
La quarta stagione della serie, che vede nel suo gruppo di produzione anche le attrici protagoniste Jennifer Aniston e Reese Witherspoon, inizia, come già accaduto in passato, con un salto temporale di ben due anni, che ci porta all’aprile del 2024. Questo stratagemma, oltre a riallineare quasi del tutto la timeline della serie con la realtà, sopperisce in parte a quella mancanza di “senso di attesa” di cui sopra, perché tutte le situazioni lasciate in sospeso con lo scorso finale di stagione si ritrovano di fatto già ampiamente superate in questa “My Roman Empire”. La fusione dei network, la cacciata di Paul Marks e di Cory, la confessione di Bradley all’FBI, sono tutti eventi vivi e al contempo lontani anni luce da noi, grazie a quell’effetto distorsivo che, di questi tempi, rende certi fatti costantemente attuali e altri dimenticati (e dimenticabili) in un battito di ciglia.

L’esigenza di mostrare le conseguenze di quanto accaduto, di far capire implicitamente cosa è successo negli ultimi due anni e di lanciare i nuovi temi della stagione non ha favorito questa prima puntata: ne è risultato un episodio che allo stesso tempo sembra troppo pieno e troppo vuoto, che passa in modo frenetico da una storyline all’altra, da un personaggio all’altro, e che nel tentativo di fare tutto questo arriva alla fine lasciando al pubblico la sensazione di non aver capito poi molto degli obiettivi di questa annata. Se, ad esempio, l’introduzione del tema dell’intelligenza artificiale usata per le Olimpiadi riesce nell’intento di mostrarsi già con i suoi pro e contro, la storyline di Alex e di Roya, la schermitrice iraniana che insieme al padre richiede asilo politico, ne esce troppo affrettata, come se si fosse sentita la necessità di infilare a forza un momento adrenalinico nel primo episodio della stagione.

Questa è purtroppo la sensazione che si ha davanti a questa storyline, in cui in sole due puntate si passa dall’intervista (organizzata nei due anni precedenti) alla richiesta di asilo, dalla fuga di Roya e di suo padre per intercessione di Alex al loro blocco, dal deepfake davanti al quale nessuno alla UBN sembra credere ad Alex – tanto da portarla a rivolgersi perfino a suo padre (interpretato da Jeremy Irons) e al podcaster Brodie – fino alla risoluzione del caso, con la conferma della manipolazione del file e una bella intervista ad Alex che parla dei pericoli di questa nuova tecnica per falsare la realtà.
Sarebbe troppo persino per due puntate più bilanciate e il problema più grave è che non lo sono: in questo modo, non c’è stato neanche il tempo di costruire un’adeguata tensione che potesse poi condurre a un soddisfacente sollievo. Si percepisce troppo la mano della scrittura, che evidentemente voleva introdurre un tema, il deepfake, che insieme agli altri già menzionati sarà portante nella stagione: vedere il meccanismo fa perdere fluidità alle storie, e questo non è mai un buon segno.

Se nel caso di Alex nel corso degli anni abbiamo assistito a una più che necessaria crescita del personaggio, il comportamento di Bradley in questo inizio di stagione la riporta indietro di anni, all’impulsività che la caratterizzava nella prima annata e che, dopo tutto quello che è accaduto, non è giustificabile come semplice “istinto giornalistico-investigativo” che la spinge ad andare contro ogni regola. Per quanto lodevole sia la causa, non si può ignorare il fatto che Bradley venga messa in guardia dall’FBI circa il suo ritorno alla UBN: la rapidità con cui passa dal rifiuto della proposta di Mia all’accettarla, sommata al rientro che in una manciata di giorni vede anche il coinvolgimento di Chip, sarebbe già sufficiente a far storcere il naso. Se si considera poi che tutto questo viene fatto sulla base di informazioni di dubbia provenienza, si ha l’impressione che il personaggio di Bradley non abbia imparato nulla dalle sue esperienze precedenti. Ci si poteva aspettare questo tipo di impulsività e di scarsa valutazione del rischio durante la prima stagione, non alla quarta e dopo aver già rischiato di essere arrestata per ostruzione alle indagini su uno dei casi statunitensi più importanti degli ultimi anni.

Molto accade in queste due puntate, e i temi che traspaiono da questo nuovo inizio sono di certo più che attuali e degni di attenzione: la sensazione però è che le basi su cui si dovrebbe appoggiare la stagione siano state subordinate all’obiettivo, con risultati sbilanciati che in alcuni casi tradiscono i personaggi, in altri la buona scrittura. “My Roman Empire” è una prima puntata che probabilmente non doveva andare in onda da sola: se si fosse pensato a una doppia premiere, facendo uscire subito anche “The Revolution Will Be Televised”, forse l’equilibrio narrativo sarebbe stato migliore, e almeno su questo versante si sarebbe risolto qualche problema.
Si conferma ad ogni modo la sensazione che andare in onda con stagioni così distanti, con salti temporali così impegnativi e (anche legittimi) cambi totali di temi, non agevoli un racconto che poi ha comunque solo dieci episodi per svilupparsi. La fretta non è mai una buona consigliera, e questo purtroppo non può che riversarsi su personaggi e scrittura. La speranza, data l’importanza dei temi finora esposti, è che si riesca a ritrovare un equilibrio già dal prossimo episodio, che di certo non cancellerà gli errori di queste due puntate, ma che perlomeno potrà riportare in carreggiata una storia corale che ha già le sue difficoltà interne, e che non ha bisogno di altri ostacoli da superare, a maggior ragione se autoimposti.
Voto 4×01: 6
Voto 4×02: 6½

Il finale del secondo episodio abbassa il voto al di sotto della sufficienza, una trovata di scrittura pessima amplificata pure dalla regia col primo piano dell’attore di punta della serie…come se aspettassimo solo di rivedere i nostri beniamini al centro della scena, mah, attenzione a non sottovalutare il pubblico! questa è una serie per la quale i contenuti sono essenziali, vitali, a differenza di altre nelle quali il lavoro degli attori o della regia riescono a compensare le lacune narrative…serie avvisata mezza salvata 😉