Quello che doveva essere il grande evento televisivo dell’anno si è drasticamente ridimensionato nel corso delle settimane: Westworld, pur rimanendo una serie con una solidissima fanbase e un seguito di tutto rispetto, non può ambire ad essere uno show del tutto generalista – come invece è diventato Game Of Thrones –, capace di intrattenere anche lo spettatore meno esigente e più distratto. Questo finale di stagione ne è la lampante dimostrazione, a causa della grande attenzione che richiede per essere seguito e capito fino in fondo.
L’anti-convenzionalità narrativa dello show di Jonathan Nolan e Lisa Joy – alla scrittura di questo ultimo episodio – è ormai risaputa. La prima stagione, infatti, aveva colpito nel segno anche grazie al disvelamento progressivo di una trama più complicata di quanto fosse apparentemente – come dimenticare i bellissimi “The Well-Tempered Clavier” e “The Bicameral Mind”, anche a causa delle grandissime aspettative verso questa seconda annata – e ad un’organizzazione totale della narrazione, programmata in ogni dettaglio e che lasciava allo spettatore il compito di rimettere insieme i pezzi. Ne abbiamo avuto un assaggio anche nella meno riuscita premiere di questa seconda stagione, a cui tra l’altro “The Passenger” è strettamente legato. Insomma, una valutazione della riuscita o meno di questa annata – che come tutte le seconde ha la necessità in primis di confermare il successo della precedente – non può esimersi dall’analizzare la narrazione stagionale nella sua totalità, anche considerata la confusione temporale che caratterizza le vicende dei personaggi.
“The Passenger” è, difatti, un episodio di un’ora e mezza che ha il compito di tirare le fila di un discorso che cominciava a diventare fin troppo caotico e complesso da seguire per lo spettatore; lo fa attraverso un insieme di spiegoni poco eleganti – Logan Delos che accompagna Bernard e Dolores nella Forgia – e soluzioni ben più riuscite – il plot twist legato a Charlotte Hale. La sensazione è che gli autori si adoperino per fornire più risposte possibili alle domande sollevate in questa annata – magari consapevoli di una vera e propria necessità di farlo – tentando di integrare il tutto in un season finale che possa essere allo stesso tempo epico e non tradente dello spirito che caratterizza la serie.
Il risultato è un episodio tutto sommato buono che, nonostante la lunghezza esagerata e ingiustificata che è ormai parte indissolubile dello show, mette in ordine la complessa trama di Westworld e si rilancia molto bene in vista della già confermata terza stagione.
Your memories are precious to you, Bernard, but they will betray you.
Ad un livello sovrastrutturale questa stagione è caratterizzata dalla circolarità della sua narrazione: come si è già accennato, infatti, la premiere e il finale sono temporalmente connessi. Il risveglio di Bernard sulla spiaggia e il parco inondato erano un flashforward a cui si giunge solo a metà di “The Passenger”, con l’arrivo del gruppo capitanato dalla Hale e Strand alla Forgia. A connettere tutti i segmenti narrativi in gioco vi è la discrasia temporale che affolla la mente del personaggio di Jeffrey Wright, la cui percezione è totalmente falsata rispetto alla cronologia reale in cui si succedono gli eventi a cui prende parte; si può dire che lo sguardo dello spettatore/giocatore che si diverte a rimettere insieme i pezzi del puzzle coincida con quello di Bernard, l’host più inconsapevole di quello che accade intorno a lui e a lui, continuamente “usato” contro la sua volontà – prima da Ford, poi da Dolores – almeno fino alle ultime scene di questo episodio. Nel suo background convivono sia i ricordi di Arnold, sulla cui base è stato creato, sia le memorie del tempo passato convinto di essere umano, quando lavorava nel parco durante la prima stagione; insomma, la presa di coscienza del personaggio non può che essere tardiva rispetto agli altri, scatenata in ultima istanza dall’omicidio di Elsie.
Both of us will probably die, but our kind will have endured. Are you ready? We have work to do.
