Una delle sorprese del 2022, arrivata a metà anno a inaugurare l’estate, è stata la caotica, ansiogena e brillante The Bear, dramedy che, con una prima stagione da otto episodi, ha raccontato il mondo della ristorazione da una prospettiva senza filtri e soprattutto incurante della sua stessa crudezza e crudeltà. Chiunque abbia approcciato lo show perché appassionato di cucina, o di Christopher Storer (autore della serie), o di Jeremy Allen White (indimenticato Lip Gallagher di Shameless), si è quindi trovato davanti a qualcosa di imprevedibile: una dramedy, sì, in cui però la componente comedy era spesso una breve parentesi piazzata strategicamente per riprendere fiato tra un’apnea e l’altra. Lo show di FX ha conquistato pubblico e critica ed è tornato esattamente un anno dopo con una seconda annata da dieci episodi (disponibili su Hulu e dal 16 agosto anche su Disney+) in cui l’impressione è stata quella di poter finalmente tirare il fiato.
O forse no.
Il ritorno di The Bear infatti parte da un vero e proprio conto alla rovescia: se la prima stagione si chiudeva con la decisione di trasformare il locale in un ristorante “degno di una stella Michelin”, la seconda si apre con la consapevolezza che nemmeno tutti i soldi trovati nel precedente season finale sono sufficienti a garantire questo risultato. Bisogna aprire entro sei mesi, anzi, tre: ci vuole molto poco per arrivare a questa conclusione, soprattutto considerando il folle autoricatto elaborato da Carmy con zio Jimmy/Cicero – la restituzione del debito entro 18 mesi o la cessione di tutto, ristorante ed edificio compreso. Non è casuale il fatto che la season premiere inizi con una condanna proposta dalla vittima stessa: in questa stagione la storyline di Carmy avrà esattamente l’autosabotaggio come fil rouge, un percorso in contromano mentre (quasi) tutti gli altri si muovono in una direzione nuova e gratificante, alla riscoperta di se stessi e delle proprie capacità. Qui si trova il primo, grande ossimoro rappresentato dal protagonista: se la sua brigata fatta di colleghi/amici/parenti si trova sul ramo ascendente della parabola è sicuramente solo grazie a lui e a quanto accaduto nella prima stagione; è indubbio infatti che la spinta al cambiamento sia arrivata grazie a Carmy e nonostante il dolore per la perdita di Michael. La contraddizione scatta nel momento in cui colui che ha dato il “la” al movimento degli altri rimane immobile, nonostante all’apparenza provi di tutto per dare una svolta alla sua vita.
Let it rip
La seconda stagione ha al suo centro la creazione del The Bear dalle macerie del The Beef: la ricostruzione fisica del locale è metafora lampante della ricostituzione della squadra, che passa per quella di ciascun suo componente, segnato a sua volta da traumi e lutti. Come in ogni percorso di ricerca individuale, anche il locale fatica a trovare la sua strada, ostacolato da storie ed errori passati che riemergono in continuazione: quasi come se fosse un test, per capire se davvero si vuole andare avanti bisogna accettare di lasciarsi indietro il passato, di demolire muri devastati dalla muffa, di aprire armadietti chiusi da anni. Le decisioni da prendere che portano sempre più vicini al The Bear sono le stesse che mettono le distanze col The Beef (o, almeno, con le sue parti più tossiche, in tutti i sensi): non sfugge come questo processo sia molto simile a quello di decostruzione e ricostruzione che si fa in terapia, quando è solo dopo l’analisi – etimologicamente lo scioglimento, la scomposizione – che si può pensare a una sintesi, a una ricomposizione dei pezzi.
Funziona così per il locale e funziona così per la maggior parte del team.
Nel primo caso, l’apoteosi del processo avviene attraverso il superamento del test per i sistemi antincendio e le condutture del gas: è necessario scavare accuratamente nei ricordi per trovare la soluzione, che si trova proprio nelle discutibili decisioni di Michael; dunque il segreto per far ufficialmente partire il The Bear va ricercato nei momenti peggiori del The Beef, che vengono setacciati da chi riesce a essere meno emotivamente coinvolto dalla vicenda di Michael – in questo caso Fak.
