Sherlock termina la sua quarta stagione con questo terzo appuntamento, un episodio che non ha certo mancato di dividere il pubblico. Tra differenti piani di lettura ed una discutibile risoluzione, “The Final Problem” mette in campo tutto quello che Moffat e Gatiss sono in grado di dare.
Sherlock è forse la serie più rappresentativa del grande successo dei telefilm britannici degli ultimi anni: anche grazie ad una spiccata capacità autoriale di riscrivere i classici di Arthur Conan Doyle senza però per questo astenersi dall’adattarli – al punto che si può legittimamente sostenere che siano più fedeli ai romanzi questi episodi che molte altre riprese più pedisseque –, lo show inglese ha avuto un successo enorme ed ha portato i suoi protagonisti alla netta ribalta internazionale: prima di Sherlock pochi avrebbero saputo scrivere “Benedict Cumberbatch” correttamente. Con Sherlock, però, siamo alle prese con una serie atipica, composta infatti da un arco episodico estremamente ristretto – ciascuna stagione dotata di soli tre episodi, per quanto dalla durata monstre – ma con una forte ricorsività e con un gran numero di riferimenti interni.
Una delle critiche maggiori che ha subito questa stagione è il forte cambiamento di prospettiva: se le prime due annualità hanno brillato in particolare per l’attenzione nei confronti dei casi – al punto che ciascun episodio poteva esser guardato, per la verticalità della propria trama, quasi anche senza aver bisogno delle altre –, con la terza e ancor più con la quarta stagione la trama orizzontale ha assunto il predominio completo, giungendo ad eliminare quasi del tutto la parte investigativa più propriamente detta. Se con il primo episodio questa scelta ha dato vita ad una puntata sotto troppi punti di vista imperfetta e non in grado di reggere il ritmo, il secondo è stato invece decisamente più in forma, segno di una buona scrittura alle spalle. Il punto focale dell’attenzione si è decisamente spostato, quindi, da un piano narrativo a quello più strettamente legato ai personaggi: è a loro che viene data la maggiore centralità, sono i loro sentimenti, i loro difetti, le loro idiosincrasie ad essere servite allo spettatore, affinché possa nutrirsene e possa apprezzarle fino in fondo. Non c’è assolutamente niente di male nel ritenere che Sherlock sia cambiato molto dalla prima stagione, perché è una verità innegabile: per una scelta legittima da parte degli autori si è preferito cambiar pelle al proprio spettacolo e spingere l’acceleratore sotto un altro profilo narrativo, servendosi anche del tempo extradiegetico maggiore tra una serie e l’altra. Questa decisione, dunque, non potrà che essere intrinsecamente divisiva e non stupisce affatto considerando che i principali artefici di questo mutamento, nonché gli unici veri imputati nel caso di delusione, rispondono al nome di Mark Gatiss e Steven Moffat.
Quest’ultimo non è certo un nome nuovo per chi segue Doctor Who soprattutto a partire dal 2010, ossia da quando ne è diventato lo showrunner cambiando pelle alla serie. Di Moffat può dirsi tutto ed il contrario di tutto: possiede una scrittura autoriale che è in grado di aprire mondi sconfinati per alcuni e portare l’assurdo e la pochezza per altri; è uno scrittore nel suo significato più puro, perché nella sua penna egli inserisce con grande acume tutte le proprie ideologie ed i propri stilemi che ne fanno un autore riconoscibilissimo, nel bene e nel male. Il suo è un tocco così personale ed invadente che non può che suscitare risposte contrastanti, ma a cui va dato atto di un coraggio e di una potenza espressiva non certo diffusa. Ancor più di quanto fatto da Gatiss, il quale ne condivide l’universo immaginifico senza però possedere le stesse capacità di scrittura, Moffat ha condotto i suoi due personaggi per eccellenza, questo Sherlock Holmes ed il Dottore di Capaldi, verso un deciso avvicinamento: due geni, due grandi personalità che hanno difficoltà ad interagire con il prossimo per una serie di traumi e di ferite, e che solo con l’amicizia (o l’amore) riescono a superare le barriere che si sono imposti. Ma ancor più delle vicende da cui essi sono segnati è l’atteggiamento da superuomo, da persona brillante e al contempo incredibilmente ingenua, è insomma l’attitudine a prendersi gioco del mezzo espressivo che fa di loro due istrionici rappresentanti dello sguardo moffattiano nei riguardi del mondo.