Anche Dolores trova un’adeguata conclusione del suo viaggio in “The Passenger”, nonostante la gestione tutt’altro che ottimale da parte degli autori durante la stagione. La recitazione di Evan Rachel Wood, d’altronde, è stata sempre troppo sopra le righe in questa annata, sfiorando in più momenti una versione caricaturale e parossistica di se stessa; certo, la scrittura non l’ha per nulla aiutata, ma era lecito aspettarsi qualcosa di più da un’attrice esperta e conclamata come lei.
Si diceva che il suo personaggio raggiunge finalmente lo scopo che si era prefissata, la possibilità di raggiungere la sua personale “porta” per uscire dal parco e garantire a se stessa e alla sua specie un futuro nel “real world”, che aveva avuto occasione di ammirare solo per brevi istanti ai tempi della sua permanenza nel parco. Il progresso è però sinonimo di cambiamento: bisogna cambiare pelle per sopravvivere e Dolores lo fa letteralmente, grazie al travaso di coscienza nel corpo ricostruito di Charlotte Hale, su gentile concessione di un Bernard ormai davvero complice e schierato dalla parte degli host. La donna è stata delineata in questa stagione come un condottiero con il dovere di guidare il suo popolo verso la terra promessa, un Mosè contemporaneo che apre le acque del Mar Rosso, la cui immagine è richiamata dall’apertura della porta verso il paradiso virtuale in cui gli host possono vivere in eterno – i riferimenti biblici in questo finale si sprecano. Come in tutta la serie, inoltre, ritorna il tema della creatura che affronta il proprio creatore: non sono ancora chiare le intenzioni pratiche di Dolores, ma dalle sue parole si evince una futura lotta per la sopravvivenza (“we’re in our own new world”) e la volontà di sopraffare totalmente la razza umana.
Gli autori di Westworld hanno probabilmente qualche problema con i personaggi femminili considerato che anche Maeve è protagonista della sezione di racconto meno interessante della stagione, almeno per quanto riguarda il suo personale obiettivo, tutto votato alla ricerca di una maternità artificiale, costruita ma per lei comunque significativa. Pochi istanti prima della sua morte – molto probabilmente temporanea, visto che il suo involucro viene portato via dai militari della Delos – riesce finalmente a mettere in salvo la bambina e la sua nuova madre, oltre che fornire con un sacrificio estremo – molto simile a quello di Lee Sizemore poco tempo prima – la possibilità alla sua gente di attraversare la porta.
Anche lei, come Dolores, ha rappresentato nella serie la volontà di emanciparsi dal ruolo che le era stato attribuito – un segnale forte anche dal punto di vista sociale che questo tema sia promosso da due donne – seppur in modo diverso: la sua interconnessione con gli host, infatti, l’ha resa sempre più simile ad un capo spirituale piuttosto che a un guerriero spietato, definizione più aderente alla sua controparte bionda. Dolores e Maeve sono le due facce di una stessa medaglia, i due baluardi simbolici della rivoluzione delle macchine – un vero e proprio popolo – raccontata in questa stagione: la forza militare e il sentimento collettivo.
Un’annotazione importante la meritano William e la scena post-credits che lo riguarda. Con il sottofondo dei Radiohead l’uomo in nero entra in una stanza identica a quelle usate dal signor Delos per testare le sue copie robotiche, viene intervistato da quello che è con tutta probabilità un host che raffigura la figlia – si ricordi che era morta solo un episodio fa – e gli viene fatto intuire che c’è qualcosa che non quadra. La scena si pone al termine della stagione, dopo la sua conclusione ufficiale, a spezzare la già palpabile tensione provocata dal dialogo tra Bernard e Dolores; la domanda che sorge spontanea è: qual è il significato in termini pratici di questi ultimi minuti? In che momento si collocano? C’è qualcosa sul passato dell’uomo che ancora non sappiamo o si tratta di eventi successivi all’inondazione del parco? Questioni irrisolte che aprono la strada a speculazioni e teorie in vista degli episodi futuri.
How many times have you tested me?
