
Le aspettative che ruotavano attorno alla serie erano quasi tutte legate a una domanda, semplice e controversa allo stesso tempo: come riuscirà una delle firme più prestigiose della seconda golden age a confrontarsi con l’evoluzione del medium televisivo o, nel caso specifico, con un prodotto antologico? Se l’avvio dello show sembra rispondere a questa domanda in maniera definitivamente negativa, con “House of Special Purpose” e “Expectation” comincia a profilarsi qualche spiraglio, che – nonostante sia stato parzialmente inabissato da “Bright and High Circle” e in misura minore anche da “Panorama” – comincia a diventare più limpido con quest’episodio: la misura e l’irruente delicatezza di “End of the Line” rimescolano le carte in gioco, restituendoci un racconto denso, quasi esclusivamente mostrato anziché narrato e in cui la lezione del passato si fa strada per diventare profondamente contemporanea.
Si dibatte tanto su cosa sia contemporaneo in materia di spettacolo, nel cinema o nella tv si parla spesso di tematiche affrontate o di utilizzo di formati funzionali alla storia narrata; nelle arti performative invece si assurge a emblema del ‘fare contemporaneo’ una tendenza all’essenzialità, sia tecnica che narrativa, attuando una sorta di contropartita alla realtà quotidiana, sempre più complicata da ‘macchine’ che si affiancano e sostengono l’uomo. Le arti performative, nelle loro migliori declinazioni artistiche, tendono quindi a ritornare al nocciolo estremo della questione, ovvero all’uomo, al suo corpo, all’origine di un gesto e alla sua potenza estrema. In questo episodio la regia di Weiner sembra cogliere l’essenza di questo ‘fare contemporaneo’ accarezzando i corpi degli interpreti come interlocutori privilegiati di un racconto intimo, in cui alle parole è affidato meno della metà di ciò che veramente viene raccontato.
Oh, my God. She’s perfect.

Alla regia delicata e puntuale, si affianca la scrittura calibrata di Andre e Maria Jacquemetton – non a caso una coppia – già collaboratori di Weiner per Mad Men (“The Quality of Mercy”, tra gli altri).
Nonostante l’importanza della tematica da cui tutto nasce e si dipana, il perno del racconto è un altro: l’indagine sottile di una solitudine esistenziale senza tempo che relega i due coniugi agli angoli apposti di un dolore apparentemente comune ma che invece si staglia sulla loro pelle in modo completamente diverso.
Nel fulcro dell’episodio – la lite tra Anka e Joe – entrano in gioco una serie di dubbi e questioni che prendono conformazioni diverse dalle formule con cui siamo soliti confrontarci: il concetto di famiglia si declina solo a partire dal numero tre? Desiderare un figlio più di ogni altra cosa, a dispetto di ciò che potrebbe comportare, può essere considerato un atto di egoismo? E il non volerlo, nonostante il desiderio del partner? Amare vuol dire mettere, per forza, i propri desideri sulla stessa linea dell’altro a scapito della sofferenza individuale che ciò può comportare?
La discussione tra Anka e Joe si sofferma su queste questioni ponendo ogni singolo dubbio in una dimensione di legittimità: ognuno dei due ha tutte le ragioni possibili per sostenere la propria convinzione, e nonostante ci sia una leggera tendenza verso la posizione di Joe nella risolutezza di Anka si può anche scorgere una certa misuratezza.
No one would choose that baby.

La perfetta interpretazione di Kathryn Hahn riesce a conferire al personaggio di Anka una serie di sfumature che ci impediscono di inserire la donna all’interno di una categoria precisa: la dolcezza con cui osserva il bambino di Patricia o il sorriso con cui accoglie Oksana tra le sue braccia sono la dimostrazione di un desiderio reale e tangibile e non il perseguimento di un’azione fatta solo per compiacere il marito. Tuttavia, nella fermezza con cui affronta Joe, toccando picchi di pessimismo ed egoismo, capiamo che per lei essere madre non è un desiderio così imprescindibile per cui sarebbe disposta a sacrificare ulteriormente la sua vita.
Persa tra la rabbia, la stanchezza e la paura di annullarsi come essere umano, Anka si mostra come una donna lucida e consapevole di un ruolo tra i più difficili nella vita di una persona: vuole essere madre, ma al contempo donna e moglie. Si può dire lo stesso di Joe? Così preso dal desiderio di diventare padre che confonde l’operatività di un’adozione con il segno della volontà di Dio?
This is not a shopping trip. There’s never a guarantee with any of it. It’s a leap of faith.

Lo sguardo perso di Joe in chiusura dell’episodio sembra riflettere su questi concetti, lasciando trapelare che tutto il non detto dopo il diverbio con la moglie e dopo lo ‘scambio’ di Oksana con Katerina non rimarrà per troppo tempo sepolto. O forse sì. “The end of the line” non dà sentenze, non propone conclusioni, lancia un nuovo inizio in cui i Garner sembrano aver ottenuto quello che volevano, nonostante quel compromesso che Joe potrebbe faticare a dimenticare. Ma anche qui, la chiusura è tutt’altro che chiara; per quanto si possa facilmente intuire che l’espressione sgomenta di Joe sia un misto di preoccupazione per la sorte di quella povera bambina e per il confronto avuto con la moglie, non si può totalmente escludere che possa anche esserci un intimo esame di coscienza con cui l’uomo si rapporta alle sue azioni: da paladino della giustizia – If we leave here without that baby, I don’t want to be with you – a banderuola, pronto a gettare al vento tutte le belle parole su Dio, sull’atto di fede, sulla responsabilità, pur di avere l’agognata famiglia.
“Prekratite ulybat’sya”. That means don’t smile. People will think you’re a mental patient.

“End of the Line” è uno dei migliori episodi di questa controversa stagione, nonostante non sia perfetto – i due momenti in cui Anka e Joe si ritrovano da soli a riflettere sulla loro lite hanno un che di didascalico – l’equilibrio tra regia e scrittura, sostenuto dalle splendide interpretazioni dei tre protagonisti, crea un impianto narrativo capace di espandersi in mille direzioni, secondo stratificazioni che – seguendo una linea immaginaria – vagano dall’alto in basso senza mai sostare in un luogo preciso. Una volta arrivati, si riparte sempre, e si ricomincia.
Voto: 8½
