“I’m happy”, dice Diane a Kurt nel cold open che dà inizio alla terza stagione di The Good Fight. Sono passati diversi mesi dall’ultima volta che l’abbiamo vista, ma non c’è dubbio che una frase del genere – in una serie del genere – non possa che apparire come uno stato d’animo destinato a durare molto poco. Ce l’ha insegnato proprio il pilot – quello con Diane esterrefatta davanti alla vittoria di Trump – che non si può mai davvero essere tranquilli: e i coniugi King, che sanno giocare molto bene con il proprio pubblico, sanno perfettamente che anche noi, davanti a quella frase, ne coglieremo il significato opposto.
“The One About The Recent Troubles” è il titolo della terza season premiere, che apre una stagione in cui si smette di scandire le puntate in base ai giorni della presidenza Trump e ci si concentra su temi più precisi, in questo caso sui “problemi più recenti” che avvengono a distanza di circa nove mesi rispetto allo scorso season finale. E non poteva iniziare meglio di così: la puntata mette in scena un turbinio di eventi che si articolano intorno alla legge, all’attualità e alla politica, ma mai come in questo caso affrontati in modo così personale. Lo stesso “caso di puntata” è infatti qualcosa che mina alle fondamenta non solo la stessa Reddick, Boseman & Lockhart, ma anche la morale di ciascuna delle persone che lì vi lavorano e che si ritrovano a dover fare i conti sia con le proprie azioni passate, sia con colpe che non sono loro e che però rischiano di diventarlo in base a come verranno gestite le conseguenze. Non solo: la politica stessa torna a colpire e lo fa proprio in direzione di Diane, portandola ad un punto di svolta in cui la sua “good fight” la conduce ad essere sempre più determinata e sempre meno preoccupata delle conseguenze che questa avrà sulla sua vita.
“My dad raped the stenographer?”
“Yes.”
Il caso Carl Reddick arriva come una bomba imprevista nel mondo dei nostri protagonisti: un caso potenzialmente “à la Weinstein” con la differenza che il responsabile delle molestie è morto e che tutto ciò che ne consegue ricade, sia a livello lavorativo che personale, su chi è rimasto. Non è la prima volta che The Good Fight si occupa del tema delle molestie, e non è un caso che proprio in questo episodio torni un riferimento alla famosa settima puntata della scorsa stagione, quella dedicata al #MeToo e al sito Assholes to Avoid: sebbene la storia qui occupi uno spazio minore, è interessante notare come la serie continui a riflettere non solo sui temi di attualità ma anche su se stessa, costringendo i personaggi a confrontarsi con le decisioni prese in passato. Questo avviene perché i King non rinunciano mai a porre uomini e donne in condizioni scomode, in cui lavoro ed etica personale spesso risultano inconciliabili e in cui a volte l’unica soluzione è ammettere quella contraddizione e cercare di volgerla a proprio favore – Because we’re that good.
Ma il caso Reddick non è un blog: è una contraddizione ancora più grande, è l’idea che il fondatore dell’azienda – “un’icona dei diritti civili” – sia stato un molestatore e uno stupratore; è per tutti un duro colpo, in particolare per Liz, figlia che si ritrova a vivere prima la rabbia e poi il dolore di questa scoperta come se fosse una sua colpa, qualcosa a cui lei deve rimediare il più possibile. E del resto non c’è altro modo per risolvere la situazione se non pagando Cynthia: nonostante le discussioni tra tutti i partner – momenti cui la serie non rinuncia mai, nella sua volontà di mostrare tutte le sfumature di pensiero, anche le peggiori, relative all’argomento – e nonostante le legittime riflessioni di Diane sul dove finiscono le colpe di Carl e dove iniziano le loro, la scoperta dell’accordo fatto con quest’ultimo per coprire tutte le sue eventuali cause di molestie obbliga lo studio a perseguire quell’unica strada.