I personaggi di Moffat sono dunque grandiosi, potenti, tanto quanto le sue trame sono enormi, esagerate, spaventosamente piene di incoerenze interne a cui è quasi superfluo chiedere una spiegazione concreta. Egli costruisce grandiosi cliffhanger e li disattende con una facilità disarmante (pensiamo alla caduta di Sherlock, o al finale dello scorso episodio passato in sordina con una deludente ed approssimativa risposta), in una maniera che ad altri non è stato mai perdonato – Lindelof e Lost ancora chiedono il conto. I problemi narrativi della sua scrittura sono molteplici, è impossibile elencarli tutti: eppure l’abilità da maestro è quello di farli notare solo una volta terminata la visione generale, perché il viaggio è dannatamente divertente. Questo episodio, che pur presenta un numero così ampio di incoerenze interne da permettere l’esplosione dei forum di discussione, è comunque un grande divertimento da seguire perché riesce a coinvolgere anche laddove sarebbe stato meglio avere un ritmo ed un passo diverso. È così che in una puntata che avrebbe tanto da dire si inserisce una parte centrale ripetitiva e davvero poco efficace – la breve investigazione circa il cecchino – che avrebbe potuto fornire molto più materiale di discussione. Oppure pensiamo alla parte iniziale, sia nella beffa ai danni di Mycroft sia nel momento thriller – sul quale né la scrittura né la regia hanno davvero il controllo: due strutture narrative che non hanno granché senso, anzi sembrano (soprattutto nel secondo caso) controproducenti nei confronti di quello che sarà poi spiegato come piano finale.
Eppure se Moffat considera una sua scelta come azzeccata, la sfrutterà allora fino in fondo, per poi lasciarla sospesa nell’aria e priva di conseguenze reali, come nel caso della tossicodipendenza di Sherlock o della dichiarazione d’amore di Molly; ma d’altronde spesso e volentieri l’autore ha dimostrato come le sue serie siano una catena di avvenimenti che non sembrano fermarsi davvero, quasi come se la rimozione dalla memoria esercitata da Sherlock Holmes sia la stessa operazione che si spera sappia fare anche lo spettatore. Di conseguenza l’episodio – e l’intera quarta stagione – farà storcere e non poco il naso a chi in queste “trappole”, mi si permetta il termine, non ha né voglia né intenzione di cadere e ad una visione altalenante preferirebbe di gran lunga una mediocritas quantomeno coerente.
My brother has the brain of a scientist or a philosopher, yet he elects to be a detective, […] but initially he wanted to be a pirate.