Nel secondo caso, come si diceva, non tutto il team segue la stessa strada, ma si possono individuare due macrogruppi grazie a una stagione in cui il ritmo rallenta, in cui ci si prende il tempo necessario per donare a ogni personaggio la possibilità di raccontare la propria storia.
Da una parte abbiamo Richie, Natalie, Tina, Marcus e persino Ebra, anche se sarà il più refrattario al cambiamento; dall’altra troviamo Sydney, che si troverebbe a metà strada tra il primo e il secondo gruppo se non fosse per lui, Carmy, vero protagonista al contrario dell’altrimenti dominante processo evolutivo della brigata.
Every Second Counts
Nel budget di questi tre mesi, impegnativi come sei, non ci sono solo le ristrutturazioni, le nuove strumentazioni, lo studio di ricette per un menù che punti alle stelle: c’è anche la formazione del personale, che inizia da subito con la decisione di dare a Tina (scelta come nuova sous chef da Sydney, a sottolineare la strada compiuta dalle due donne) e a Ebra la possibilità di studiare in una vera scuola di cucina, focus del quinto episodio “Pop”. Se Tina (Liza Colón- Zayas) accetta con un entusiasmo commovente, che porta alla splendida scena al karaoke in cui la veterana del Beef conquista un gruppo di giovanissimi estranei manifestando tutta la sua emotività in musica, non è lo stesso per Ebraheim (Edwin Lee Gibson), che in questo nuovo ambito si sente un pesce fuor d’acqua. Non è una questione di età, ma di attitudine al cambiamento: se per Tina questa svolta è arrivata probabilmente al momento giusto della sua vita, portandola non solo a cambiare atteggiamento ma a risplendere in queste nuove vesti, Ebra rappresenta tutte quelle persone che nella routine e nelle “care vecchie abitudini” trovano un conforto difficile da abbandonare. Avere un ruolo completamente rinnovato al The Bear non è qualcosa che faccia per lui, e ciononostante Ebra tornerà, mettendo sul piatto tutto quello che è e che può dare per servire in una squadra che lo riaccoglie comunque, in un altro modo e con altri compiti, senza lasciarlo da parte.
Abbiamo poi Marcus (Lionel Boyce), che nel quarto episodio vola a Copenhagen per imparare nuove tecniche da adottare per i dolci da servire al The Bear. È un episodio che si distacca dagli altri non solo per gli evidenti chilometri di distanza da Chicago, ma anche perché cambia completamente di ritmo, e per diverse ragioni. Innanzitutto c’è la solitudine di Marcus, che decide di partire nonostante la madre malata a cui non smette di pensare nemmeno per un secondo; c’è la sua scoperta della città, la voglia di imparare da zero e il rapporto con Luca (Will Poulter, una delle tante guest star di questa stagione), che si costruisce di giorno in giorno all’interno di una professionalità rigida ma non tossica, che sa comprendere la cura e il perfezionamento di sé e dei dolci in egual misura.
Il mondo della pasticceria è fatto di tempi dilatati, di misure precise, di consapevolezza del fatto che si sta creando la parte del menù che forse più di ogni altra andrà ad appellarsi ai ricordi della vita di una persona (ne saranno un esempio il cannolo “The Michael” ma anche la banana al cioccolato offerta a Cicero). Ed è peculiare come si riesca anche in questo caso a parlare della pressione del perfezionismo ma in un ambiente tanto tranquillo da sembrare sacro, in cui Luca può confessare le sue antiche ossessioni e cosa gli ha permesso di diventare così bravo, cioè aspirare anche solo ad avvicinarsi al cuoco che per lui era inarrivabile – scopriremo poi che il riferimento sarà proprio a Carmy. Infine non si può non menzionare come questa regia sia l’unica diversa dal resto della stagione, che per nove episodi è solidamente in mano a Christopher Storer e a Joanna Calo: a dirigere qui, a causa di un’impossibilità dei due di recarsi a Copenhagen, troviamo una vecchia conoscenza, Ramy Youssef (autore e protagonista di Ramy, serie prodotta da Storer), a cui non sono stati mostrati i tre episodi precedenti proprio per far sì che questo avesse un ritmo suo, dettato dalle sue esigenze. Ne emerge dunque “Honeydew”, una puntata addirittura rilassante all’interno del quadro della serie, in cui persino un momento di potenziale paura come quello dell’incidente in bicicletta di un signore danese diventa un atto di cura di Marcus, ricambiato da un intenso abbraccio senza parole.