Sono però le scelte delle donne al centro del discorso: come si diceva, quella di Liz di farsi carico di tutto, dal confronto con Cynthia alla firma dell’accordo, fino alla ricerca di ogni singola donna molestata dal padre – con il supporto di una sempre formidabile Marissa; quella della figlia di Cynthia, che spinge la madre non solo a parlare ma a spiegare cosa sia successo nel corso di quei tanti anni di lavoro e perché sia rimasta; e infine anche la scelta della stenografa Wendy, che dimostra come non importa quanti siano i discorsi che si possono fare intorno alle molestie, perché la decisione finale su cosa fare (denunciare o non denunciare) è solo ed unicamente in mano a chi quel crimine lo ha subito – e questo indipendentemente dal fatto che si sia o meno d’accordo con le motivazioni addotte.
“NDA, you don’t say!
You can’t, cause there’s an NDA!”
Non è la prima volta che The Good Fight introduce un segmento animato nelle sue puntate, se si ricorda il famoso “Nobody’s Above the Law” dedicato all’impeachment nella settima puntata della scorsa stagione. Qui, però, la serie decide di puntare ancora più in alto e lo fa con un vero e proprio format (“The Good Fight Short”) in cui non solo spiega tecnicamente cosa sia un NDA, ma invita lo spettatore a far caso a quanti documenti del genere compaiano nella puntata, finendo col fornire persino una soluzione nella ripresa finale della canzone.
È questo, insieme ad altri segmenti, a creare dei momenti di respiro e anche di comicità all’interno di puntate dal ritmo forsennato, in cui i temi trattati non sarebbero digeribili per un’ora di fila se non con degli stacchi tanto geniali quanto necessari, come appunto questo o anche la storyline dedicata a Maya e al suo “corso di formazione da badass” diretto da Marissa. Il fraintendimento generato dal suo problema all’occhio crea un vortice di attenzioni nei suoi confronti che paradossalmente la spinge ad interessarsi molto più di quanto avrebbe voluto alla sua presenza nel sito web dello studio; e la sua trasformazione quasi da super-eroina, che guadagna fiducia in se stessa solo grazie a un paio di occhiali da sole, può sembrare naïve (e anche già vista, se si pensa a Peggy Olsen in Mad Men) ma è al contempo ciò di cui una puntata del genere ha bisogno, in perfetto stile The Good Fight. Allo stesso modo si inseriscono i momenti dedicati a Lucca, che di certo avranno uno sviluppo più importante nei prossimi episodi, ma che cominciano a stendere un quadro stimolante del suo futuro nello studio.
“Who were you shooting with?”
“Eric Trump and Donald Jr.”
E poi c’è lei, la protagonista che apre la puntata dichiarando una felicità che sappiamo non durerà a lungo. Il sospetto del tradimento, in particolare con Holly Westfall, è sempre presente nella mente di Diane, ma dopo la rivelazione del nuovo ingaggio di Kurt (e la reazione, dolorosa ed esilarante, della donna che prende a testate il muro) la sensazione è che avrebbe preferito di gran lunga la presenza di un’altra donna a quella di Donald Jr. ed Eric Trump.
Nel corso di queste stagioni abbiamo visto Diane passare attraverso diversi stadi emotivi relativamente agli eventi della politica americana: l’abbiamo osservata nella sua incredulità, nella sua mancanza di accettazione, perfino nella negazione di chi cercava nel microdosing un modo per sfuggire alla follia del reale – un reale che con i King, come ben sappiamo, è sempre hic et nunc, sorprendentemente contemporaneo ad ogni singola puntata. Possiamo solo immaginare come quella felicità di nove mesi venga completamente spazzata via dall’idea che suo marito accetti un lavoro proprio per i figli di Trump, quegli stessi che riescono persino a colpirlo con un fucile e a fargli firmare un NDA immediato, che riesce (ancor più di quanto avesse fatto Holly) a porre un muro di incomunicabilità tra Diane e suo marito.