Se c’è un piano dove Moffat può invece essere giudicato con minore severità, e anzi spesso gli va riconosciuta una particolare padronanza del mezzo, è nel trattamento dei propri personaggi che risultano spesso davvero disegnati con una insolita umanità e capacità d’analisi. Più d’ogni altro splende, ma non potrebbe essere diversamente, quello Sherlock Holmes simbolo mondiale di intelligenza ed archetipo dell’investigatore per eccellenza. È lui il totale protagonista di questo episodio (dopo Watson negli episodi scorsi) ed è il suo modo di decifrare la realtà intorno a sé che piega l’intera narrazione di “The Final Problem”. Quando abbiamo conosciuto Sherlock nel primo episodio eravamo di fronte ad un uomo freddo, ai limiti dell’autismo, in un trend narrativo che ha riscontrato in questi anni grande successo di pubblico; quella sua algida freddezza e abilità a tenere tutto dentro di sé era il frutto di un trauma di cui non si era mai parlato davvero e che gli autori hanno il merito ora di indagare in virtù di un cambiamento e di un’evoluzione del personaggio che non potrebbe non esserci dopo quattro stagioni. La presenza e l’importanza di John Watson, che tanta narrativa rosa hanno generato nelle fan fiction più fantasiose e talora moleste, non erano state finora spiegate in altro modo se non come caratteristiche di quella persona che, con le sue mancanze ma grazie alla sua lealtà, era riuscita a tirar fuori Holmes dal proprio palazzo mentale in cui si rifugiava nei molti momenti necessari. Il suo carattere si è formato e si è plasmato con quella amicizia che è poi rifluita in un matrimonio – quello di Watson – e in una paternità di cui ora si condividerà l’onere.
Eppure con questo episodio, e con una costruzione di grandissimo pregio, si scende ancor più in profondità nella psiche di Sherlock fino ad arrivare a svelare il grande non detto, il rimosso, quel fulcro esistenziale essenziale che aveva a catena imposto nella mente di Sherlock tutta una serie di chiavi di sicurezza. La perdita del miglior amico, quel Victor Redbeard Trevor (questo episodio, come gli altri, è un tripudio di citazioni ai romanzi) di cui aveva persino trasfigurato l’essenza pur di distanziarsi dal dolore della perdita, è stata all’origine dell’intera formazione mentale del grande investigatore. Nelle sue innumerevoli menzogne Mycroft dirà una pura verità: sono le azioni di Eurus ad aver determinato l’intera esistenza umana di Sherlock, anche se l’uomo, come quasi sempre capita, non ne era certo consapevole. John Watson è dunque per Sherlock Holmes il ritorno di Victor Trevor, la possibilità di condividere la propria vita con un altro essere umano, a prescindere dal “triviale” domandarsi della natura e dell’estensione di quel sentimento. John Watson lo ha portato ad aprirsi al mondo e questo ha significato interagire con altri esseri umani: ecco perché non solo fa sorridere che si ricordi finalmente il nome di Greg Lestrade, ma spiega soprattutto perché a noi faccia così male quella che è la sequenza più riuscita dell’intero episodio, la tortura nei confronti di Molly e dei suoi sentimenti. Tale personaggio, praticamente assente in questa stagione, ritorna solo per trasmettere quanto Sherlock sia sempre meno chiuso nei confronti dei sentimenti altrui, con tutta la pochezza che essi rappresentano su un piano intellettuale, e quanto male possa fare la consapevolezza di spezzare i sogni ed i desideri degli altri.
The truth is rarely pure and never simple.
Grande mattatore di questo episodio, però, è il personaggio di Mycroft Holmes. Non solo nell’interpretazione di Mark Gatiss, questa sì davvero convincente fino in fondo (a differenza della scrittura di “The Six Thatchers”), ma anche e soprattutto nella caratterizzazione. Mycroft ci era sempre apparso, ancor più di quanto fosse il fratello minore, un uomo restio – se non contrario – all’interazione umana, incapace di capire i sentimenti se non come ostacolo al predominio della mente. Mycroft Holmes era una macchina di pura mente, privo di un John Watson che lo portasse fuori dalla propria torre d’avorio. La realtà dei fatti si è però dimostrata ben distante da questa immagine perché il John Watson di Mycroft è suo fratello Sherlock. Infatti, anche se i rapporti tra le due coppie di uomini sono sostanzialmente differenti e su livelli e piani diversi, ciò che conta è come i due grandi geni siano costretti ad uscire dalla propria comfort zone in virtù di interazioni umane che in altre occasioni li avrebbero disgustati. Il momento rivelatore, più di ogni altro, è il tentativo di spingere il fratello ad ucciderlo, puntando proprio su quegli stessi sentimenti che avevano causato la morte di Mary solo due episodi fa: suscitarne l’orgoglio per spingerlo ad azioni incontrollate.
