Il 17 novembre è arrivato su Netflix uno dei prodotti più attesi dell’anno per la serialità italiana, con un hype del tutto giustificato: il debutto nel mondo delle serie TV per uno come Zerocalcare – nome d’arte di Michele Rech, classe 1983 – era uno di quei momenti che prima o poi tutti ci aspettavamo, ma che comunque, una volta annunciato, è stato accolto con sincera sorpresa e un’onesta fiducia nel fatto che non ci avrebbe deluso. Può sembrare tutto molto “esagerato”, e forse l’autore stesso di questa serie la definirebbe un’introduzione generatrice di ansia da prestazione che si autoalimenta fino all’attacco di panico, ma molti di noi non possono fare altro che identificarsi in una voce come la sua, e i motivi sono diversi ma fanno tutti capo al suo incredibile talento – un talento che trasuda da ogni puntata di questo Strappare Lungo I Bordi.
Da “La Profezia dell’Armadillo” (2011) in poi, attraverso opere anche molto diverse tra di loro, che spaziano dall’approccio più personale e intimista fino all’impegno sociale e politico di cui “Kobane Calling” (2016) rimane uno dei più fulgidi esempi, Zerocalcare è riuscito a creare uno stile personalissimo con cui, grazie al suo doppio, racconta la sua storia e il suo mondo – quella Rebibbia da cui non sa stare lontano neanche tre giorni – in un modo che per noi è chiaramente riconoscibile: è lui, sono i suoi amici (Secco, Sarah), la sua coscienza sotto forma di Armadillo, un gruppo di personaggi che sappiamo essere suoi e che ciononostante riescono a parlarci da sempre in un modo che ci riguarda da vicino.
Bisogna sempre diffidare da definizioni come quelle di “voce di una generazione”, un po’ per le aspettative schiaccianti, un po’ per quell’idealizzazione che porta a braccare la persona nel personaggio, e a demolirla non appena questa dovesse fare un passo al di fuori della linea tratteggiata; in effetti Michele Rech non vuole essere il megafono di nessuno, e questa cosa la si percepisce da ogni sua opera. Succede però che ha vissuto una vita molto rappresentativa di una fetta di popolazione che appartiene a quegli anni lì, quella dei nati negli anni ’80, cresciuti nei ’90 e presi a calci nei 2000; è successo che abbia trovato un modo unico per raccontarci esattamente quello e che abbia deciso di farlo senza filtri, mostrandoci negli anni le sue evoluzioni – di pensiero, oltre che artistiche – e condividendo con noi le sue prese di coscienza sulla vita, sulle paure dell’ignoto declinato al futuro e su quanto vissuto fino a quel momento, con un approccio che mescola da sempre risata e dolore, ironia caustica sul mondo e non meno forte su se stesso, drammi privati e tragedie collettive.
Dopo la produzione dei video realizzati durante il lockdown, dal titolo Rebibbia Quarantine, non stupisce quando arriva ad annunciare la sua prima serie TV, per cui si affida a Movimenti Production, a DogHead Animation Studio, alla sempre presente BAO Publishing e ad un formato a lui più congeniale per questo primo salto nel mondo della serialità: sei episodi da circa quindici minuti ciascuno che gli consentono di iniziare a muoversi nel mondo delle serie TV (di cui Rech è un gran fruitore) senza rischiare di fare il passo più lungo della gamba. La mossa, molto probabilmente dettata da quell’ansia da prestazione che sembra inseguirlo ovunque, risulta strategicamente perfetta: Strappare Lungo I Bordi è proprio quello che ci saremmo aspettati da un passaggio di Zerocalcare alla serialità, e questo nell’accezione più positiva che si possa immaginare. Riesce a non strafare e al contempo a osare quel tanto che gli serve per dare un senso al passaggio di medium che non sia solo quello di dare ai suoi “disegnetti” movimento e voce: Strappare Lungo I Bordi è molto di più e lo è proprio perché Zerocalcare si affida alle solide basi del suo passato artistico per fare questo salto che lo ha portato nell’arco di un giorno ad essere visibile contemporaneamente in quasi tutto il mondo.
