“Huginn e Muninn / volano ogni giorno / alti intorno alla terra. / Io ho timore per Huginn / che non ritorni; /ma ho ancora più timore per Muninn.”
Huginn e Muninn sono i due corvi di Odino nella mitologia norrena, i cui nomi significano rispettivamente ‘pensiero’ e ‘memoria’; nei sopracitati versi de l’Edda, Odino, sotto le mentite spoglie di Grimnir, narra le sue paure ad Agnarr, figlio del Re che teneva il dio sotto tortura e prigioniero. Questo timore riecheggia nell’Odino interpretato dal sempre impeccabile Ian McShane (Game of Thrones, Ray Donovan) e assurge ad una delle più importanti tematiche di questa nuova annata di American Gods, la dedica urban fantasy ai miti e alle leggende di tutto il mondo, vergata dalla feconda penna di Neil Gaiman, produttore esecutivo anche della seconda annata di questo discusso e criptico show, già rinnovato per una terza stagione.
La produzione si è rivelata particolarmente tortuosa: dapprima a causa di problemi con il budget e di aderenza al materiale d’origine, i due showrunner Michael Green e Bryan Fuller decisero di abbandonare la nave in circostanze mai davvero chiarite, neanche dalle parole dell’allora C.E.O. della Starz Chris Albrecht. Al loro posto, si inserì provvisoriamente Jesse Alexander, che già aveva collaborato alla prima stagione. Alexander si trova dunque l’onere di terminare un lavoro lasciato a metà, purché con l’aiuto dello stesso Neil Gaiman, a fare da spola fra la produzione di Good Omens e di American Gods. Come se non bastasse, si aggiungono al già difficile quadro le importanti defezioni di Kristin Chenoweth (Bojack Horseman) e di uno dei fiori all’occhiello dello show: Gillian Anderson (The X-Files).
Il secondo capitolo di American Gods si apre con la tanto attesa dieta degli dei nella House on the Rock, omonima dell’episodio, ma a causa dell’agguato di un sicario mandato da Mr. World, i piani di Wotan vengono ostacolati, la sua fiamma, Zorya, una delle tre sorelle Aurore guardiane delle stelle da orrori obliati, uccisa e Shadow catturato dai Nuovi Dei. Questa stagione non mostra la tanto attesa guerra, ma il lento reagire degli Antichi Dei per far fronte ad un colpo sferrato a tradimento, contro le leggi d’onore di cui sono custodi, e si opta per una maggiore aderenza allo spirito di cui lo show si fa portatore: un lungo intreccio di mitologia e storia, che scivola da un’Era degli Dei, passando per un’Era degli Eroi, fino ai giorni nostri. La verità più lampante riguardo ai nuovi episodi di American Gods è quanto l’aspetto tematico e simbolico sorpassi quello narrativo, nel tentativo di ritrarre meglio la mitopoiesi dell’opera su cui si basa il prodotto Starz e immergervi lo spettatore. Rimane incerto quanto il tono meditativo di questa annata sia dovuto alle difficoltà di produzione o sia voluto, considerato il passato di Fuller (Hannibal).
Nonostante aleggi il sentore che la narrazione si fermi sino ai limiti dello stagnamento, oltre il bisogno di una trama che proceda in maniera convenzionale vi è il tentativo di tratteggiare un mondo vivo, eterno, che palpita oltre il substrato di una comune storia. Si assiste come ad una lunga digressione, atta a compilare un esauriente compendio delle divinità e degli eventi che modellano e popolano questa peculiare realtà urban fantasy. Le puntate non si impegnano tanto nel raccontare, quanto nel ritrarre i personaggi, nel mostrare il loro passato e l’eredità di questo, sospendendo il rapporto con il presente, come se si volesse provare a raccogliere una propria Teogonia o una sorta di Edda che appartenga alle divinità della serie, ovviamente con le dovute proporzioni. Puntate come “Treasure of the Sun”, “Donar the Great”, “The Ways of the Dead” vanno in questa direzione, prendendosi il loro tempo nell’evitare una narrazione lineare, ma espandendosi nel ritrarre, anche in maniera esoterica, i percorsi intrapresi dagli dei e dai mortali fino a Cairo.