Quello sarebbe stato il suo sacrificio finale per la salvaguardia del proprio fratello. È lui, d’altronde, ad essersi sobbarcato di pesi da altri considerati intollerabili: non ci si riferisce qui al ruolo fondamentale che riveste per l’Inghilterra – che è sempre molto fumoso, sempre troppo conveniente – quanto alla scelta di occuparsi della famiglia anche più profondamente dei suoi stessi genitori. È lui che si è occupato di Eurus, pur con tutte le difficoltà che una scelta del genere hanno comportato sul proprio animo (particolarmente ispirata la sequenza dei suoi ricordi da bambino); ed è sempre lui che sorvegliava Sherlock non solo nei suoi problemi di tossicodipendenza, ma anche nei giochi della sua mente atti a preservarlo dal dolore della memoria. C’è però un piano su cui Mycroft ha subito un trattamento non proprio onorevole: nell’ottica di dargli maggiori iniezioni di umanità si è altresì scelto di trasformarlo da una delle menti più brillanti ad un mediocre che commette errori così grossolani da far seriamente dubitare della sua intelligenza. Passi l’incapacità di comprendere fino in fondo la portata delle abilità della sorella, ma come si può davvero credere che una persona così intelligente abbia potuto permettere l’incontro tra Eurus e Moriarty e dare loro cinque minuti senza alcuna sorveglianza? E questo è solo uno dei troppi momenti in cui si avverte una certa artificiosità nella scrittura: tramite errori grezzi Mycroft si rivela umano, certo, ma anche profondamente depotenziato proprio nel momento in cui l’intelligenza del fratello non viene oscurata dalla raggiunta umanizzazione.
I that am lost, oh, who will find me, deep down below the old beech tree? Help succor me now the east winds blow, sixteen by six, brother and under we go.
Eurus, dunque, la terza Holmes: il suo svelamento nell’episodio precedente era stato il momento più alto di una puntata dal livello indiscutibile. Questo episodio la vede definitivamente come villain principale e ne esce, com’è tipico della scrittura moffattiana, con luci ed ombre. C’è poco tempo per approfondire il personaggio, ma è innegabile che gran parte del suo fascino sia legato all’interpretazione di Sian Brooke che è riuscita ad infondere una grande umanità a quella che è una superba mente malvagia, corrotta da un atteggiamento naturale che non le ha mai permesso di uscire dalle proprie fissazioni. Eurus è la bambina che si sente estranea, è la persona dotata di un acume senza pari che, pure in una famiglia il cui quoziente intellettivo minimo dev’essere l’invidia delle università più selettive, non riesce a trovare la sponda emotiva di cui ha bisogno. L’uccisione di Victor ed il tentativo di fare lo stesso anche con Watson risponde al suo bisogno di una connessione umana che ha desiderato ma che ha anche fallito nel raggiungere, desiderosa e al contempo invidiosa del fratello Sherlock.
Non nascondiamoci, però, dietro la sola fascinazione: Eurus è un personaggio esagerato, è un Joker all’ennesima potenza che è in grado da solo di mettere in atto un piano assurdamente vasto (ed anche incoerente, almeno stando all’esplosione di Baker Street) con capacità intellettive non distanti dai poteri di uno degli X-Men. Per quanto un altissimo grado di sospensione dell’incredulità sia sempre necessario quando si ha a che fare con Moffat e Gatiss, si avverte il bisogno di un limite, anche perché Eurus è in grado di prevedere tutto tranne le cose che contano – per esempio che Sherlock avrebbe finto di volersi suicidare per uscire dallo stallo che si era creato. Anche la risoluzione finale in generale è parsa davvero troppo frettolosa; non è l’idea in sé della necessità degli affetti, beninteso, ad essere fuori fase perché è perfettamente coerente con la costruzione che si è fatta del personaggio fino a quel momento, nonostante la scarsa originalità: è la messa in atto dell’idea che sembra non corrispondere alla grandezza e alla giustezza dell’occasione. Ne consegue così che gli autori, scorretti sin dal primo momento nel mostrarci due Eurus bambine diverse per non svelare ciò che altrimenti sarebbe sembrato ovvio sin dalla prima istanza, non riescono fino in fondo a rendere giustizia ad un personaggio che avrebbe potuto dire molto più di quello che riesce a fare.