Si affida al passato, si diceva, e lo fa proprio partendo dall’inizio: per chi ha letto “La Profezia dell’Armadillo” sarà stato facile trovare un parallelo con questa serie, e non solo per la questione principale – quella morte che nella serie viene annunciata solo verso la fine ma che i più attenti avranno subodorato ben prima, proprio perché non è un argomento nuovo nella produzione di Zerocalcare; nello specifico, nella sua opera prima assistevamo al processo opposto, ossia quello di un lutto annunciato subito e che dava il “la” a Zero per analizzare la sua vita mentre “viaggiava” a comunicare la notizia tra i suoi amici.
Come si può vedere, quindi, Zerocalcare si affida a qualcosa che conosce già – un lutto che dà il via a tutta una serie di riflessioni sulla vita – adattandolo alla serialità (creando una trama orizzontale che attraversa tutte le puntate e che ci porta a scoprire la morte di Alice solo in chiusura del penultimo episodio) e a evidenti nuove esigenze narrative (sono passati dieci anni da “La Profezia dell’Armadillo”, ed è chiaro che a 37 anni si abbia una visione del mondo e della propria vita diversa: di conseguenza, se nella sua prima opera la ragazza muore per motivi importantissimi ma molto personali, che non diremo per questioni di spoiler, qui il lutto di Alice ha una doppia valenza, dato che è un suicidio e che si inserisce nel più ampio discorso del precariato che permea l’intera serie).
Zerocalcare è cresciuto riuscendo a rimanere lo stesso sotto certi profili, il che genera quel sentimento rassicurante che porta tantissime persone a seguirlo proprio perché risulta sempre capace di “farci ridere mentre parla di noi”; e ciononostante è cresciuto, ha preso qualche distanza da quel groviglio di sensazioni di inadeguatezza che hanno accompagnato la nostra generazione durante i nostri vent’anni ed è in grado, oggi, di trarne una lezione che non vale solo per i millennial ma che si fa universale e che quindi può adattarsi benissimo anche a chi non fa parte della sua stessa generazione, come vedremo.
Per farlo, prende la tecnica de “La Profezia dell’Armadillo” e la porta a un nuovo livello: ogni episodio tratta un paio di temi del passato o della vita di Zero mentre nella seconda parte della puntata abbiamo il proseguimento della linea orizzontale con Zero, Sarah e Secco.
La vita di Zero, ma anche dei suoi amici e di Alice, viene mostrata e quindi commentata dallo stesso protagonista che ne parla guardando in camera, quindi a noi: è un’intervista, con quegli zoom a scatti, quei momenti di messa a fuoco; ma a pensarci bene in realtà è il suo film, come gli dirà Sarah nell’ultimo episodio (“[…] oppure t’ho detto le cose come stavano e i sensi di colpa ce li stai a mette’ te perché sei egomaniaco e te servono per sentitte protagonista de un film che non è il tuo?”), e noi in quanto spettatori stiamo osservando tutto dal suo punto di vista, a cui tendiamo a credere. Un po’ gli diamo fiducia perché è il protagonista, un po’ perché ci parla guardandoci in faccia, ma soprattutto perché notiamo che, quando osserva il suo passato, ha dei forti momenti di autocritica (spesso ispirati dalle parole di Sarah), per cui ci pare tutto sommato un narratore credibile – sono momenti, peraltro, in cui Zerocalcare-autore ne approfitta per dire la sua su diversi temi contemporanei (uno su tutti: l’educazione affettiva riservata ai maschi della sua età, in cui la vulnerabilità non si deve mostrare mai e amare le donne è una cosa che scatena contemporaneamente omofobia ed eterofobia. Da questo contesto socio-educativo, e senza un adeguato lavoro personale, è abbastanza inevitabile che un ragazzo come Zero diventi incapace di stabilire un’intimità affettiva con una ragazza come Alice e che fugga da qualunque prospettiva che la coinvolga).
