Special – Ma cosa vuol dire davvero essere “speciali”?


Special - Ma cosa vuol dire davvero essere "speciali"?Pensate di avere tra i venti e i trent’anni, di vivere ancora a casa con vostra madre, di dover ancora trovare la vostra strada lavorativa e di dover in qualche modo reinventare voi stessi decostruendo tutte le certezze che avete avuto fino a quel momento, rompendo tutti i muri costruiti intorno a voi per poter finalmente provare anche solo ad avvicinarvi alla versione di voi stessi che vorreste essere.
Ora immaginate tutto questo, ma aggiungete al quadro quello di essere un ragazzo gay affetto da paralisi cerebrale sin dalla nascita.

È da queste basi che nasce il libro I’m Special: And Other Lies We Tell Ourselves, memoir-manifesto dell’autore e attore comico Ryan O’Connell, che a sua volta ha dato origine a questa brevissima comedy di Netflix, resa possibile dalla casa di produzione “That’s Wonderful” di Jim Parsons (The Big Bang Theory) e del marito Todd Spiewak, scritta e interpretata proprio da Ryan: 8 episodi da 15 minuti (scritti da O’Connell e diretti da Anna Dokoza) che, a dispetto della durata, riescono in maniera sorprendentemente accurata a farci entrare nella prospettiva sopra descritta, nota a tutti e al contempo completamente diversa per chi non abbia a che fare con una disabilità invalidante come quella di Ryan.
Proprio per la sua breve durata, è cruciale che la storia venga raccontata a partire da un momento di rottura nella vita del protagonista, che fino a quel momento ha vissuto un’esistenza fatta di vita a stretto contatto con la madre, scarsissimi legami con l’esterno, tonnellate di fisioterapia, omosessualità vagheggiata ma mai presa realmente in considerazione (“A chi potrebbe piacere questo corpo?” si chiede Ryan) e necessità di sostegno anche nelle attività più semplici.
La rottura arriva nel momento in cui, per una serie di coincidenze, Ryan ottiene uno stage come redattore per un blog e al contempo subisce un incidente stradale di lieve entità, ma che gli consentirà a causa di un equivoco di presentarsi a delle nuove persone costruendosi un’identità totalmente nuova: non più quella vera e che per anni l’ha bloccato nell’immagine di “quello con la paralisi cerebrale”, ma quella di persona normale a cui è accaduta una cosa normale come un incidente (che  dunque può succedere proprio a chiunque) e che gli ha lasciato delle conseguenze visibili.

Special - Ma cosa vuol dire davvero essere "speciali"?Come può un incidente che reca con sé una disabilità potenzialmente permanente essere migliore di una paralisi cerebrale che c’è sempre stata? È un concetto difficile da spiegare a chi non abbia una disabilità priva di cura ed è proprio per questo che Special non si sforza più di tanto di provare a spiegarlo: seguendo il più classico degli “show, don’t tell”, la serie ci mostra un ragazzo che, tra l’imbarazzo e l’eccitazione data dalle novità, si butta in situazioni e assume comportamenti che – lo capiamo anche senza averlo visto in precedenza – non hanno nulla a che spartire con la vita che ha vissuto fino a quel momento. Usando il forse abusato cliché della collega che diventa subito un’amica fidata – ma anche su questo ci sono delle interessanti sfumature che la rendono decisamente più originale –, osserviamo Ryan muoversi in un mondo nuovo e al contempo vediamo anche lo stesso mondo in cui Ryan si è mosso fino a quel momento ma con occhi diversi: gli occhi di chi, spogliatosi di un mantello vecchio e polveroso che comportava meccanismi di azione-reazione ormai logori e stantii, finalmente decide di provare nuove esperienze, come se vivesse la vita di qualcun altro – la vita di chi ha solo avuto un incidente stradale. Ecco che quindi, sotto la superficie, si palesa il vero, altro motivo per cui la “storia dell’incidente” è più facile da raccontare: perché è più facile per gli altri identificarcisi, è più “semplice” da concepire mentalmente, e di conseguenza rende le stesse relazioni con la persona in oggetto più facili da gestire. Insomma, lo stratagemma dell’incidente, seppur nato da un equivoco, interrompe quel circolo vizioso in cui Ryan è bloccato – le persone non sanno come relazionarsi con lui, di conseguenza lui si chiude perché sa che la sua disabilità crea disagio – e gli consente di provare a comportarsi come avrebbe sempre voluto, pur con qualche esitazione.

Special - Ma cosa vuol dire davvero essere "speciali"?Come si diceva, il formato è molto breve e questa poteva essere un’arma a doppio taglio: l’evoluzione di Ryan sarebbe potuta risultare infatti troppo rapida, le sue reazioni e le sue scelte troppo “innaturali”. E invece la formula è risultata perfettamente adatta, non solo perché si è deciso di evidenziare degli step ben precisi del suo percorso, ma anche perché (pur tra qualche difficoltà e imbarazzo) la mezza-verità consente a Ryan, proprio come un supereroe, di comportarsi come forse avrebbe sempre voluto: ecco perché scelte come quella di andare a vivere da solo, di sperimentare da un punto di vista amoroso-sessuale, di porsi in modo diverso con persone sconosciute arrivano come delle novità ma al contempo come se fossero sempre state lì, solo in attesa di essere svelate. Perché è così che funziona, spesso, la vita di chi vive con una disabilità: si osservano gli altri e si imparano atteggiamenti e comportamenti che mai si penserebbe di poter adottare in prima persona; si fantastica su chi e cosa si potrebbe essere, mentre si impara, nella vita di tutti i giorni, ad affrontare il qui e ora.
Per Ryan la situazione è ancora più peculiare, perché la sua disabilità non è totalmente invalidante e questo lo pone in una zona grigia, in cui lui stesso – e ce lo dichiara sin dal primo episodio – non sa bene quale etichetta debba porsi, come debba sentirsi. La chiave, che viene lentamente svelata durante le otto puntate, sta proprio nello smettere di cercare una etichetta a tutti i costi e invece nel decidere, di volta in volta, cosa e chi voler essere.