Ma è Richie (Ebon Moss-Bachrach) l’osso duro del team – lo sanno loro e lo sappiamo anche noi. È per questo che il settimo episodio, “Forks”, pur mettendo in scena un cambiamento forse troppo rapido per avverarsi in una sola settimana, colpisce nel segno e ci conquista, perché ci mostra cosa possa diventare una persona quando non solo ha un obiettivo, ma ne coglie la vera essenza. Richie è un uomo nato per stare in mezzo alla gente, ma allo stesso tempo incapace di moderare i propri istinti ogniqualvolta senta pungolate le sue insicurezze e i suoi complessi d’inferiorità. È per questo che inizialmente si mostra riluttante a fare bene il suo mestiere, perché crede che iniziare dal pulire delle forchette sia un atto derivato dal giudizio nei suoi confronti, tutta una macchinazione del mondo (e di Carmy) per fargli sentire ogni grammo della sua inadeguatezza. È solo quando entra nel gioco e capisce che l’ossessione per il dettaglio del cugino nasce da un’esigenza ben precisa – fornire il miglior servizio possibile per persone che in quel ristorante ci vanno non solo per il cibo ma soprattutto per l’esperienza – che avviene la svolta.
Richie dimostra di essere una spugna in grado di apprendere alla velocità della luce, di interfacciarsi con chiunque, e paradossalmente proprio per questo di sentirsi a proprio agio persino durante una chiacchierata con Chef Terry (una sempre perfetta Olivia Colman). Decine di persone avrebbero avuto le gambe molli trovandosi vis-à-vis con una chef di quel livello, ma lui no, e non perché non gli interessi: non succede perché si relaziona con lei da un punto di vista personale, chiedendole la cosa più umana possibile (perché diavolo sia lei a pelare i funghi quando potrebbe farlo fare a chiunque) e ricevendo in cambio una conversazione onesta e sincera proprio grazie a questo modo di interfacciarsi con lei, senza terrori ma neanche reverenze. Chef Terry racconta cosa vuol dire trovarsi con un pugno di mosche alla soglia dei quarant’anni e recuperare la forza di ricostruirsi al punto da arrivare esattamente dov’è lei: è proprio questo il discorso di cui Richie aveva bisogno, dopo aver perso un cugino che è stato per lui un fratello e dopo aver dovuto abbandonare definitivamente ogni possibilità di tornare con l’ex moglie Tiffany (Gillian Jacobs).
A chiudere il gruppo, pur non avendo un intero episodio su di lei, troviamo Natalie/Sugar, che passa dal dover essere praticamente convinta a lavorare al progetto a esserne così coinvolta da capire, nel season finale, di voler lavorare al The Bear. Sugar è la dimostrazione di come – pur avendo lo stesso bagaglio di traumi familiari di Carmy – ci sia una possibilità di autoricostruzione nel momento in cui si trova un obiettivo e si riesce al contempo ad avere la propria vita. Non è una coincidenza il fatto che in questa stagione sia incinta: è infatti la prova (e non sarà l’unica) che lavoro e vita privata possono coesistere, che dare tutto e dare il meglio di quello che si ha in un progetto non deve avere come contropartita la solitudine e l’isolamento, soprattutto se si coinvolge chi si ha accanto nel proprio percorso. Il marito, Pete, non sarà forse l’elemento più apprezzato della famiglia, ma è una brava persona, che riesce a cogliere il punto quando dice a Sugar: “You’re easier. […] Because you love this, and, like, you’re not as pissed all the time”.