Certo, il fatto che tutte le voci che sentiamo (a parte l’Armadillo, doppiato da uno straordinario Valerio Mastandrea) siano riprodotte dallo stesso Zerocalcare dovrebbe forse metterci in allerta sul fatto che ciò che vediamo potrebbe non essere tutta la verità, e questo non perché Zero voglia fregarci: semplicemente fa quello che facciamo tutti, cioè racconta la sua versione dei fatti convinto che equivalga a “come sono andate realmente le cose” e per un po’ questo stratagemma funziona.
Tuttavia, con l’andare delle puntate assistiamo a uno scollamento tra lui e noi, perché mentre continuiamo ad ascoltarlo e a cercare di capirlo diventiamo consapevoli del fatto che sia tutta un po’ una messa in scena – esemplare in questo senso l’inizio del quarto episodio, in cui vediamo qualche istante di fuori onda e poi l’inizio delle riprese: come a dire che Zero non si sta solo sfogando con noi, ma sta proprio girando un film in cui i protagonisti sono lui e il suo punto di vista.
Elaborare questo meccanismo che viaggi di pari passo alla storia narrata e inserirlo come dispositivo metanarrativo, in una serie che dura in totale un’ora e mezza e che, lo ripetiamo, è il debutto nella serialità di un fumettista, basterebbe da solo a far guadagnare a Michele Rech tutta la nostra stima presente e futura. Ma c’è di più.
Il lavoro sull’affettività è qualcosa che sta nel repertorio di Zerocalcare da moltissimo tempo – indimenticabile il discorso sul rifiuto di vedere la vulnerabilità dei propri genitori in “Dimentica il mio nome” (2014) – e che qui viene sapientemente mescolato a tutto il resto: all’incertezza del futuro, all’idea di non essere abbastanza per gli altri e di sentirsi addosso le responsabilità del mondo – che racchiude in sé una visione egocentrica della vita –, ma soprattutto al non riuscire a trovare il proprio posto nel mondo. Sono tutti questi mille temi, che poi in realtà sono uno solo, a raccontarci l’inadeguatezza di una generazione che è stata cresciuta convinta che tutto sarebbe andato bene, che sarebbe bastato seguire le istruzioni, toccare le tappe giuste, strappare lungo i bordi, appunto: sarebbe bastato quello per svegliarci adulti, con un obiettivo e una vita migliore della generazione che ci ha preceduto – come in fondo era sempre successo, fino appunto alla nostra. Zerocalcare ci racconta la perdita di noi stessi all’interno di un mondo che segue regole diverse da quelle che ci hanno insegnato ma di cui noi ci portiamo addosso tutto il residuato emotivo; non ci troviamo dove dovremmo essere perché il mondo è collassato sotto i nostri piedi e come se non bastasse conviviamo con il senso di colpa e il peso di quella responsabilità – come Alice, che torna a vivere dai suoi perché non può mantenersi da sola e non regge al senso di inadeguatezza, allo scarto che c’è tra ciò che è diventata e quello che l’immagine sotto i suoi piedi le rimanda.
Il rischio di portare avanti un discorso del genere, soprattutto se visto con gli occhi di un non-millennial, era quello di farlo apparire come una sorta di “lamento generazionale”, in cui chi è venuto prima di noi (ma anche chi è venuto dopo e che paradossalmente è nato già sapendo che le regole del gioco erano cambiate) potesse derubricarlo a un autocompatimento senza scopo, a una cessione della responsabilità individuale in cui ogni errore viene giustificato da un contesto esterno usato come capro espiatorio. Strappare Lungo I Bordi evita saggiamente questa piega e lo fa in diversi modi: nello specifico, come si diceva prima, facendo capire che la visione di Zero è una restituzione parziale di quanto accaduto, e questo succede lentamente durante gli ultimi episodi fino all’apoteosi nel finale, in cui, proprio mentre Zero crolla nel vortice dei sentimenti e dell’ansia generati dalla scoperta che la sua visione del mondo non era obiettiva, arriva Sarah a tirargli una scoppola che lo risveglia dal torpore e a seguito della quale i personaggi riacquistano le loro voci.
