Unbelievable – Stagione 1


Unbelievable – Stagione 1Il 13 settembre scorso è arrivata su Netflix una miniserie di 8 episodi che già dal titolo mostra la sua linea programmatica: un racconto che abbia dell’incredibile. Non si tratta però di qualcosa di straordinario, di fantastico, ma di una storia così ingiusta da risultare davvero in-credibile. Unbelievable è tratta da una storia vera, già affrontata nell’inchiesta An unbelievable story of rape a cura di  T. Christian Miller e Ken Armstrong – Premio Pulitzer nel 2016 per il giornalismo investigativo – pubblicata su ProPublica e nel podcast This American Life.

Lo show racconta di uno stupratore seriale attivo tra il 2008 e il 2011 a Washington e in Colorado. Le premesse sono quindi quelle di un crime drama d’impianto classico: un crimine da risolvere, un colpevole da fermare. Ma già dal pilot è chiaro come la serie vada in una direzione completamente diversa dallo schema a cui si è soliti rapportarsi in un ‘poliziesco’. Il primo episodio è infatti interamente dedicato a una delle vittime, la diciottenne Marie Adler (una meravigliosa Kaitlyn DeverJustified) una ragazza problematica, ospite di un centro per ragazzi che escono dagli affidi familiari. Viene stuprata nel suo appartamento, legata, fotografata e minacciata con un coltello. Nonostante la paura e le minacce subite, denuncia l’accaduto, ma la sua fragilità la rende facile preda di un’indifferenza investigativa troppo abituata a comparare gli schemi con sterilità di giudizio. Non viene creduta, e ammette di essersi inventata tutto.
Da questo punto il racconto si sposta in Colorado dove due detective – Grace Rasmussen e Karen Duvall interpretate da una Toni Collette e una Merritt Wever in stato di grazia – collegano gli stupri commessi in più contee giungendo alla conclusione che si tratta dello stesso uomo. A partire da ciò l’impianto della detection è lineare: false piste, momenti di sconforto, scleri in ufficio, illuminazioni improvvise. Tutto molto in linea con l’impianto classico di un crime drama, avvincente quanto basta, sconfortante come deve essere. Ma a guardare più a fondo, la tessitura del racconto nasconde qualcosa di inedito, una sorta di innovazione latente che cerca di innestare un flusso di ‘vita’ in quello che per eccellenza è il genere più stantio, sia in televisione che in letteratura come al cinema.

Where is his outrage? Where is the voice looking at this pattern saying, “This is supremely fucked up!”

Unbelievable – Stagione 1Le spinte innovative del genere crime sono state molteplici negli ultimi anni: umanizzazione del killer vista come indagine della complessità dell’animo umano volta a ricercare l’origine del male; il focus sul rapporto tra detective, sulla fragilità che consegue nel passare un’intera vita con il cuore dentro l’abisso; il racconto di come l’orrore sia dietro l’angolo anche quando tutt’intorno sembra tranquillo; una narrazione che cerca di comparare la qualità dei sentimenti criminali con la rabbia e la disillusione tipicamente umana. Il crime è rinato in questo fruttuoso tentativo di annullare una netta polarizzazione tra buoni e cattivi.

Unbelievable, tuttavia, va oltre. Le detective non hanno nessun trauma personale, l’aggressore è quasi invisibile, non c’è nessun tipo di indagine volta a comprendere il perché delle sue azioni. Non c’è una città che viene sconvolta da un crimine inspiegabile. Ci sono le vittime e c’è un’indagine. Sono questi i due poli d’attenzione: il dolore e la sofferenza da una parte, la volontà di lenire questo dolore dall’altra. In mezzo, gli ostacoli, che non sono solo legati alla capacità del colpevole di non lasciare prove.

La serie ideata, scritta e diretta da Susannah Grant (Erin Brockovich) utilizza il genere crime come un medium per portare sulla grande piazza tematiche ben più scottanti delle varie divulgazioni socio psicologiche – o anche filosofiche – con cui siamo soliti confrontarci quando si tratta di un ‘giallo’. Unbelievable parla di dolore, denuncia la violenza sulle donne, parla di giustizia e di sofferenza, ma soprattutto pone una domanda scottante: le metodologie generalmente utilizzate quando ci si rapporta a un’indagine di stupro sono valide? Oppure, occorrerebbe creare un protocollo che tenga conto della fragilità della vittima, non in quanto donna – nonostante anche gli uomini possano essere stuprati, il numero delle donne è nettamente maggiore – ma in quanto persona violata nella propria intimità? Per quanto uno stupro sia sicuramente meno grave di un omicidio, è giusto che il grado di punibilità di un crimine debba definirne il valore? È giusto che uno stupro o qualsiasi altro tipo di violenza d’ordine sessuale debbano essere posizionati uno scalino più in basso rispetto a ogni altro crimine?

When they’re bigger than you, you can’t win.