È per questo che tutto il vortice di emozioni provate negli ultimi due anni diventa quasi fisico (incarnato da un folle livido che prende le sembianze di Trump), proprio perché la politica si fa più personale di quanto non sia mai stata ed è lì che scatta qualcosa: prima l’intuizione, quella scappatoia nell’NDA di Tara cui però segue un rifiuto della donna, e infine la scelta di mettersi in prima linea. Diane, fuori di sé dalla rabbia ma forse mai così tanto lucida, decide di andare direttamente a mettere i bastoni tra le ruote del Presidente, scegliendo di divulgare una notizia che potrebbe togliergli persino l’appoggio della destra estrema.
Diane è sempre stata la voce dei King, il filtro con cui questi ultimi ci raccontano il loro modo di vedere l’America di questi anni: abbiamo seguito insieme a lei/loro ogni singolo momento della presa d’atto dello status quo e adesso, sembrano dirci, è arrivato il momento di agire; non coi fucili in mano, come forse Diane avrebbe fatto fino a qualche mese prima, ma usando tutti i mezzi possibili per combattere la propria giusta battaglia. La domanda è: fino a che punto si spingerà Diane? O meglio: fino a che punto i King spingeranno la loro protagonista, il loro alter ego?
The Good Fight è tornata con un episodio che non solo conferma il lavoro fatto fino ad ora, ma che dimostra come la serie abbia raggiunto una consapevolezza che – lungi dall’essere una auto-lode – si fa strumento per innalzare il dibattito sull’attualità portandolo su vette ancora più alte, in cui la messinscena di tutte le sfumature di un determinato argomento diventa stimolo per comprendere al meglio il nostro mondo e per spingerci a compiere scelte più mature e consapevoli. La versatilità della serie, in grado di passare da momenti drammatici ad altri di una comicità irresistibile, è diventata col tempo il suo marchio di fabbrica: ad oggi è impossibile pensare ad un panorama televisivo che non annoveri al suo interno una serie come The Good Fight.
Voto: 9
Solo i King nell’ultima decade hanno saputo narrarci il “cambiamento”, americano o mondiale. Senza pedanteria, ma trasformandolo in una storia dalle molteplici sfaccettature sempre estremamente stimolante. Con i suoi momenti da fumetto, talvolta personaggi (Elsabeth dove sei?), con un equilibrio che è già difficile da raggiungere figuriamoci tenerlo tanto a lungo. Recensione perfetta Federica, ça va sans dire.
Grazie mille! Ovviamente sono d’accordissimo: se già con The Good Wife i King erano riusciti a muoversi nelle maglie dell’attualità da un punto di vista legale – basta ricordare i loro casi sempre incentrati su tematiche di gran risalto in quei periodi, o quelli più tecnici/legati all’informatica/alla privacy e così via -, con The Good Fight siamo ad un livello ancora più alto. Il fatto che la realtà venga interpretata dai King praticamente in simultanea, con una manifestazione evidente del loro pensiero ma senza che questo diventi mai censorio nei confronti di altre posizioni, è una qualità davvero encomiabile del loro lavoro. E poi sì, c’è tutto il resto – come l’attenzione ai personaggi, che già era altissima nella serie madre, e che qui viene portata avanti davvero in modo lodevole – e questi continui cambi di registro che io personalmente adoro. Meno male che è tornata!
E invece quest’anno, dopo Buona Moglie e due stagioni di Guerra Giusta, non seguirò più i King (gli piacerebbe proprio regnare a questi eh!). La serie è un pedagogico e didascalico elenco di ciò chè “è giusto pensare” e ciò che non lo è, grazie ma i desiderata dei King non mi interessano e non ritengo meritino una intera serie. Peccato, avevano iniziato bene, ma la foga della Guerra Giusta ha trasformato la loro creatura TV in un pamphlet che mi interessa poco o nulla.