È Sarah a dargli un punto di vista nuovo, che non è nient’altro che quello storico – “Siamo fili d’erba, ricordi?” – riapplicato all’età adulta e che, lungi dal deresponsabilizzare le persone dalle conseguenze delle loro azioni, offre invece una visione più complessa e stratificata, da cui noi ne usciamo come il risultato di moltissimi fattori: il contesto sociale, l’educazione ricevuta, le possibilità che ci sono mancate, ma anche e soprattutto le nostre scelte – “[…] è stata una scelta sua, le vuoi lasciare almeno quella?”. Sentirsi un filo d’erba, un concetto un tempo così rasserenante, nel groviglio dell’età adulta assume però contorni ambigui, in cui la leggerezza di non avere le sorti del mondo addosso si accompagna al peso di non aver potuto fare nulla per evitare che Alice si suicidasse.
In ambito generale, invece, il rischio del lamento generazionale viene evitato innanzitutto rendendo questo discorso adattabile alle vite di tutti, indipendentemente dalla loro età: tutti crescono con l’idea di ciò che vogliono diventare, di quello che vogliono realizzare, e nessuno si ritroverà alla soglia dei 40 anni ad avere un riflesso esattamente identico a quello che si era preparato da giovane; questo perché la vita è imprevedibile, ma anche perché i sogni e gli obiettivi cambiano, perché gli ostacoli a volte si possono superare e altre volte ci costringono a prendere altre vie. Eppure il momento del confronto arriva per tutti, e cosa fare con quello scarto tra ideale e reale rimane una scelta individuale. Zero, per paura di strappare fuori dai bordi, è stato fermo per moltissimo tempo e l’universo glielo ha mostrato in più occasioni, dall’incontro con la ragazzina-topo delle ripetizioni a distanza di dieci anni, fino all’accettazione della dura realtà di ciò che è accaduto tra Alice e lui. I due “non sono stati i protagonisti di una commedia romantica che non riescono a incontrarsi”, come gli dirà l’Armadillo, bensì due persone che non si sono trovate per diverse ragioni, ma principalmente perché Zero ha evitato che accadesse e tutte le volte lo ha fatto per paura dell’ignoto – l’eterno dilemma tra lo scoprire una cosa importante o beccarsi un accollo, che costringe molti, Zero incluso, a restare dentro la caverna di platonica memoria.
La generalizzazione del discorso permette altresì di uscire dal proprio solipsismo per vedere come in fondo siamo tutti sulla stessa barca, tutti alle prese con quel foglietto che abbiamo tanta paura di guardare: possiamo decidere di non lasciare a quel disegno il potere di definirci, possiamo decidere noi se è ancora una battaglia quella tra noi e noi stessi o se, nell’accettazione di ciò che è stato fino ad ora, possiamo provare a costruire comunque qualcosa di migliore con i mezzi che abbiamo, contestualizzando come siamo arrivati fino a qui ma ricordandoci che fino all’ultimo abbiamo la possibilità di scegliere cosa e come vogliamo essere. Un discorso che non intacca minimamente il percorso di Alice, ricordata dai genitori come una persona che sì, si sentiva sconfitta, ma che non era solo quello e come una donna la cui vita non si riduce al suo suicidio; e lo stesso Zerocalcare riesce, con una delicatezza infinita, a dare la speranza di poter sopravvivere grazie al fuoco di tutti quei pezzi di carta senza che questo diventi mai un giudizio nei confronti delle persone a cui quel fuoco non è bastato.
