Mad Men è forse la serie, attualmente ancora in onda, che più di tutte riempie le pagine culturali contemporanee quando si affronta lo spinoso problema della quality TV. Pur facendo un quinto degli ascolti di The Walking Dead, continua ad essere il marchio di fabbrica della fortunatissima AMC, che può vantare anche i natali dell’altra grande serie degli ultimi anni, Breaking Bad.
Tutto questo preambolo serve per dire una cosa ben precisa: un episodio come The Monolith rende oltremodo inequivocabile la frase iniziale e ribadisce perché il prodotto di Weimar sia prima di tutto un oggetto artistico.
Why not let every client who sets foot in that door know that this agency has entered the future?
1969. Il Don Draper che chiudeva lo scorso episodio con l’inaspettato “Ok” alle nuove condizioni contrattuali sale ora, come ha fatto mille e mille volte prima, l’ascensore che lo porta in ufficio. Sin dagli esordi, e come ricorda l’ambiguità stessa del nome della serie, Mad Men nasce come il racconto di una categoria lavorativa nuova e fortemente all’avanguardia nei primissimi anni ’60. I pubblicitari, gli uomini di Madison Avenue, sono anche (se non soprattutto) gli uomini creativi, diversi e folli, il cui lavoro consiste principalmente nel creare e crearsi una fitta rete di conoscenze puntando prima al soddisfacimento del cliente, quello di primo grado per l’agenzia, e poi diretto alla massa indistinta dei cittadini/consumatori.
La cornice iniziale con Pete protagonista non è che l’aggancio al racconto: cos’è un pubblicitario se non chi si trova nel posto giusto al momento giusto a parlare con le persone giuste? L’acquisizione di Burger Chef arriva così tra vecchie ferite e rancori, riportando a galla la meno luminosa vita sulla west coast di Pete Campbell e a ricordare che il passato non si cancella mai definitivamente. Non esiste un archivio segreto e dimenticabile dove accumulare tutto quello che si è vissuto fino ad oggi: molte volte alcuni elementi tornano nel presente e spesso possono rivelarsi come le cariche che spingono verso il futuro. Ed è questa doppia carica tra passato e avvenire che chiude in una morsa unica la SC&P con tutti i suoi attanti dentro, e primo fra tutti Don Draper. Per ben tre volte lungo l’arco dell’episodio vediamo Don uscire dallo stesso ascensore. La prima volta si apre su una porta nera posta proprio di fronte a lui, inquadrata singolarmente e con chiaro riferimento al monolite, il simbolo-feticcio del film di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio, che presta anche il titolo all’episodio. Cos’è il monolite? Cosa rappresenta? Entrando in un ufficio all’apparenza vuoto, Don scopre che c’è un cambiamento in atto: l’istallazione del primo computer, l’IBM 360. Culter e Crane, con tanto di elmetti da pioniere, annunciano a gran voce la svolta epocale: la lunchroom, luogo creativo e ri-creativo per eccellenza, deve lasciare il posto alla più avanzata tecnologia. La macchina che sostituisce l’uomo è il tema principale dell’episodio, che prende in prestito immagini e riferimenti al film culto di Kubrick (uscito nelle sale esattamente nel 1968) per costruire il proprio racconto.
That computer is the “Mona Lisa”.
Metthew Weiner ha fatto dell’intertestualità, dello scambio reciproco tra Storia, cultura e ricostruzione sociologica, la cifra stilistica del suo prodotto. Ma ciò che contraddistingue Mad Men, e che certifica quanto detto all’inizio, è la costante e completa rielaborazione di ogni riferimento esterno all’interno dell’episodio, lasciando che metafore o agganci empirici non siano che un trampolino, una molla cui attingere per essere poi rielaborati e piegati alle esigenze della narrazione. Allo stesso modo accade in questo caso specifico: anche non conoscendo il film o senza intuire le implicite citazioni, non si toglie nulla al valore del racconto. La resistenza dei creativi al computer come loro equivalente e sostituto rende perfettamente l’aria di scetticismo che doveva ammantare la macchina ai suoi esordi; la sentita minaccia di una profezia che, con il senno di poi, sarà solo una parte della realtà. Come dice esattamente, ma stranamente, Lou: “Trust me, you’re going to use that computer more than you use that lounge” – che, tra tutti, dovrebbe rappresentare la parte reazionaria dell’agenzia. Ciò che risulta difficile da comprendere e che sfugge anche a Lloyd Hawley, il tecnico supervisore dei lavori, è che non ci potrà mai essere la completa sovrapposizione tra l’uomo e la macchina, ma il futuro sarà la loro co-dipendenza. In questo senso avanza infatti la conoscenza tra l’uomo del futuro, Lloyd, e Don: il computer che è frightening to people è prima di tutto frutto del lavoro umano; così com’è l’uomo ad inserire i dati potenzialmente infiniti che questo oggetto può contenere. Allo stesso modo, la finitudine dell’uomo e la sopravvivenza della macchina è un’utopia, tant’è che Lloyd chiederà a Don cosa sia la pubblicità, a cosa e se serve: al di là del prodotto, ci sarà sempre bisogno del lavoro della mente umana come fonte primigenia ed insostituibile, che funziona, esiste e persiste anche quando un computer diventa obsoleto. Ma ciò che questo simboleggia va ben oltre le sue funzioni, rappresenta cioè la possibilità di rendere infinito l’uomo, che può sfidare i suoi limiti e cercare di andare sempre più in là – come l’uomo che qualche mese dopo farà i suoi primi passi sulla luna (verso l’infinito e oltre, no?).