Questa scelta ha i suoi problemi: la seconda annata non è immediata quanto la prima, in cui si nascondeva una altrettanto fitta simbologia, ma questa fluiva in un racconto dalle dinamiche più distinguibili nel suo evolversi. Inoltre, il concentrarsi sulle tematiche e sul passato dei personaggi rischia di snaturare i rapporti tra gli stessi, lasciando che l’individualità dei disparati racconti annacqui le relazioni, come avviene per Mr.Wednesday e Shadow. Lo spettatore comprende meglio il significato del legame, ma è inevitabile che la rivelazione finale perda di potenza espressiva, perché oberata da quello che, clamorosamente, è uno dei punti forti dello show: un’estetica che comunica, che traccia un filo rosso tra serialità e mito. Perdono anche terreno e importanza personaggi più moderni come Laura Moon e Salim, relegati a spalle per i protagonisti, se non in pochi episodi nella prima metà della stagione per la revenant.
Ancora una volta, il rapporto fra dei e fedeli e ancora di più fra fede e fedeli è messo in risalto. Anansi – il dio ragno che prende il volto di Orlando Jones (Room 104) – abbraccia la causa del popolo che riconosce come suo, ma di cui non fa parte a causa della sua natura divina; i suoi discorsi, che auspicano una rivoluzione per gli uomini e le donne di colore, seguono i feroci proclami della sua prima apparizione nella serie e sono un modo per guadagnare fedeli che lo adorino. Ciò è chiaro quando ammonisce Mr.Ibis – o Thoth, dio egizio della sapienza e della scrittura, Demore Barnes (Hannibal, Hemlock Groove) – riguardo al seppellire i suoi credenti. Bilqis stessa – La Regina di Saba con il volto di Yetide Baka (Lost, This is us) – vive un’interessante nuova vita rispetto al romanzo e sperimenta vie alternative per ottenere fedeli, mischiando il sacro e il profano, mescendo il piacere con l’estasi religiosa di un sermone. La sua aspirazione diviene chiara in “Treasure of the Sun”, dove la Regina di Saba tiene il proprio sabba, con un’omelia tutta personale. È da considerare tuttavia che questa necessità di fedeli è vitale per gli dei, perché – come asserito sin dalla prima stagione – un dio, senza chi lo preghi, è dimenticato e quindi svanisce. Non è opportunismo il loro, ma un modo per tenere viva la propria memoria, per sopravvivere, in maniera feroce come Mr.Nancy o sottile come Bilqis.
Questo dilemma tocca in maniera peculiare Wednesday, che nella nuova stagione è impegnato con il problema di cui si accennava: la memoria e il terrore che essa cambi. Alla luce del suo passato e del suo presente, Odino, o Grimnir, è diviso tra ciò che ricorda di essere e i suoi scheletri nell’armadio; vuole essere definito dalla sua divinità, con cui saluta la crescita di Yggdrasil e la ritrovata lancia divina Gungnir, che è foriera di guerra, nelle leggende così come in American Gods. Purtroppo per Wotan, lo show stesso, soprattutto in “Moon Shadow”, ricorda che gli dei sono nati ad immagine e somiglianza dell’uomo, e la metà ‘umana’ di Wotan lo colpisce con la memoria seppellita di suo figlio: Donar, o Thor (interpretato da Derek Theler, Wayne), morto suicida per colpa del padre.
Odino sceglie accuratamente le sue memorie per creare una storia che gli appartenga, altro tema importante realizzato soprattutto nel personaggio di Mad Sweeney, il cui arco narrativo si chiude nella più bella puntata della stagione: “Treasure of the Sun”, dove Pablo Schreiber (Orange is the new Black, Weeds) offre un’ottima interpretazione.
La settima puntata del lotto affronta il passato del leprecauno, attraverso un excursus sulle sue presunte identità, ognuna slegata dall’altra, che comunica molto bene allo spettatore la confusione in cui Wotan l’ha gettato, per assicurarsi i suoi servigi. Mad Sweeney, attraverso le parole di Thoth – Mr.Ibis, ricorda di esser stato un Re: Suibhne mac Colmain, regnante pagano che combatteva la diffusione del cristianesimo nell’Ulster e maledetto da San Ronàn, secondo l’antico racconto irlandese Buile Shuibhne, che appunto significa “La pazzia di Sweeney”. Il racconto narrava dell’avanzare del cristianesimo nelle terre pagane, perpetrando anche nel passato lo scontro tra vecchi e nuovi dei, che da sempre ha trainato il racconto di American Gods. Ancora, Sweeney ricorda di essere stato Lúg, dio del sole, campione dei Túatha Dé Danann e aver sconfitto suo padre, Balòr, ma il capo mozzato del paterno nemico si muta in quello di Wednesday, gettando ancora di più in confusione Sweeney – nei ricordi in cui è lui il nuovo dio. Infine, l’irlandese sceglie la libertà sull’onore. La sua morte si carica di un significato in bilico tra passato epico e presente, imponendosi in una delle scene più forti della nuova stagione.