Unbelievable – Stagione 1Unbelievable risponde a queste domande e lo fa senza pesantezza didascalica, raccontando i fatti con un’ottica neutra, con una regia semplice, senza fronzoli stilistici, che si eclissa a favore di un racconto magistralmente orchestrato da uno sguardo ‘femminista’, non solo perché il comparto creativo è composto quasi interamente da donne, ma perché punta tutto su un approccio alla realtà intriso di energia ‘femminile’, ovvero quel modo di rapportarsi all’altro creando uno spazio d’ascolto che consenta all’interlocutore di poter esprimersi in piena libertà, senza imporre il proprio punto di vista come unico mezzo per decodificare gli eventi. Ne abbiamo esperienza nella vita di tutti i giorni, e lo abbiamo visto nel corso degli 8 episodi dello show: questa tipologia di sguardo “femminile”, così come può anche essere prerogativa degli uomini, a volte non è presente nelle donne.

Quando il detective Parker utilizza un filtro sbagliato rapportandosi a Marie, si comporta come Judith, l’ex madre affidataria, che utilizza la propria esperienza di stupro come mezzo esclusivo per poter giudicare la figlia: se non è sconvolta come lo ero io, allora sta mentendo.

Il focus iniziale su Marie riesce a creare una polarizzazione del racconto, che dopo il pilot si biforca in due direzioni parallele: da una parte Marie e la sua graduale caduta verso una nera sofferenza e dall’altra una detection condotta con cura e perizia. Mettere queste due linee narrative in parallelo scrive un importante sottotesto, che rappresenta forse uno dei traguardi più importanti dello show: tutto ciò che sta accadendo alla giovane Marie poteva essere evitato se Parker si fosse comportato come Rasmussen e Duvall? Nonostante la fine risponda esplicitamente a questa domanda, non occorre arrivare all’ultimo episodio per rispondere affermativamente.

I think that that was the hardest part of this whole thing. Waking up feeling hopeless.

Unbelievable – Stagione 1Al male non vi è rimedio, si può certo attuare una rieducazione sociale che porti a una sua riduzione, ma non si potrà mai eliminare del tutto; la differenza cruciale sta nel ‘come’ ogni male viene affrontato, vissuto, con se stessi e con gli altri. Non bisogna per forza arrivare a un crimine per poter comprendere il peso di un tale bisogno, qualsiasi ferita – sia un semplice insulto, una grave malattia, o appunto un crimine – fa molto più male se tutt’intorno ci si scontra con un clima d’indifferenza. E l’indifferenza, la mancanza di empatia, l’egoismo a volte riescono a creare ferite così profonde che generano un buco dentro cui il dolore si annida e si nasconde, per anni o anche per sempre.
Unbelievable parla dunque di indifferenza, di superficialità, del bisogno di cercare sempre un punto di vista che permetta al nostro interlocutore di sentirsi protetto, ascoltato. Mette le donne al centro e dà voce al loro dolore; pone altre donne al comando e ci mostra come – dal punto di vista investigativo – la vera arma contro la violenza sulle donne sia di adottare uno sguardo aperto, attento, che metta la vittima in una condizione, fisica e psicologica, in cui quel senso di vulnerabilità inevitabilmente correlato all’aggressione riesca a mitigarsi da un calore, che non è altro che umanità.
Unbelievable parla dunque di violenza subita da donne, sia dall’aggressore che dalla polizia, e pone l’accento più che sull’atto in sé sulle sue conseguenze; questa è indubbiamente la tematica dello show. Ma cosa molto più importante è come lo show affronta questa tematica: il turbine di queste donne non viene raccontato, ma vissuto, mostrato, tutto accade davanti ai nostri occhi. La violenza sulle donne non è trattata come tema, ma è fatta vivere in ‘situazione’.
In letteratura, una narrazione su una particolare tematica acquista consapevolezza quando l’oggetto del racconto non è più trattato come tema, ma viene fatto vivere in situazione. L’esigenza di trattare una tematica spinosa come tema deriva spesso dall’urgenza di denuncia, dal bisogno di attirare l’attenzione su un tema preciso. E per farlo ci si affida al racconto del singolo, di chi è protagonista di un determinata esperienza: è stato così per quella che è nata come letteratura migrante e che oggi lotta per divenire, semplicemente, letteratura. Il limite di questo tipo di formula narrativa è che spesso la denuncia è rivolta a un interlocutore preciso.

Un racconto come Unbelievable – e qui sta la sua forza maggiore – grazie a questa sua particolare costruzione narrativa, ci mostra che raccontare la violenza sulle donne sia qualcosa che comincia ad andare oltre la denuncia, oltre lo sguardo personale della vittima o dell’aggressore, e che non ha più un solo interlocutore. Non è più un tema relegato a una minoranza, è qualcosa di molto più complesso, che fa parte della nostra contemporaneità, è una cosa che riguarda tutti noi, vittime, carnefici e tutti coloro che non riescono, non vogliono, o non sono in grado di vedere.

Voto: 8½

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