Did you miss me?
Annunciato e più volte evocato, fa il suo – breve – ritorno anche il Moriarty di un Andrew Scott sempre più in forma. Il suo arrivo a Sherrinford per un flashback, che per qualche attimo è sembrato un ritorno dal mondo dei morti, è sicuramente d’effetto, simbolo di come si sia fortemente sentita l’assenza di questo personaggio. Non c’è però che da notare una generale insoddisfazione nelle modalità in cui egli ha preso parte a questo episodio, con una serie di apparizioni in brevi video d’accompagnamento di cui non se ne sentiva la necessità. Il punto che maggiormente interessa lo spettatore è il colloquio tra i due personaggi negativi ed il capire fino a che punto si siano influenzati vicendevolmente. È possibile rispondere alla domanda su chi sia stato determinante nei piani dell’altro? Perché la questione presenta diverse possibilità. Da un lato, infatti, la voce di Jim Moriarty è presente nel Palazzo Mentale di Eurus, a significare che l’uomo è entrato molto in profondità nella psiche della donna; dall’altro, però, dalla frase di Sherlock “It took her only five minutes to do all of this to us” sembra capirsi il contrario, cioè che sia stata la donna a spingere Moriarty verso l’ossessione nei confronti di Sherlock. In assenza di quel dialogo che avrebbe potuto rispondere a questo e ad altri interrogativi, l’unica reale supposizione sembrerebbe essere una corrispondenza di “delittuosi” sensi, la cooperazione e la sovrapposizione tra due grandi e brillanti menti al servizio del lato più oscuro del proprio animo.
Per quanto riguarda “The Final Problem”, è evidente che di difficoltà in generale l’episodio ne ha incontrate parecchie, più di quanto sarebbe stato necessario. Ad una serie di leggerezze, talora persino grossolane, sono corrisposti momenti decisamente più riusciti ed un approfondimento dei personaggi che ha rari paragoni in bellezza. Per quanto riguarda la quarta stagione è indiscutibile che non tutto abbia funzionato a dovere: ad un secondo episodio che è tra i migliori in assoluto che Sherlock abbia mai saputo offrirci si paragona un primo che è stato un autentico disastro, figlio di una volontà a cui non è seguita una scrittura nemmeno lontanamente soddisfacente. Con questo episodio le cose si sollevano decisamente da quel brutto incidente di percorso e se davvero sarà l’ultima avventura di Sherlock Holmes e del Dottor Watson non possiamo ritenerci poi così tanto insoddisfatti; d’altronde l’apparizione finale di Mary ed il ristabilirsi di un equilibrio originale sembra proprio presupporre la fine della serie in un ultimo (emozionante) tributo. Resta il fatto che Sherlock sia (stata?) una serie di una straordinaria potenza emotiva, con degli alti di assoluta bellezza e dei bassi di insuperabile confusione e presunzione.
Voto 4×03: 7
Voto Stagione 4: 7½
Occhio però che la tossicodipendenza di Sherlock era simulata, non reale. lo dice esplicitamente nell’episodio 2 (che ho visto 4 volte dovendolo recensire, lo so a memoria)
Se non ricordo male (ma potrei sbagliare), quando Mycroft parla con Moriarty per dirgli che lui è il “regalo” di Eurus, Moriarty pare essere già ossessionato da Sherlock. Dunque tale ossessione non è dovuta a quei 5 minuti di colloquio con Eurus. A mio parere (a parte questo particolare e quello della tossicodipendenza simulata, come fatto notare sopra) la recensione è corretta. Condivido in pieno.