A livelli diversi, ogni persona di questo gruppo si muove verso la novità e l’ignoto ribilanciando di volta in volta oneri e onori, responsabilità e momenti personali. Sotto questo profilo, Sydney e Carmen sono decisamente più in difficoltà.
You’re going to have to care about everything more than anything
Se Carmy è quello che nella prima stagione ha fatto da volano per tutti gli altri, possiamo dire che Sydney sia quella che ha risvegliato in Carmy la voglia di mettersi davvero in gioco. A unirli non è solo un sogno comune, ma anche le paure condivise, le ansie dettate dal “non abbastanza”: se per lui è “non dare abbastanza”, per lei è “non essere abbastanza”, e quando due insicurezze del genere si uniscono per creare qualcosa, possono farsi bene a vicenda quanto ferirsi mortalmente.
A sottolineare questo concetto troviamo la terza puntata che è incentrata su Sydney per un motivo ben preciso: Carmy la lascia da sola, dandole buca all’ultimo per un giro di test di cibi che peraltro era stato proprio lui a suggerire. “Sundae” è un episodio che fa del processo creativo culinario il vero protagonista, grazie a un tour per ristoranti e locali che Syd intraprende in solitaria e che la porterà a girare per Chicago con la mente aperta a ogni suggestione. Come dirà anche Luca a Marcus, i piatti migliori non sono quelli che arrivano dalle tecniche più raffinate ma dall’ispirazione, e per questo bisogna passare tanto tempo in cucina quanto fuori; è lo stesso messaggio che troviamo qui, con la splendida regia di Joanna Calo che mostra l’anima creativa di Syd attraverso l’accostamento di immagini – palazzi, pasta, finestre, ravioli, ricordi d’infanzia, piatti ideali.
Il problema di Sydney è che il suo costante non sentirsi all’altezza la porta a non puntare i piedi quando ce n’è bisogno e a farlo troppo quando è assolutamente non necessario: Syd e Carm passano una stagione intera a non essere sintonizzati sulle stesse frequenze, ed entrambi pensano che sia perché l’altro non ha abbastanza fiducia in loro. Il confronto che avviene nel penultimo episodio, sotto a quel tavolo che per la prima volta li vede raccontarsi a cuore aperto, li riconduce al nocciolo della questione: entrambi sono in grado di tirare fuori il meglio dall’altra persona, di darsi manforte, di tenere il timone quando l’altro è in difficoltà. Il loro è un duo in costruzione che ha ancora molto lavoro davanti, soprattutto a livello di comunicazione: se ci sarà – come si spera – una terza stagione, questo sarà uno degli snodi fondamentali.
E infine arriviamo a Carmy. Il suo percorso, che inizialmente ci viene mostrato sulla strada giusta – la terapia di gruppo, la ricerca di “joy and amusement”, il rapporto con una Claire ritrovata che pare quasi caduta dal cielo al momento giusto – in realtà è una strada falsata in partenza.
Non è la paura il problema, e neanche il bilanciamento tra lavoro e vita privata: la vera questione sta a un livello molto più profondo ed è quella per cui Carmy non crede di aver diritto alla felicità, di potersela meritare. Dall’esterno sembra che ci provi a concedersela, nonostante la riluttanza iniziale, ma lo fa nel modo sbagliato, sbilanciato, facendo sì che il tempo dedicato a Claire diventi letteralmente tempo sottratto al The Bear; e in fondo basterebbe solo parlare, anche perché Claire lavora in prima linea in ospedale, dunque sa benissimo cosa voglia dire trovare equilibrio tra la propria vita e un lavoro che è la quintessenza dell’emergenza. Carmy scopre che può essere felice, ma non pensa di meritarselo: e, come in una profezia autoavverante, fa inconsciamente tutto ciò che serve per mettersi nelle condizioni di dover fare una scelta; per condursi a un punto in cui lui possa dire di averci provato ma di non potercela fare perché per questo lavoro non si può avere altro a cui pensare – mentre tutte le persone attorno a lui sono la dimostrazione di quanto questo non sia vero.
