da Walter White a Dexter Morgan, chi potrebbe negare la pervasività di questo pattern? L’abbiamo visto in tutte le salse, dall’ambientazione rurale di Justified a quella gangster di Boardwalk Empire, e con il tempo siamo stati testimoni della sua graduale trasformazione/rielaborazione (pensiamo a prodotti tutto sommato recenti come Mr. Robot, ancora fortemente debitore del concept di base ma allo stesso tempo più sperimentale).
E le donne? Complice la necessità di diversificare l’offerta, dopo qualche tempo anche i personaggi femminili conquistano il loro spazio, dapprima come semplici rip-off (vedi Nurse Jackie, 2009, e il suo rapporto con House M.D., 2004) e in seguito come variazioni sul tema un po’ più evolute, per quanto, nonostante gli sforzi, spesso stereotipate nella scelta dei tratti più disturbanti e/o comunque meno “minacciose” delle loro controparti maschili. Prendiamo ad esempio Carrie Mathison (Homeland, 2011): è un’antieroina “classica” nella misura in cui 1) compie spesso azioni immorali e 2) convive con un disturbo/segreto che in qualche modo la definisce. Declinati al femminile, però, questi elementi prendono forma secondo meccanismi di caratterizzazione, quando si parla di donne, praticamente automatici e spesso (anche se non sempre) limitanti; Carrie è innanzitutto bipolare e nevrotica – un grande classico dell’immagine femminile, non soltanto a livello creativo ma anche e soprattutto socio-culturale– e, in particolare nelle prime stagioni, le sue azioni sono mosse in gran parte dai sentimenti che prova per il suo compagno – ancora una volta, una donna guidata dalle emozioni e non dalla logica.
È interessante notare che in Homeland il concept iniziale, poi evolutosi diversamente col passare delle stagioni, prevedeva la compresenza di due protagonisti e rappresentava in effetti una sorta di studio del loro rapporto. In altre parole il concetto di antieroe (femminile) veniva esplorato, almeno in parte, all’interno delle dinamiche di coppia, rendendole centrali nell’economia del racconto. Si tratta di una soluzione che per certi versi può essere considerata un trend interessante e che ritroviamo – sviluppata in maniera sicuramente più consapevole, anche se con esiti diversi di caso in caso – in almeno altri due prodotti successivi: House of Cards e The Americans (entrambi usciti nel 2013). Per quanto riguarda quest’ultimo, ad esempio, la protagonista femminile si dimostra un antieroe da manuale – evento doloroso nel passato, intelligente e competente, un segreto da difendere a tutti i costi – la cui originalità emerge soprattutto nel discorso più generale portato avanti sulla coppia (vero punto di forza della serie) e mai in ottica, anche soltanto vagamente, femminista. Dal canto suo Claire Underwood, che con la signora Jennings condivide un trauma comune (la violenza sessuale, e non stupisce, vista la tendenza ad utilizzare lo stupro come strumento di crescita o di definizione per molti personaggi femminili), è un personaggio dalla femminilità forse più stereotipata ma allo stesso tempo costruita all’interno di un arco narrativo, impostato sulla “collaborazione” con il marito, che possiamo definire rilevante – almeno ai fini della nostra indagine. Pur con tutte le forzature di cui House of Cards si è macchiata negli anni, il discorso sulla coppia è sempre stato significativo nella misura in cui ha esposto e lavorato sulle dinamiche di oppressione patriarcale, tratteggiando la ribellione dall’interno di una donna che gioca consapevolmente (talvolta vincendo, talvolta perdendo) con il proprio ruolo.
Siamo ancora lontanissimi dalla raffinatezza e dalla carica rivoluzionaria di prodotti apertamente interessati alla vita interiore delle donne, ma si può intravedere la direzione che il modello dell’antieroe al femminile aveva iniziato a prendere, anche se ancora in maniera un po’ goffa: non più un semplice copia-incolla a generi invertiti, che al massimo ricorre allo stereotipo per un adattamento migliore, ma un lavoro complesso sulla posizione che la donna occupa nel mondo e sulla reale esperienza della propria condizione.