Sei episodi da quindici minuti hanno fatto dunque tutto questo? Certo che no. Hanno fatto molto di più. Perché poi c’è tutto quello che di Zerocalcare conosciamo, ossia l’universo pop in cui inserisce le sue narrazioni, quel concentrato di materiale che riempie ogni inquadratura di dettagli tali da rendere una sola visione non sufficiente. Ed è proprio quel relazionarsi a problemi comuni che consente alla serie di parlare a una certa generazione e al contempo a tanti altri, perché chi resisterebbe davanti alla descrizione di una casa (metafora della vita) fuori controllo rappresentata come la saga di Game of Thrones? Poi ci sono le manie e le ansie contemporanee, come quella di avere talmente tanta scelta tra le migliaia di prodotti da vedere che si rimane alla fine senza aver visto nulla, o avendo tenuto da parte “quella seconda stagione di Sense8” come se fosse una bottiglia di vino per le buone occasioni che però non arrivano mai. Ma c’è anche e soprattutto il costante lavorio interiore di Zerocalcare come autore, che si riflette sul suo doppio a cui fa dire cose ancora impregnate di misoginia o di razzismo, salvo poi essere messo in riga dalla fida Sarah, e tutto questo attraverso storie con cui chiunque si può relazionare, dalla mitologia che gira attorno ai bagni femminili fino al maschilismo tossico, che vuole l’uomo capace per diritto di nascita di cambiare una gomma ma totalmente incapace di chiedere aiuto – a meno che quell’aiuto non sia della mamma: la mamma, in Italia, va sempre bene.
Insomma, Strappare Lungo I Bordi lascia con una sensazione strana: nel senso che è tutto quello che ci aspettavamo, ma nella misura in cui ci aspettiamo che un talento come Michele Rech riesca a raggiungere risultati eccezionali anche alla sua prima prova seriale. Lo ha fatto: e sì, certo, lo ha fatto con altre 200 persone che non si scorda mai di menzionare, ma dietro a tutto questo rimane il nocciolo duro, quello di un autore che da dieci anni si sta mettendo a nudo per raccontarci di lui, delle sue ansie e del suo mondo, ma anche di noi e del nostro, affrontando temi che sono specifici di noi millennial ma anche discorsi più generali, validi per chiunque viva tempi come questi. Se poi nel mezzo si piange e si ride e a volte si fanno entrambe le cose, mentre si passa per citazioni di Mao, Platone e richieste di gelato, allora forse possiamo davvero dire che Michele Rech abbia trovato la formula seriale giusta al primo colpo.
Voto: 9
Note:
– Per quanto l’utilizzo della z-word nella storyline legata alla compagna di classe Carmen venga contestualizzata facendola introdurre nella vita di Zero da un compagno che cresce diventando una persona intollerante, si poteva fare decisamente di più per evitare di pronunciare una parola che rimane profondamente intrisa di razzismo, esattamente come si fa per la n-word. L’unica pecca in un lavoro che proprio su questi temi risulta in genere molto attento.
– Se tu o qualcuno che conosci ha bisogno di aiuto e ha pensieri suicidi, potete contattare Telefono Amico Italia al numero 02 2327 2328, tutti i giorni dalle 10 alle 24.00 oppure andando su www.telefonoamico.net
Finalmente anche noi ora abbiamo un BoJack tutto nostro! E da quel che sento la serie sta avendo un’ottima accoglienza anche altrove, oltre le Alpi (ed anche qualche polemica in Turchia per quella bandiera del PKK che compare per un secondo).
La capacità di Zerocalcare di riuscire a creare personaggi in cui è così facile identificarsi, è assolutamente incredibile.
La cosa più incredibile è saper rendere così bene, in maniera visiva, tutto quel vortice mentale, fatto di ansie, paure e sogni a occhi aperti, di cui è capace una persona.
E, soprattutto, l’ultimo episodio, è una di quelle mazzate così forti, che non sentivo da una vita, in una serie tv. La storia di Alice è anche così semplice identificarla come tua e ammetto, ho singhiozzato forte per tutto l’episodio, anche di fronte ai momenti che stemperavano, o forse, acuivano quel senso di alienazione di fronte alla vita “lungo i bordi”
Mah, io non sono neppure riuscito a vedere tutto il trailer…
Forse può piacere ai romani…?
Beh, è un bel peccato perdersi un lavoro del genere fermandosi al trailer! In ogni caso quel voto lì che vedi sopra l’ha dato una donna milanese dalla nascita, quindi sono certa che la serie sia più che comprensibile anche a chi vive fuori da Roma – e poi ci sono sempre i sottitoli, no? ?