No ma è ovvio, sono 5 anni fa, siamo subito prima o subito dopo la finta morte di Sherlock
Ciao Mario, questa recensione era difficilissima e al contempo bellissima da scrivere vista la densità dell’episodio e della stagione.
Io a differenza tua ho apprezzato molto questo finale, nonostante qualche pecca non lo renda perfetto come l’episodio che l’ha preceduto.
Volevo soffermarmi su due, tre di cose su cui non concordo e di cui forse sarebbe interessante parlare:
1) Mycroft: a me non sembra che la sua umanizzazione abbia sminuito il personaggio o lo abbia depotenziato. Mycroft è sempre stato una grande mente, più fredda del fratello, più calcolatrice ecc. In questa stagione gli autori vanno nelle pieghe della loro umanità, mostrandoci quanto questo tipo di menti se messe a contatto con i loro sentimenti, con le loro emozioni più scoperte, possano a seconda delle circostanze compiere scelte meno lucide o più empatiche. Abbiamo visto il protagonista nel primo episodio pagare a duro prezzo questo comportamento, così come lo abbiamo visto diventare una persona migliore proprio grazie alle proprie emozioni. La stessa cosa accade con Mycroft (ovviamente con un minutaggio inferiore vista l’importanza diversa dei due personaggi nell’economia del racconto), che come giustamente dici ha nel fratello il suo Watson dal punto di vista emotivo e nella sequenza della scelta tra i due da uccidere sono proprio i sentimenti che prova a fargli compiere la scelta giusta. Per converso, nel caso dell’incontro tra Moriarty e Eurus quegli stessi sentimenti gli fanno commettere un’ingenuità, perché anche i geni le commettono. Direi che il Watson di Mycroft non è solo Sherlock, ma tutta la famiglia, visto il ruolo che si è auto-attribuito proteggendo il fratello, facendo da tramite con i genitori e soprattutto imprigionando Eurus. Proprio quel senso di colpa verso la sorella gli ha fatto commettere questa leggerezza. Senza contare che la donna ci viene mostrata dotata di un’intelligenza smisurata, tale da poter convincere chiunque, persino i suoi due fratelli, a fare quasi qualsiasi cosa.
2) Uso di Moriarty: qui è molto complicato il rapporto col racconto e secondo me Moffat e Gatiss fanno un lavoro eccezionale. “The Final Problem” è il racconto da cui è stato tratto il season finale della seconda stagione, quello con la morte di Moriarty. Moriarty però, come Sherlock, non morirà mai, sia perché è una figura letteraria dalla grande potenza iconica e fortemente archetipica, sia perché diegeticamente sarà sempre “l’uomo nero” del protagonista, la sua paura più grande, come si vede chiaramente dal suo uso nel finale della terza stagione. In questo caso gli autori secondo me fanno un lavoro molto raffinato: si ispirano allo stesso racconto tanto da adottarne il titolo; riportano Moriarty sullo schermo con un flashback che inizia con uno splendido montaggio musicale; in due minuti costruiscono un colpo di fulmine perfetto con Eurus; trasformano il Moriarty letterario di “The Final Problem” in un Giano Bifronte che ha il corpo di Eurus ma porta avanti la vendetta del defunto arco-nemico di Sherlock.