Female antihero – evoluzione
Con l’uscita della prima stagione di UnREAL (2015), la serie rivelazione di Lifetime ambientata dietro le quinte di un dating show fittizio, si sono sprecati i pezzi di approfondimento su Rachel, la protagonista interpretata da Shiri Appleby. Il motivo di tanto entusiasmo è presto detto: secondo gli autori, la donna rappresentava la prima, vera, female antihero del panorama drama. In effetti la co-creatrice della serie, Sarah Gertrude Shapiro, ha dichiarato di essersi ispirata direttamente a Breaking Bad, e dunque a Walter White, nello sviluppo del personaggio. I punti in comune, a ben vedere, sono diversi: entrambi costituiscono innegabilmente i protagonisti della storia, sono bravissimi nello svolgere dei compiti che hanno implicazioni etiche moto pesanti (Rachel è una produttrice dello show incaricata di forzarne la spettacolarità e il “drama” manipolando psicologicamente le concorrenti) e soprattutto, nonostante le remore, amano farlo. Non c’è alcuna causa a spingere la donna a comportarsi in un certo modo, se non l’appagamento narcisistico che nasce dal riconoscere (e godersi) il proprio talento.
L’aspetto più interessante del personaggio e della sua storia non è comunque l’adesione quasi perfetta al modello, quanto piuttosto l’approccio e la resa “al femminile” del concetto stesso di antieroe. Innanzitutto l’ambientazione completamente diversa (niente intrighi politici, niente azione, niente criminalità) e la tipologia di lavoro, che ruota intorno all’idea di emotional labour – come sottolinea questo pezzo –, permettono di impostare un percorso di crescita analogo ma diverso, non più legato ad un immaginario univocamente maschile e oltretutto interessato allo sviluppo del personaggio anche in quanto donna. Si potrà obiettare che una scelta del genere sia in realtà costrittiva, come a voler limitare il raggio d’azione femminile all’interno di un trito stereotipo, ma si tratta a conti fatti di una visione, questa sì, riduttiva: scambiare dinamiche (anche creative) sviluppatesi in contesti e secondo gusti prettamente maschili come invece neutre o universali è un errore comune, che il contatto con realtà e soluzioni diverse (nel senso che la lingua inglese dà al termine) può sicuramente contribuire a limitare. Ma tornando ad UnREAL, proprio questa impostazione ha permesso di creare una serie ben consapevole della tradizione in cui si inserisce ma allo stesso tempo estremamente moderna, godibilissima e, pur con tutti i suoi eccessi, davvero realistica e originale nella rappresentazione dei personaggi femminili principali e del loro rapporto.
Come sottolineava l’articolo citato in apertura, però, il drama vecchio stampo incentrato sull’antieroe sta attraversando una crisi, che si riflette nella stanchezza e nel crollo creativo che accomuna svariate seconde stagioni – compresa quella di UnREAL, una colossale occasione sprecata anche sul piano della caratterizzazione. Se vogliamo continuare a cercare delle antieroine, dobbiamo quindi farlo in prodotti più sperimentali nel formato e nel concept. Un esempio interessante è dato da Christine, la protagonista della miniserie The Girlfriend Experience (2016), che si gioca tutta sulla messa in scena, le atmosfere e la personalità straniante della protagonista. Gli eventi che portano la donna a diventare una escort di lusso, nonché la sottotrama thriller, fanno da contorno a quello che è soprattutto un atipico character study incentrato su una sociopatica inedita, la cui natura di entieroina non può che realizzarsi in chiave specificamente femminile. Ma forse l’ultima, più moderna e matura, female antihero è in realtà Fleabag, punto focale della dramedy omonima (2016) scritta e interpretata dalla bravissima Phoebe Waller-Bridge. La protagonista è tutto ciò che una donna non dovrebbe essere (in una prospettiva sia femminista che maschilista): emotivamente e fisicamente dipendente dal sesso, egoista, cinica, sgradevole e spesso immorale. Sarebbe stato facile, soprattutto considerato che Waller-Bridge è una comica, partire da queste caratteristiche per costruire una stravagante icona ribelle vagamente femminista (un po’ à la Girlboss, per intenderci) ma Fleabag non fa nulla di tutto questo. Anzi, ci racconta – sfruttando sapientemente il contrasto tra le battute che la protagonista rivolge allo spettatore rompendo di volta in volta la quarta parete e ciò che osserviamo succedere intorno a lei – il disagio di essere una donna “sbagliata”, incapace di trovare un posto, comodo, nel mondo.
