Superstore – La workplace comedy erede di The Office 3


Superstore – La workplace comedy erede di The OfficeNel grande calderone di serie che, per un motivo o per l’altro, non hanno raggiunto il successo di pubblico meritato, c’è senza ombra di dubbio Superstore. Si tratta di una workplace comedy targata NBC conclusasi pochi mesi fa dopo ben sei stagioni e oltre cento episodi (in Italia sono disponibili su Amazon Prime Video le prime cinque). Lo show, ideato dallo sceneggiatore e produttore di The Office Justin Spitzer, racconta infatti le vicende di un gruppo di impiegati in un superstore statunitense, il Cloud 9 di Saint Louis. 

Tra i protagonisti troviamo Amy (America Ferrera, nota soprattutto per il ruolo della protagonista in Ugly Betty), floor supervisor del negozio visibilmente frustrata dal suo lavoro; Jonah (Ben Feldman, lanciato dal suo ruolo in Mad Men), nuovo impiegato del superstore, e il manager Glenn (Mark McKinney), a cui si unisce un parco personaggi – tra regular e recurring – multiforme e in continua espansione.
Come si accennava in apertura, Superstore è una delle comedy, anzi delle serie, più sottovalutate di questi ultimi anni: passata quasi inosservata in Italia, è in realtà la degna erede delle più celebri e amate workplace comedy – in primis The Office, ma anche Parks and Recreation e Brooklyn Nine-Nine. Vediamo dunque quali sono i motivi che rendono la serie di Spitzer così speciale.

Uno dei suoi principali punti di forza, come spesso accade per le migliori comedy, è rappresentato dai personaggi e dal talentuoso e azzeccatissimo cast che li interpreta. Se agli esordi il fulcro principale del racconto è rappresentato dal rapporto che man mano si instaura tra Amy e Jonah, con il passare degli episodi e delle stagioni la serie assume una dimensione sempre più corale, in cui ciascun personaggio ha modo di emergere e di contribuire alla riuscita dell’episodio, sia sul piano della comicità che su quello emotivo.
Gli autori sono infatti riusciti a dar vita a un gruppo estremamente variegato, che include personaggi di colore, appartenenti alla comunità LGBTQ+, con disabilità, con corpi non conformi, restituendo così un’immagine accurata dell’America contemporanea. La serie fa un ottimo lavoro nel gestire le peculiarità dei suoi personaggi, affrontando in maniera sempre puntuale le discriminazioni e i problemi che si trovano a vivere, ma senza mai appiattirli su un’unica caratteristica.

Superstore – La workplace comedy erede di The OfficeA ciò si collega un altro elemento caratteristico dello show: spesso gli episodi affrontano infatti tematiche sociali complesse, come le politiche migratorie, i paradossi del capitalismo, l’appropriazione culturale, le molestie sessuali sul luogo di lavoro, la tendenza al consumismo sfrenato – solo per fare alcuni esempi. Queste però emergono sempre in maniera naturale dal racconto delle vite dei protagonisti, amalgamandosi alla perfezione al contesto comedy in cui si inseriscono e dando così vita a un commentario puntuale ed esilarante della contemporaneità, che non risulta mai inutilmente didattico o pedante.
Un ulteriore merito della serie è quello di rifuggire dagli stereotipi, riuscendo così a costruire personaggi e storie solide ed emotivamente gratificanti: senza fare spoiler, è emblematica in questo senso la gestione dei rapporti sentimentali che si instaurano tra alcuni dei protagonisti, in cui la tradizionale suddivisione dei ruoli basata sul genere viene deliberatamente messa in discussione, oltre a mostrare soluzioni divergenti dalla coppia monogama composta da uomo e donna.