I’m really happy here, daddy.
A controbilanciare gli eventi interni all’agenzia, ci viene restituito uno sguardo sul mondo esterno mutuando gli scossoni della dissestata famiglia Sterling e affini. Margaret scappa dalla civiltà, si lascia Manhattan e le sue definizioni sociali indietro, voltando le spalle a figlio e marito. Se da un lato il mondo, ormai capitalista, liquido, postmoderno, diventa sempre più complesso, stratificato, borghese, bisognoso di collocare e confinare ciascuno in un ruolo, ecco che una falange, anzi i figli ribelli del movimento sessantottino, rescinde il nodo ombelicale con il vecchio riscatto sociale dei padri. Questi vengono additati come i fondatori della corsa all’arricchimento e quindi rigettati, disconosciuti e solo apparentemente perdonati dalla seconda generazione, che si scrolla di dosso le convenzioni costruite in decenni per liberarsi dalle costrizioni classiste. L’unanimità, la libertà di decisione ed azione, il muoversi secondo le regole della natura, sono i soli principi che riconoscono, tentando di appiattire la struttura piramidale del mondo – There’s no hierarchy, man.
Per quanto romantica e affascinante possa essere questa piccola società fuori dalla società, che si rifugia in un limbo di perfetta armonia, rivela subito le proprie debolezze e debiti verso le abiure di cui si riempie la bocca: Margaret rinfaccia ad entrambi i genitori le innumerevoli mancanze, le bugie, il cattivo gusto per le apparenze, le loro ipocrisie. Ma a guardare più a fondo sono gli stessi peccati di cui lei stessa si sta macchiando verso suo figlio. Mona e Roger, pur nei loro difetti, nelle loro idee retrograde e finte, sono sempre stati al suo fianco; magari male, magari come non avrebbe voluto, ma sono stati genitori fino all’ultimo momento – anche in mezzo al fango dei loro rimorsi e rimpianti.
All’interno dell’ufficio, anche Don tenta la sua fuga dalla realtà e nel luogo che gli è più congeniale: nel fondo della bottiglia. Circondato dagli elementi mortiferi lasciati da Lane, quella stanza diventa il sarcofago, la tomba del vecchio Don che rimane lì, fermo ed immobile per settimane; colui che ancora non mette alla prova se stesso, punito con la semplice esclusione dai giochi dei grandi. La molla che cambia tutto sarà la nomina di Peggy come capo team per Burger Chef. Nel rifiuto di Don a lavorare c’è tutto il peso del suo passato, delle scelte erronee che lo hanno portato dal lato dell’ufficio sbagliato: non è lui a dare ordini davanti alla scrivania, ma Peggy. In realtà i due sono costretti ormai da molto tempo nella loro staticità, condividendo la stessa paura del passo successivo, la paura di deludere o sbagliare di nuovo qualcosa. Entrambi sono confinati nel rancore e nell’amarezza verso la loro vita compiuta solo a metà – tanto che non riescono che a sentire disagio l’uno nei confronti dell’altra.
Do the work, Don.
L’ultima volta che Don esce dall’ascensore, dopo i postumi per l’ubriacatura del giorno prima (aiutato immancabilmente dal suo alter ego Freddy), vede come prima cosa il famoso computer entrare in ufficio; allo stesso modo, Penny guarda il medesimo oggetto prendere possesso della lunchroom. Il tempo dell’evasione è finito; il tempo dei rifiuti, dei solitari e de Il lamento di Portnoy (il bellissimo romanzo di Philippe Roth che legge Don in ufficio) deve lasciare posto al lavoro, alla mente, alla creazione, perché è l’unica vera ed allettante scommessa che si può fare sul futuro – per non essere, appunto, divorati dalle macchine. Prima che esistessero gli astronauti, Jules Verne aveva immaginato l’uomo andare sulla luna: non è l’avveramento di una profezia, ma l’ennesima e fondamentale metafora che rimette di nuovo (e per sempre) l’uomo, i suoi desideri, la sua forza creativa alle origini del mondo. Cosa scopre l’uomo alla fine del suo viaggio verso il futuro? Solo che la fine è inconoscibile: ciò che è immutabile ed irrinunciabile è solo la sua mente ed è la sete di scoperte, di riscatto, di nuove esperienze a mantenerlo vivo.
The Monolith non fa sicuramente avanzare la trama orizzontale (ma siamo sicuri che in Mad Men ce ne sia davvero una?) e si concentra quasi esclusivamente su Don Draper, lasciandoci però un pezzo totalmente descrittivo, sull’uomo e sul suo controverso rapporto con passato e futuro, di rara bellezza.