Più dietro le quinte, ma non meno d’impatto, è il viaggio iniziatico affrontato da Shadow verso la realizzazione finale delle sue origini. Per il protagonista è ricorrente l’essere imprigionato: dai Nuovi Dei, al servizio di Wednesday o nel finale di stagione appeso alle fronde dell’Yggdrasil, come nell’Edda era accaduto a suo padre in cerca di conoscenza – episodio citato nella serie da Odino stesso a Laura Moon. Shadow gioca il ruolo di elemento di raccordo fra come gli dei si mostrano e come gli dei sono ai giorni nostri; vive una continua iniziazione verso suo padre, Wotan, sin dal giorno in cui è nato. La sua connessione al divino genitore si rivela graduale nei flashback riguardo la sua giovinezza ed è immediato il paragone con Mad Sweeney e Salim, nella loro dipendenza dagli dei o demoni che scelgono di seguire e nel loro modo di esservi devoti: tramite l’amore, tramite l’asservimento onorevole. Shadow costruisce la sua fedeltà verso Odino in una strana commistione tra fede, affetto e dipendenza, dimostrata nel suo discorso alla Sala degli Dei nel primo episodio, dove parla a favore della guerra non perché crede in essa, ma per servire Wotan, così come non uccide Sweeney in preda alla violenza, ma per difendere il suddetto. “Donar the Great” è un episodio che da un lato lo lega di più al padre, dall’altro serve da monito riguardo ai rischi dell’essere manipolati da lui.
Più complessa è invece la questione riguardo alle sue origini nell’episodio “The Ways of the Dead”. In “The Beguiling Man”, la tortura degli accoliti dei Nuovi Dei costringe Shadow a fare i conti con il proprio passato e le sue ombre, ma, nel quinto episodio, il confronto con William “Froggy” Jones (calco di William “Froggy” James, vittima dell’odio razziale, linciata nel 1909) lo mette al cospetto della sua identità. La scena in cui Shadow si ritrova dinnanzi al capo mozzato e in preda alle fiamme di Jones colpisce non solo nell’estetica quasi dantesca, ma per ciò che significa: l’essere un momento completamente slegato da ogni mitologia preesistente, come a volerne costruire una nuova, di cui Shadow dovrebbe essere il profeta. In tal senso, la fine dell’episodio è emblematica nel breve discorso del funerale, consegnato da un’altra ottima interpretazione, quella di Ricky Whittle.
Un discorso a parte meritano i Nuovi Dei, che hanno dato prova di non essere solo semplici antagonisti, pur incidendo attivaemente nell’andamento del racconto solo all’inizio e alla fine della stagione. I monologhi di Mr.World reggono per gran parte il muoversi delle divinità tecnologiche nelle ombre; monologhi che sembrano rompere la quarta parete, grazie all’abilità di Crispin Glover. Il discorso riguardo la paura in “Moon Shadow” parla alla nostra realtà, si collega all’azione di Media sul mondo, così come le sue parole sono una cernita di un altro importante tassello che lo show ha presentato con i suoi personaggi: il pensiero che si fa realtà, come è avvenuto per tutti i personaggi finora menzionati – la quasi ossessiva ricerca di Mr.Iblis per la narrazione, di Odino e Sweeney della memoria, di Shadow della sua identità, ma anche in Laura nel suo tentativo di riallacciare i rapporti con il protagonista. I Nuovi Dei si ammantano quindi ancor più di mistero, forieri di tutto ciò che è novità, ma pronti a scendere in guerra con una mentalità così caotica da sembrare quasi primordiale. Un esempio su tutti: dopo la rinascita nell’ottavo episodio, il primo gesto di Technoboy è di entrare nel database delle banche e corromperle, come una calamità, una forza della natura, ma nel mondo digitale.
American Gods potrebbe essere visto come un’occasione sprecata, una parabola di dei e uomini simili fra loro, che si è forse troppo impegnato nel mostrare, a discapito del raccontare. A ben vedere, secondo chi scrive, c’è di più in questa seconda stagione: il tentativo di immergere lo spettatore in una realtà sotto la realtà, nel far vivere la Götterdämmerung in un contesto contemporaneo, ma con un substrato tematico legato tanto alla serialità quanto al mito. Questa è stata un’opportunità colta.
Voto: 8