Durante il corso di ben sei stagioni, Superstore è stata inoltre in grado di rinnovarsi costantemente, evitando il rischio di monotonia e ripetitività che a volte colpisce questo tipo di prodotti. In quest’ottica è stato fondamentale, di nuovo, il lavoro fatto sui personaggi, i quali sono in costante crescita sia personale che professionale. A ritmare episodi e stagioni troviamo infatti da un lato le relazioni – sentimentali e di amicizia – che i protagonisti instaurano l’un l’altro, e dall’altro i loro tentativi di fare carriera all’interno del Cloud 9 e di migliorare le loro condizioni di lavoro, in una vana lotta contro le spietate logiche aziendali a cui devono sottostare. A ciò si unisce la costruzione di una sorta di mitologia interna allo show, grazie a storyline ed elementi che ricorrono a distanza di tempo, una caratteristica già presente nelle comedy citate precedentemente e che aiuta a dare ancora più colore al complesso mondo costruito attorno ai personaggi della serie.
Superstore – La workplace comedy erede di The OfficeA dimostrazione di questa capacità di rinnovamento, troviamo l’ultima stagione della serie, in cui gli autori hanno deciso di inserire i radicali cambiamenti che la pandemia ha apportato alla vita di tutti i giorni all’interno dello show. Superstore è indubbiamente uno degli esempi migliori di gestione a livello narrativo dell’impatto del coronavirus, il quale non diventa necessariamente il fulcro di ogni situazione, ma viene usato con intelligenza per offrire uno sguardo riconoscibile su come le nostre vite – e non solo quelle dei dipendenti del Cloud 9 – si sono dovute adattare a questo evento epocale. 

In definitiva, Superstore è una serie che unisce alla perfezione il commentario sociale alla dimensione della comfort TV e che regala momenti di grandissima comicità, un insieme di cose che la rendono perfetta per il binge watching. In un panorama televisivo come quello odierno, spesso saturo di contenuti, questa comedy NBC ha tutti gli ingredienti giusti per conquistare il cuore degli spettatori, e la speranza è che nel corso degli anni riesca ad emergere e a trovare una seconda vita grazie alle piattaforme di streaming, un po’ come sta succedendo con la già citata The Office.

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3 commenti su “Superstore – La workplace comedy erede di The Office

  • Genio in bottiglia

    Bella serie. Avendola seguita dai suoi primi passi, posso dire che ha stupito anche me come non abbia avuto maggiore successo. Grazie per la bella recensione, Simona.

     
  • daniel

    Ormai le serie tv sono diventate una lagna pazzesca.. Mi riferisco al fatto che tutte(non ne trovo una diversa) dicono sempre che vogliono rifuggire dal ruolo dei generi… rompere certi stereotipi.. etc..
    Scusate ma se io guardo una serie tv non voglio essere indottrinato, mi interessa la storia e che il creatore sia libero. Se Tutte quelle che vedo e ne ho viste tante.. hanno questo obiettivo, forse c’è un condizionamento culturale al contrario.. altrettanto sbagliato di quello che creava appunto alcuni vecchi stereotipi.
    Il messaggio che vuole dare giusto o sbagliato che sia eh.. non lo critico.. ma critico la monotonia del fatto che il politically correct rende tutto piatto e noioso.. tutto uguale..tutte le città uguali..senza monumenti non capisci dove sono ambientati..(esagero per rendere l’idea). Qui hanno veramente esagerato in Superstore.. al punto che ho provato a vedere la 6a stagione, ho immaginato in anticipo quello che sarebbe successo(questo tipo di politically correct è talmente prevedibile e ripetitivo che non è stato difficile), ho guardato le anteprime delle puntate successive, scoperto che sarebbe successo tutto quello che avevo immaginato e così ho staccato la serie.. game over.. non la guarderò mai più. Interrotta alla 3a puntata. Mi bastano le ore e ore di politica su queste cose.. una storia deve essere libera e imprevedibile. Praticamente con la scusa di eliminare vecchi stereotipi ne hanno creati di nuovi. Il modo ad esempio in cui viene costantemente umiliato il personaggio di Jonah(che fra l’altro ha una istruzione, è intelligente e meriterebbe molto di più invece lo fanno umiliare da personaggi squallidi e senza senso solo perchè ritenuti (etnicamente diversi)) oppure lo stesso direttore.. solo perchè bianco etero lo devono umiliare e descrivertelo come un bambino di 5 anni ridicolo e che si fa pestare i piedi da tutti.. eh no dai è troppo… Addio alla serie tv. Che si possa trovare chiama femminismo estremo, male bashing fortissimo, propaganda di una certa sinistra su immigrazione, sulle regole per la clandestinità o altri argomenti.. ma è politica o spettacolo? è politica.. mi bastano i talk show che vedo alla tv per quello. Piuttosto guardo quelle di 15 anni fa.. per quanti stereotipi potessero avere(al contrario ugualmente brutti) trovo che i registi fossero più liberi e spontanei, non c’è paragone. Qui abbiamo involucri diversi con la stessa manfrina sempre uguale.. e poi ti senti preso in giro.