La mitologia dello show è così pressoché definita del tutto: laddove alla fine della prima annata vi erano ancora numerose zone d’ombra, siamo oggi al punto di avere un quadro completo della storia del parco e dei personaggi che lo abitano. Dai tentativi di Delos di rendersi immortale al giusto ordine cronologico di ogni avvenimento relativo alla progettazione del parco, raccontato dal punto di vista di diversi personaggi tra la prima e la seconda stagione. Ci si trova, dunque, ad un punto di svolta per Westworld, visto e considerato che, usciti dal parco e lontani dalle possibilità narrative che offriva, occorrerà costruire la trama in modo totalmente diverso; non essendoci più la necessità di raccontare il passato è essenziale ambientare le vicende della terza stagione principalmente nel presente, una sfida decisamente stimolante per gli autori ma altresì rischiosa. Già quest’anno Nolan e il suo team hanno dimostrato, infatti, di non essere pienamente in controllo del loro dispositivo narrativo, non riuscendo ad integrare come ci si aspettava le novità rappresentate da Shogunworld e dagli altri parchi – già comunque annunciati come presenti nuovamente nella prossima stagione. Gli episodi ambientati nel giappone feudale sono sembrati dei grandissimi filler, un’escursione narrativa visivamente e stilisticamente interessante, ma ben poco integrata alla trama orizzontale.
“The Passenger” è, in definitiva, un buon finale che riesce quasi sempre a trovare il giusto equilibrio tra la necessità di spiegare e dare risposte allo spettatore e quella di chiudere definitivamente il cerchio della sua narrazione in modo dignitoso, epico e con la possibilità di puntare ancora più in alto con la terza stagione. È un season finale, tuttavia, molto depotenziato dall’andamento altalenante della qualità degli episodi, che ha causato una sostanziale delusione rispetto alle attese generate dal finale della scorsa annata. L’esagerazione di trame e sottotrame che si sono intersecate, la continua ricerca di una complessità narrativa perlopiù ingiustificata e la superficialità che ha regnato sovrana sull’evoluzione di alcuni personaggi e su alcuni passaggi meno riusciti della sceneggiatura nel complesso hanno costituito una stagione negativa ma non fallimentare. Westworld rimane un prodotto molto buono che, come molti altri in questi anni, non è riuscito a confermarsi come eccellente, ma che ha tutte le carte in regola per riprovarci.
Voto episodio: 7/8
Voto stagione 7 –
Bravissimo ed esaustivo come sempre…da parte mia,sarà un mio limite,ho trovato quasi insopportabile la durata dell’ultimo episodio,molto confusionario e pasticciato(ammetto che alcune cose le ho capite parzialmente).I salti cronologici,soprattutto con Bernard li ho trovati estenuanti…voto alla season/Sufficienza risicatissima…6–…Attesa per la prossima season ?…Ai minimi termini…
Stagione controversa, ma con un gran bel The Riddle of the Sphinx e un superbo, emozionante Kiksuya che vale l’intera serie. Tutto il resto è spettacolo/noia, un’elegante confezione, più bella del suo contenuto. Poi quando si arriva alle visioni bibliche come succede in questo season finale, si sfiora il kitsch: ma quanto è brutta quella porta di accesso alla Valley Beyond!
Trovo anche assurdo ignorare i moti e i morti di Raj e Shogun World visto che ce li hanno mostrati.
L’uomo che vuole essere Dio e la ribellione del suo creato sono un tema classico della fantascienza e sulla carta l’idea di Crichton, il parco a tema, è affascinante, peccato davvero per questa occasione ancora non perfettamente riuscita…
Senza dilumgarmi…. Stesso commento che avevo fatto coi miei amici per interstellar. A boring, pretentious “patanata”. Con molti attori eufimisticamente poco in forma. O per nulla convinti, magari… Io salverei la povera Elsie, agnello sacrificale delle due fazioni in ambedue le serie. Poco altro in verita`, se non un Ed Harris anche lui poco convinto mi sembra. Hopkins gigioneggia alla grande invece. Su Arnold e Dolores un pietosissimo velo.