Capire Carmy non è facile, ma questa stagione ci viene incontro con “Fishes”, l’episodio forse più sorprendente di tutti non solo per la durata (il doppio rispetto agli altri), non solo perché arriva direttamente dal passato, e neanche perché è pieno – fin quasi all’esagerazione – di guest star. Torniamo indietro di anni, a un Natale a casa Berzatto che ci costringe a rivalutare i livelli di ansia della scorsa stagione: tra le crisi della madre Donna (una Jamie Lee Curtis da Emmy immediato), la lite tra Michael e Uncle Lee (Bob Odenkirk), la confusione e la tensione che serpeggiano in egual misura in una casa in cui i legami di parentela acquistano e perdono di valore a seconda di quanto conviene, Carmy ha ben poco di stabile a cui aggrapparsi. Certo, c’è la cugina Michelle (Sarah Paulson) e il compagno Steven (John Mulaney), ma non sono che una piccola boa in mezzo al vortice di ansia e biasimo, di risentimenti e sensi di colpa che risucchiano l’intero gruppo e soprattutto Carmy, che in quella serata cristallizza tutti i suoi traumi e al contempo il suo inscindibile legame col resto della famiglia.
“Fishes” è un episodio sorprendente per tutti i motivi sopra esposti, ma soprattutto perché scopriamo la sua vera natura solo nell’ottava puntata: quella a cui abbiamo assistito non è stata una analessi narrativa predisposta per lo spettatore, ma un ricordo di Carmy, che nel presente si ritrova ad avere un attacco di panico e a raccontare a Claire “di quel Natale in cui mia mamma ha sfondato la casa con un’auto”. Carmen Berzatto non è ancora pronto per trovarsi sul ramo ascendente della sua parabola perché è ancora nella fase in cui, piuttosto che affrontare i suoi demoni (specialmente quello in cui dovrà riconoscere di non essere molto diverso da sua madre), è deciso a colpevolizzare la natura del suo lavoro per giustificare il fatto di non poter essere felice; anzi, di “non aver bisogno” né di dare, né di ricevere gioia e divertimento, perché è deciso a raccontarsi un mondo in bianco e nero, in cui la moneta da pagare per la felicità è il fallimento su tutto il resto – un fallimento che non è ovviamente disposto ad accettare.
La seconda stagione di The Bear aveva un compito arduo dopo l’inaspettato ma meritatissimo successo della prima annata: aver rallentato il ritmo del racconto per dare spazio al percorso di tutti, averlo affiancato alla costruzione del The Bear e aver invertito i percorsi personali rispetto ai primi otto episodi sono stati tutti elementi che hanno portato a un’annata diversa dalla prima e persino migliore. La terza stagione non è ancora stata annunciata, ma sarebbe del tutto insensato abbandonare qui un racconto che ha ancora così tanto da dare, soprattutto nel modo che ha di legare l’arte della cucina alla natura umana, i sentimenti esasperati a quelli più sottili, la cura degli altri a quella per se stessi. Dopo un’annata come questa non possiamo che aspettarci una risalita anche per Carmen Berzatto, e quel che è certo è che saremo qui ad aspettarla.
Voto: 9
Ciao Federica. Ottima recensione come sempre. Ho visto la prima stagione su Disney+, anche se a dirla tutta, non mi aveva colpito così tanto. Carina, ma lontano dal capolavoro che si sente dire in giro. Sicuramente però guarderò la seconda stagione.
[messaggio editato dalla Redazione]
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La Redazione
Seriangolo.it
Come non assegnare un’altra stella, la seconda, a The Bear? Per la cronaca cito “Le due stelle Michelin vengono assegnate quando la personalità e il talento dello chef traspaiono chiaramente dai suoi piatti; la sua cucina è raffinata e ispirata.”.
Ora subito al lavoro per la terza stagione (e stella)!