Nuovi modelli
Fleabag è un esempio interessante perché, ancora più di The Girlfriend Experience, incarna un modo di fare tv diverso rispetto al passato – anche quello relativamente recente – non tanto e non solo per la sperimentazione in termini di genere e formato ma per la capacità di andare oltre le soluzioni preconfezionate (per quanto certe confezioni possano essere splendide) e offrire innanzitutto un punto di vista altro. Per capire meglio questo passaggio, può essere utile fare riferimento ad un prodotto non più freschissimo ma ancora assolutamente rilevante: Orange is the New Black (2013). La serie, creata da donne e con una writers room a maggioranza femminile, è un caso di studio affascinante perché incarna alla perfezione il passaggio da un modello all’altro, anche e soprattutto al suo interno. La storia, comunque fin da subito interessata a dare spazio ad una pluralità di voci, inizia infatti con al centro il personaggio di Piper – a sua volta modellato sullo stampo dell’antieroe (con dovuti accorgimenti) –, ma con il tempo il “viaggio” della protagonista si confonde in un mare di storie diverse che vanno a costituire la struttura definitiva dello show, ormai un racconto corale a tutti gli effetti. A colpire, inoltre, è come le esperienze di vita, i problemi e perfino i corpi delle detenute vengano rappresentati in modo da risultare il più possibile veri e “relatable”: la possibilità di identificarsi in, di riconoscere la legittimità e celebrare la potenza di sguardi diversi è il lascito più importante della serie, nonché probabilmente la giusta chiave di lettura per comprendere i cambiamenti in atto nella televisione contemporanea.
Esigenze di marketing, evoluzione del pubblico e maggiore libertà creativa alle donne (ma anche a membri della comunità LGBT e/o minoranze etniche) hanno dato vita ad un circolo virtuoso che sta radicalmente trasformando la tv contemporanea, sempre più sensibile al cambiamento, sempre più disposta a mettere se stessa e le regole del gioco in profonda discussione. Gli antieroi, ma anche le antieroine, non ci bastano più perché la questione della rappresentazione femminile è molto più complessa, sfaccettata, seria e non può che assumere, quindi, anche un valore politico (nel senso più ampio del termine). Pensiamo alla sovraesposizione del corpo nudo di Lena Dunham in Girls (2012), un vero e proprio atto di ribellione comunque mai fine a se stesso e capace di ridefinire i confini di ciò che è accettabile e/o desiderabile nel contesto di un racconto televisivo, o la rappresentazione dei rapporti di forza tra i sessi nella serie forse più smaccatamente “politica” degli ultimi anni, 13 Reasons Why (che in ultima analisi è più un racconto sulla misoginia che sul suicidio, come spiega brillantemente Anna Silman in questo pezzo).
Si ritorna così a parlare di women’s picture, genere in forte ascesa nel mezzo televisivo ed esplicitamente interessato a rispondere ad una domanda tutt’altro che semplice: cosa significa essere una donna oggi? Le risposte, come prevedibile, sono state e continuano ad essere anche molto diverse tra di loro; proviamo quindi ad analizzare le più interessanti, incidentalmente raggruppate lungo i due assi della commedia e del drama .
Verso il female gaze: prospettive autoriali
Se, come suggeriva già quasi un secolo fa Virgina Woolf, quella delle donne è una visione del mondo (nonché un approccio alla vita) che si esprime in maniera diversa da quella maschile – o, se vogliamo, patriarcale –, allora “il femminile” avrà probabilmente anche una sua specifica e differente estetica. Senza soffermarci troppo sulle interpretazioni, più o meno limitanti, del concetto di female gaze, vale sicuramente la pena discutere di almeno due esperimenti in cui scrittura e macchina da presa tendono a presentarsi come consapevolmente ed orgogliosamente femmine. Stiamo parlando di Top of the Lake (2013) di Jane Campion e I Love Dick (2017) di Jill Solloway, due serie che, a partire da una ricerca anche e soprattutto estetica sull’idea di femminilità, genere, sessualità e contatto con (la propria) natura, adottano un linguaggio che gioca sulla contrapposizione tra uomo e donna provando a darle forma ed identità “artistica”.
Campion è evocativa, sfuggente, quasi mistica: nella prima stagione (inizialmente destinata a restare l’unica) mette in scena un racconto frammentato, dai ritmi e dalle immagini stranianti, che rappresenta soprattutto un percorso di scoperta femminile in chiave ancestrale, non a caso legato (in maniera ancora più evidente nel corso della seconda stagione) al concetto e all’esperienza della maternità. A partire dall’opposizione uomo-donna, che può apparire esasperata e ostile soltanto ad un occhio poco attento, viene riscoperto quindi il rapporto con la natura oltre quella cultura – nel senso, ancora una volta, più esteso del termine – che è, invece, espressione di una tossicità tutta maschile, violenta, corrotta e prevaricatrice.