Voto: 9
Ho veramente poco da aggiungere: episodio stupendo (e girato divinamente), analisi perfetta. La stagione è partita con un Don Draper che non era nella forma migliore, ma neanche in uno stato particolarmente devastato (si pensi alla prima, bellissima metà della quarta stagione), mentre ora lo stanno distruggendo pezzo per pezzo. L’alcolismo, la perdita del potere, l’avvento del futuro: la discesa è cominciata. Non vedo l’ora di godermi il resto.
Non sono d’accordo sul fatto che questa sia la discesa di Don. La discesa c’è stata fino alla scorsa stagione, questa è finalmente la risalita che però – come la vita insegna – non è mai facile, né esente da dolore (che anzi, in guarigione a volte è più doloroso che in malattia). Non si migliora quando si decide di cambiare vita, ma ci si prova e si riprova e le cadute sono solo parte del processo di guarigione. Lo si vede alla fine, quando torna in ufficio e si rimette a lavoro: ha subito una battuta d’arresto, ma anche questa sarà essenziale alla sua rinascita. Non è detto per questo che finirà bene per lui, ma di sicuro Don/Dick finirà il suo percorso come persona decisamente più risolta di quello che era all’inizio.
Infatti credo che avesse centrato il punto Francesca nella recensione alla puntata precedente! C’è un sottotesto purgatoriale in questa prima parte di stagione: la rabbia per la sua recessione lavorativa che trova sfogo nell’alcool ha tutto l’aspetto di una ricaduta ma a cui è subito seguita un’ammissione (implicita) di colpa e la conseguente voglia di riscatto – appunto vista con la scena finale.
Ok, mi è partito il commento senza aver terminato il concetto. Volevo solo aggiungere che questo sottotesto non è solo di Don ma coinvolge tutti i personaggi. Dopo anni di de-costruzione e involuzione personale, mi sembra che si stiano gettando le basi, e prendo in prestito le parole di fede, per la rinascita soprattutto personale e poi anche dell’agenzia. Anche roger che si riconosce in un ruolo “responsabile” mi sembra avere la stessa valenza.
La mia visione di Don – che poi sì, si riflette anche sull’agenzia come giustamente noti tu, anche se secondo me il discorso è un po’ a parte proprio perché Don ha una natura a-temporale a contraddistinguerlo, tutta sua, mentre l’agenzia la vedo più come figlia del suo tempo – è un discorso che ormai parte dalla quinta stagione e che secondo me stanno portando avanti con una coerenza e un’adesione al reale davvero impressionante.
Con la quinta ci ho visto il tentativo a tutti i costi di rimettere in piedi la sua vita (sposando Megan) ma fingendo ancora di essere qualcuno che non era, e infatti per tutta la stagione finge una felicità che in realtà non esiste e al risveglio della quale si sente ancora peggio.
Comincia a ricadere (con la sesta) ma questa volta in modo diverso, lentamente più consapevole (e infatti è la stagione dei flashback) ma rapidissimo verso lo schianto, da cui – come dicevo nella recensione dello scorso finale – si risolleva all’ultimo, scegliendo la rivelazione (allo studio, ai figli) per non morire sotto quel peso divenuto ormai insopportabile.
Se l’avessero mostrato risolto in questa stagione sarebbe stato un grandissimo errore: a parer mio la premiere di quest’anno ha dimostrato, come una dichiarazione d’intenti, quale sarà il percorso prossimo: un continuo “è e non è”, un incessante movimento tra due poli opposti, tra saggezza (l’ok dello scorso episodio, l’accettazione di ripartire da zero proprio in quell’agenzia) e nuova autodistruzione – che però se ci si pensa è inevitabile, l’umiliazione di essere alle dipendenze di quella che è arrivata lì come sua segretaria per uno come Don rischia di essere impossibile da sopportare. Per fortuna c’è Freddy, che può parlargli di autodistruzione non come se fosse una intervention esterna, ma come qualcosa che lui ha vissuto sul serio. E’ l’uomo dall’altra parte, quello che ha passato il fiume e gli indica i sassi su cui saltare e quali invece evitare, un ruolo da grillo parlante ma meno petulante XD che forse può aiutare Don come nessun altro. Io ho estrema fiducia nel percorso, ma ripeto, la caduta è indispensabile nel processo di guarigione.
Mad Men è un trattato di psicologia, non c’è niente da fare.
Non so, è vero che lui sta cercando di risalire e migliorare, ma la sensazione che ho avuto è che questo processo non avrà esiti molto positivi. Forse hai ragione, discesa non è proprio il termine adatto, però ho paura che per Don Draper sia ormai troppo tardi, che il futuro stia arrivando (o sia già arrivato, come in questo episodio) quando lui è ancora troppo impegnato a combattere col passato. Ha già provato a mettere a posto la propria vita a partire da “The Suitcase”, ma il suo tentativo si è dimostrato fallimentare: poi ripeto, la mia è solo una sensazione, ma questo (non mi stancherò mai di dirlo, bellissimo) episodio non mi ha dato grandi speranze per il suo futuro.