3) Piano di Eurus: non capisco quando dici “anche perché Eurus è in grado di prevedere tutto tranne le cose che contano – per esempio che Sherlock avrebbe finto di volersi suicidare per uscire dallo stallo che si era creato.”. Certo che Eurus ha previsto che Sherlock avrebbe finto di volersi suicidare per uscire dallo stallo. Era proprio quella la prova da superare ed era proprio quello il comportamento da avere per superarla. Il piano di Eurus non è far uccidere uno tra Watson e Mycroft, ma sfidare Sherlock in una gara di intelligenza dove tutte le tappe hanno un preciso ordine e soprattutto una destinazione finale: solo fingendo di uccidersi Sherlock sarebbe passato al livello successivo e avrebbe fatto un passo in avanti verso la destinazione finale, ovvero salvare Eurus (salvando la bambina) e rispondere alla sua estrema richiesta d’aiuto.
Questa stagione è stata di una densità enorme e gli autori si sono presi dei rischi importanti, anche a costo di scontentare qualcuno o di esporsi alle critiche. Io seppur non acriticamente l’ho amata e avendo visto tutte e tre le puntate due volte ciascuna credo davvero che se ne potrebbe parlare per ore tanta la quantità di cose che hanno da raccontare e mostrare. Se questo vuol dire aspettare tre anni, allora ben venga questa attesa, seppur frustrante.
aggiungo che la bambina non ha un aspetto diverso da Eurus piccola solo strumentalmente: prima di tutto la bambina è solo una proiezione mentale di Sherlock (tant’è vero che continua la metafora dell’aereo come parte del suo mind palace, sia come indicazione che siamo nell’immaginzaione di Sherlock sia come indice di quento Eurus sia empatica con questa immaginazione) che non la vede mai davvero. E Sherlock in primis non ricorda la faccia di Eurus piccola, ma soprattutto non le vede come la stessa persona.
Rispondo un po’ in generale, un episodio del genere ha certo bisogno di un approfondimento necessario (nonostante la lunghezza estenuante della recensione).
@Attilio, come ho indicato nella recensione, sono d’accordo sul fatto che ci si trovi di fronte ad un’operazione estremamente complessa di cui va certo dato atto a Gatiss e a Moffat. Il problema è che a mio avviso la realizzazione è stata molto più confusionaria e ad una progettazione grandiosa non è corrisposto un episodio altrettanto riuscito (a differenza di quanto accaduto nell’episodio precedente).
Tema Mycroft: Eurus ha un potere esagerato, che va ben oltre la necessaria sospensione dell’incredulità di cui questa serie ha spesso bisogno. È vero che Mycroft ha per questo abbassato le difese, permettendole tutto quello che richiedeva; ma trovo comunque svilente che un personaggio di una tale caratura, di una tale intelligenza possa davvero acconsentire ad una richiesta del genere, a maggior ragione sapendo il contrastato rapporto esistente con il fratello (di sicuro siamo prima della “caduta” di Sherlock, dato che Moriarty si è ucciso sul palazzo). Non è attraverso un’operazione di questo tipo che si dà forza al personaggio e alle sue debolezze, perché errori del genere mi sembrano davvero grossolani. Ma è il solito problema di molte trame di Moffat: ottime idee, esecuzioni affrettate.
Sul secondo punto non sono affatto d’accordo: l’uso di Moriarty qui è puro fan service, tanto più che è sostanzialmente inutile (se si esclude il discorso con Eurus di cui non sappiamo nulla) all’interno della trama; inutile nella sostanza, eh, perché il suo ruolo nella esistenza di Sherlock è confermato dall’apparizione della piscina – loro primo incontro, diciamo – e delle cascate. Mi domando se non sia una sorta di presa d’atto da parte degli autori che forse sia stato prematuro uccidere Moriarty alla seconda stagione.
Infine per quanto riguarda Eurus, la donna ha cominciato il suo piano con una bomba (!!!) che fa esplodere Baker Street (sorvoliamo sul momento thriller davvero poco riuscito), quindi tutta la tortura psicologica; la sensazione che ho avuto, però, è che lei fosse sinceramente sorpresa della scelta del fratello. Non dico che il tuo discorso non abbia senso, anzi è esattamente come l’avevo letta anche io: ma il prodotto che viene dato allo spettatore è questo, il processo alle intenzioni è significativo ma non può nascondere quelle che sono delle imperfezioni, se non degli errori, di realizzazione (ripeto, la “scelta” del finto suicidio era poi la più prevedibile, eh).
