AppleTV+ è caduto sulle teste degli appassionati di serie tv il primo novembre e sin da allora ha fatto parlare di sé con in suoi prodotti originali: dal distopico See con Jason Momoa al divertente Dickinson, per non parlare di The Morning Show che si è rivelata una delle migliori serie di quest’anno. Insomma, i dirigenti della nuova piattaforma hanno fatto bene i loro compiti e l’impatto con il mondo dello streaming è stato positivo anche dopo il lancio di Disney+. In tutto questo, che ruolo ha For All Mankind?
Prima di parlare dello show creato, tra gli altri, da Ronald D.Moore bisogna sottolineare ancora un paio di pregi di AppleTV+, direttamente collegati al discorso successivo. Intanto, non è scontato poter dire che la scelta impopolare di distribuire un episodio a settimana si è rivelata in realtà vincente. Se, infatti, il prolungarsi della visione settimana dopo settimana permette agli show di rimanere nelle discussioni di pubblico e critica più a lungo, favorendone anche la diffusione, è altresì piacevole osservare come il metodo di fruizione più vicino all’idea tradizionale di televisione sia salutare anche per la tenuta qualitativa degli show. Questi possono sfruttare al massimo il proprio potenziale “seriale” – quello che si fonda sugli strumenti più utilizzati dal medium, come i cliffhanger, gli episodi autoconclusivi o tematici ecc. – al fine di evitare la sensazione di 10-hours-movie, uno dei più grandi vizi delle produzioni contemporanee. Per finire questa breve digressione, è da segnalare come Apple goda del privilegio di non dovere per forza sacrificare il proprio palinsesto sull’altare del grande pubblico: la piattaforma è, infatti, un plus che deriva dall’acquistare i dispositivi della mela più famosa del mondo e non basa il suo successo sul numero di abbonati – come invece fa Netflix, che a volte in virtù di questa logica taglia i propri prodotti su misura per un determinato settore di pubblico.
Torniamo quindi al discorso specifico su For All Mankind cercando di capire gli obiettivi che si era prefissata e il suo esito al netto della prima stagione da poco conclusa. Lo show alla sua partenza aveva lasciato tutti un po’ tiepidi, tra chi si aspettava un impatto maggiore di questa grandiosa ucronia – l’URSS che anticipa gli Stati Uniti nel piantare la propria bandiera sulla Luna, minando alla base il mito della grande America e gettando in crisi i piani della NASA costretta a prolungare la corsa allo spazio nel tentativo di rincorrere i progressi tecnologici dell’altra superpotenza – e chi pensava si sarebbe trattato di un grande dramma storico ambientato in un mondo dove il comunismo sarebbe diventato tanto influente da modificare radicalmente la vita dell’umanità. Inaspettatamente lo show è stato una cosa piuttosto diversa, sebbene questi elementi appena descritti siano in parte riscontrabili: l’ucronia, nonostante i timori iniziali, regge e risulta abbastanza credibile nelle su conseguenze – la paranoia, le pressioni politiche, i numerosi errori dovuti alla fretta nel raggiungere obiettivi impegnativi – ma a rendere davvero unica la serie è la scelta di aver mostrato, con supposizioni che risultano piuttosto logiche a conti fatti, come un turning point nella Storia avrebbe potuto avere un impatto importante sulla rivendicazione di diritti sociali, in particolare i diritti delle donne ad essere riconosciute alla pari degli uomini, nelle gerarchie della NASA come in tutti gli ambienti della società.
A partire dal terzo episodio, infatti, il discorso sul ruolo delle donne nella grande Storia dell’umanità si fa preponderante e investe ogni ambito presentato dalla serie: dalla politica al differente trattamento sul luogo di lavoro, sino all’opinione pubblica che si rivela sempre più indulgente con gli errori degli astronauti maschi piuttosto che di quelli delle loro colleghe, anche quando si dimostrano più eroiche o il loro contributo risulta fondamentale per la riuscita della missione. Un tema che non riguarda, però, solo gli astronauti, ma anche i ruoli di comando: Margo – interpretata da Wrenn Schmidt – per esempio fa fatica a imporre la sua autorità in sala comando e far accettare le sue scelte impopolari, anche quando sono frutto di un calcolo costi/benefici perfettamente logico. For All Mankind, insieme a Dickinson e The Morning Show, mostrano come la piattaforma del colosso della tecnologia abbia ben compreso le istanze più urgenti del mondo contemporaneo e le voglia raccontare da diversi punti di vista; ovviamente, quello più importante e attuale è quello che riguarda la condizione femminile nel passato, nel presente e nel futuro.
Ma For All Mankind non è una serie militante in senso stretto; questi temi sono sviluppati pari passo ad una trama che si dipana lungo i molti fallimenti e i pochi successi di una corsa allo spazio che si prolunga ben oltre il limite. Quella che la serie presenta è una NASA ben lontana dall’essere l’agenzia spaziale infallibile che il mito ha consegnato a noi che viviamo nel millennio successivo: il dover inseguire e cercare di superare i grandi successi sovietici porta a gravi incidenti uno dietro l’altro che costano la vita di astronauti e tecnici. Quello che lo show riesce a trasmettere molto bene è l’ansia di risultati e la necessità di ottenere una vittoria che è prima di tutto propagandistica e politica prima che tecnologica; non è il progresso della scienza e della tecnica che conta ma solo dimostrare la potenza della nazione e la superiorità degli americani – intesi come individui, come popolo – sui sovietici. Una logica sovranista che viene intelligentemente messa in crisi dall’incontro tra Ed Baldwin (Joel Kinnaman) e Mikhail sulla Luna che nonostante l’attrito iniziale sfocia in un riconoscimento reciproco e nella solidarietà.
La serie costruisce molto sul lato della tensione, mantenendo un ritmo tutto sommato sostenuto che riesce a catturare l’attenzione dello spettatore, con il ruolo importante dell’imprevedibilità derivata dalle insidie dello spazio. I difetti più evidenti, tuttavia, sono quelli che affliggono la maggior parte dei prestige drama contemporanei: dilatazione ingiustificata dei tempi narrativi, alcune storyline riempitive o marginali rispetto alla narrazione principale – in questo caso quella legata ad Aleida – e alcune semplificazioni di trama che stonano con la cura dei dettagli posta nel cercare di mostrare in modo più fedele possibile l’enormità di variabili da considerare quando si intraprendono missioni nello spazio.
In definitiva For All Mankind non ha deluso le aspettative, soprattutto dopo un inizio non esaltante; è un prodotto che attira certamente gli appassionati di missioni spaziali senza deluderli, ma che allarga il suo raggio d’azione abbracciando tematiche di più ampio respiro, scegliendo di parlare dei problemi della contemporaneità attraverso degli anni ’60 alternativi. La sovrastruttura tipicamente da dramma storico e i suoi episodi molto lunghi possono non essere per tutti, ma è indubbio che nel palinsesto Apple lo show ha saputo farsi notare e il fatto che sia già stato rinnovato per una seconda stagione è un valore aggiunto.
Voto: 7+