Le donne hanno un ruolo fondamentale nella serie: c’è l’amica Kim, già menzionata; c’è la capa di Eggwoke, Olivia, un cliché vivente se non fosse per il ruolo fondamentale che avrà, grazie alla sua schiettezza, nel percorso di Ryan; e poi c’è la madre Karen, la cui figura rappresenta letteralmente l’altra metà della serie.
Kim, come si diceva, parte da un ruolo “preconfezionato”, quello della collega molto estroversa che aiuta il protagonista – e di conseguenza noi – ad inserirsi in un nuovo ambiente e al contempo a spingere quest’ultimo ad affrontare nuove sfide per se stesso, ignorando del tutto i motivi che lo hanno portato ad essere così chiuso ma – e qui si trova la prima novità – disinteressandosene completamente. A Kim non interessano le ragioni per cui il suo nuovo amico vive ancora con la madre, non esce con altri ragazzi o non ha particolari hobby: Kim semplicemente capisce che così non va e spinge Ryan ad uscire dalla sua comfort zone – a volte con delicatezza, a volte con un calcio nel sedere – perché intuisce che questo è esattamente ciò di cui Ryan ha bisogno. E può farlo perché lei stessa ha delle zone oscure, pur essendo la blogger più letta di tutta la redazione e pur passando per una delle persone più sicure del proprio valore: Kim sa benissimo cosa vuol dire rimanere bloccati in una percezione di sé e non riuscire a uscirne, ed è per questo che il percorso di Ryan – pur essendo così specificamente peculiare – assume tratti universali e diventa quantomeno comprensibile anche per chi non ha alcuna disabilità.
Special - Ma cosa vuol dire davvero essere "speciali"?Ma è con Karen, la madre di Ryan, che la serie opera in modo davvero grandioso: perché dietro ad ogni persona con una disabilità c’è qualcuno che se ne prende cura, e Special ha l’enorme merito di riuscire con una durata davvero ridotta a rendere alla perfezione il rapporto di co-dipendenza che si instaura tra i due.  Se da una parte sarà Ryan a voler distaccarsi dalla madre, ma al contempo volendo mantenere “l’esclusiva” del rapporto con lei, d’altra parte sarà Karen a faticare per trovare una sua normalità, per sentirsi di nuovo se stessa in modo completo, dividendosi tra il desiderio di vivere la sua vita quotidiana, nonché amorosa, e il senso di colpa di chi sente che in qualche modo sta “abbandonando” le esigenze del figlio solo perché per la prima volta comincia a pensare alle sue. È un rapporto in cui non ci sono vincitori o vinti, e la stagione – che ci si augura abbia un seguito – lo evidenzia soprattutto nella sua conclusione: è sicuramente un rapporto che necessita di un’evoluzione in territori diversi, di trasformarsi in qualcosa di nuovo – esattamente come Ryan e Karen devono trovare una loro nuova dimensione come individui.

“Special” è una serie dalla doppia valenza: quella di saper parlare in modo preciso, quasi come fosse un codice, a chi è afflitto da una disabilità, ma senza cadere nell’errore di essere accondiscendente (non siamo speciali, siamo terribilmente normali e facciamo errori, come tutti: abbiamo solo qualche ostacolo di troppo); e al contempo quella di riuscire, proprio per i motivi esposti, a comunicare a tutti coloro che, per diversi motivi, si sentono bloccati in una dimensione in cui non si sentono a proprio agio, in cui non si riconoscono ma da cui non riescono ad allontanarsi. A volte basta un escamotage, a volte una piccola bugia (di cui però vanno valutate le conseguenze): ma non è mai troppo tardi per rompere gli schemi, anche quelli che sembrano ormai fissati nel tempo e nello spazio. Ci vuole fatica, coraggio, capacità di chiedere aiuto: ma soprattutto ci vuole la voglia di farlo davvero.

Condividi l'articolo
 

Informazioni su Federica Barbera

La sua passione per le serie tv inizia quando, non ancora compiuti i 7 anni, guarda Twin Peaks e comincia a porsi le prime domande esistenziali: riuscirò mai a non avere paura di Bob, a non sentire più i brividi quando vedo il nanetto, a disinnamorarmi di Dale Cooper? A distanza di vent’anni, le risposte sono ancora No, No e No. Inizia a scrivere di serie tv quando si ritrova a commentare puntate di Lost tra un capitolo e l’altro della tesi e capisce che ormai è troppo tardi per rinsavire quando il duo Lindelof-Cuse vince a mani basse contro la squadra capitanata da Giuseppe Verdi e Luchino Visconti. Ama le serie complicate, i lunghi silenzi e tutto ciò che è capace di tirarle un metaforico pugno in pancia, ma prova un’insana attrazione per le serie trash, senza le quali non riesce più a vivere. La chiamano “recensora seriale” perché sì, è un nome fighissimo e l’ha inventato lei, ma anche “la giustificatrice pazza”, perché gli articoli devono presentarsi sempre bene e guai a voi se allineate tutto su un lato - come questo form costringe a fare. Si dice che non abbia più una vita sociale, ma il suo migliore amico Dexter Morgan, il suo amante Don Draper e i suoi colleghi di lavoro Walter White e Jesse Pinkman smentiscono categoricamente queste affermazioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.