Solloway, dal canto suo, punta a rendere il più possibile palpabile quella rete di esperienze, sensazioni e pensieri che dà forma alla vita intellettuale e sessuale (legate a doppio filo) della donna contemporanea. Per farlo si serve di un linguaggio sperimentale ma mai compiaciuto o gratuito, proponendo un’interessante integrazione tra narrazione tv e arte visiva che dà ampio spazio allo sguardo femminile “alternativo” – utilizzando ad esempio gli stralci di alcuni lavori di registe d’avanguardia, ma soprattutto ragionando sulla “fenomenologia” e sul significato dell’esperienza sessuale così come viene intimamente e pubblicamente vissuta dalla protagonista e dagli altri personaggi femminili. Nell’adattare l’omonimo romanzo cult di Chris Kraus, quindi, Solloway cerca di svincolarsi con uno slancio creativo straordinario dalle indicazioni/costrizioni che più o meno tacitamente regolano le dinamiche della rappresentazione nell’ambito del rapporto tra i sessi, non soltanto ribaltando la prospettiva tradizionale a livello di soggetto e oggetto del desiderio (rendendo Chris la prima e Dick il secondo), ma mettendo in discussione e rielaborando su basi nuove questa stessa dicotomia.
Verso il female gaze: riappropriazione meta
Il concetto di riappropriazione – che nell’ambito dei cultural studies consiste nel “riscattare” un termine o una pratica culturale simbolo di oppressione e rielaborarlo in senso positivo all’interno del gruppo (vedi una parola come queer nel contesto della comunità LGBT) – si fa particolarmente utile per comprendere l’importanza di alcuni prodotti televisivi che condividono l’obiettivo di ricostruire l’immaginario della femminilità secondo nuovi presupposti. Trattandosi di serie tv, l’oggetto della riappropriazione non può che essere il genere, mentre il registro quello metanarrativo: da qui il concept di Jane the Virgin (2014) e Crazy Ex-Girlfriend (2015), brillanti e modernissime rivisitazioni in chiave parodica (anche se sarebbe riduttivo definirle delle semplici parodie) della telenovela e della rom-com – due generi da sempre espressione, anche se in misura e con modalità diverse, di una visione distorta dei rapporti tra i sessi.
Entrambe divertentissime e immaginifiche, le due serie CW fanno un lavoro straordinario nello sfruttare consapevolmente i topoi fondanti dei rispettivi generi in un’ottica gustosamente femminile e femminista. Attraverso un lavoro di caratterizzazione slow-burn davvero magistrale e, cosa ancora più impressionante, tra un plot twist assurdo e l’altro, Jane the Virgin racconta con passione la vita vera di donne latine vere, piene di contraddizioni e difetti, lontane tanto da un’idea di sessualizzazione forzata tutta maschile quanto dal modello proto-femminista di “donna forte”. Crazy Ex-Girlfriend, invece, è se possibile ancora più meta: un commedia musicale (con tutto ciò che questo comporta a livello di rielaborazione) che analizza il nostro rapporto con la cultura pop e l’idea di amore romantico, amicizia e successo che ci propina. Sia in un caso che nell’altro il vero punto di forza della serie non è tanto la genialità di certe soluzioni creative – come le sequenze fantastiche o i meravigliosi hashtag del narratore in Jane the Virgin nonché i leggendari numeri musicali di Crazy Ex-Girlfriend – ma piuttosto la capacità di servirsene per ricostruire l’immagine della donna (e dell’uomo) dall’interno dello stesso stereotipo che ne limitava la rappresentazione.
Conclusioni
Osservando il percorso appena tracciato, ci rendiamo conto che, nel processo di consolidazione di una sensibilità femminile/femminista, gli elementi su cui poggiava la struttura di praticamente tutte le produzioni prestige (ma in effetti anche molte serie più modeste) sono stati dapprima riprodotti in maniera quasi automatica nell’inversione di genere, poi scomposti e accuratamente “studiati” per essere rimontati in combinazioni del tutto nuove, e infine ribaltati e rielaborati in chiave spesso politica. L’evoluzione della rappresentazione della donna in tv e il passaggio da New Golden Age a Peak Tv sono, quindi, un momento di crescita condiviso, un percorso di innovazione a più livelli che si nutre di reciproche influenze e di cui a giovarne è soprattutto il pubblico. Non soltanto quello femminile, che si trova degnamente e variamente rappresentato dalle signore di Big Little Lies, dalle adorabili sbandate di Broad City, dalle strane criminali di Claws o dalla problematica Issa di Insecure, ma anche quello maschile, a sua volta svincolato dai rigidi ruoli in cui era stato forzato a rispecchiarsi. In conclusione, la potenza liberatoria di questa presa di coscienza a lungo attesa e (fin troppo) pian piano costruita non è quindi soltanto la vittoria sterile del politically correct – come vorrebbero alcuni, troppo miopi per scorgere, giusto per fare un esempio recente, le enormi potenzialità creative di un Dottore donna – ma l’occasione per un rinnovamento qualitativo estremamente interessante, di cui la televisione si sta facendo portatrice in maniera anche più consapevole e completa del cinema mainstream.