@Eugenia. Hai ragione che volendo se ne può trovare la motivazione, ma nei confronti dello spettatore è una scorrettezza bella e buona e fatta per non rivelare quello che è poi un grande twist all’interno della serie. Così come avrebbero tecnicamente dovuto usare la voce di Sian Brooke quando a parlare è la bambina, ma chiaramente non potevano farlo perché, anche qui, il twist sarebbe stato risolto con più facilità.
Ma certo io sono d’accordo che sia scorretto nei confronti dello spettatore, ma lo sono tanti espedienti narrativi. Per farti un esempio di amore letterario che condividiamo, alla Rowling è stato spesso imputato che le risoluzioni dei misteri di Harry Potter poggiano, nella maggioranza dei casi, su un dettaglio volutamente nascosto al lettore. Chiaramente è una critica senza senso, visto che il punto di vista maggioritario nei romanzi è quello di Harry, e dunque quel che non sa Harry non sappiamo neanche noi. Se questo però è vero per la Rowling, è vero anche per questo episodio
A me il lavoro su Moriarty non sembra puro fan service, anche perché parlare di Moriarty significa ogni volta parlare di Sherlock (vedi il frame della piscina che citavi) e in una stagione tutta dedicata ai personaggi come questa mi sembra molto centrato.
Poi capiamoci, riuscire a fare del fan service efficace non è mica un difetto, anzi, per una serie come Sherlock che negli anni è diventata un fenomeno popolare gigantesco fare del fan service fatto bene non è solo consigliato, ma è tra gli obiettivi principali della serie. E a giudicare dalla viralità del video di Moriarty che scende dall’elicottero mi sembra di poter dire che qui il lavoro è stato eccellente.
Sul piano di Eurus dici bene quando sostieni che ci vuole sospensione dell’incredulità, ma questa è proprio la condizione che permette le avventure dei protagonisti. L’intero orizzonte della serie di Moffat e Gatiss si basa su una richiesta di sospensione dell’incredulità totale, perché solo così gli eroi al centro della storia possono interpretare le loro storie. Come l’assalto alla barca prima di Sherrinford e come quasi tutto fin dalla prima stagione: Sherlock è una serie che parla di avventure fantastiche scritte nel reale, nel nostro presente, e sequenze come quella della bomba sono secondo me interne allo spirito del racconto audiovisivo.
Sulla bambina non capisco dove sia la scorrettezza. Quella che vediamo non ha nulla a che fare con Eurus perché è la proiezione dell’immaginazione di Sherlock e lui se la immagina così. Sian Brooke simula la voce di una bambina e non mi sembra così incredibile che una donna sia capace di fare la voce di una bambina.
Io la cosa che Moffat sia solito scrivere ottime idee con esecuzioni affrettate non l’ho mai capita. Certo ha scritto cose migliori e cose meno buone nella sua carriera come tutti. Ma per esempio in questa stagione ha realizzato un episodio perfetto, una vera esibizione di genio, e quest’ultimo è firmato a quattro mani e non sapremo mai chi ha fatto cosa.
Sono d’accordo con la recensione di Mario. Assistendo a questa ultima stagione di Sherlock, ho provato un vago senso di irritazione di cui non riuscivo a fissare bene i contorni. Lo stesso fastidio provato guardando alcuni episodi del Doctor Who, celebrati da molti, ma che mi avevano lasciato sostanzialmente freddo. Provo a dare voce alle mie sensazioni, consapevole che sto descrivendo stati d’animo soggettivi. il primo elemento consiste nella cosiddetta “umanizzazione” di Sherlock e di Mycroft. Si tratta di una pseudo umanizzazione, personaggi ultracerebrali cui viene appiccicata una maschera emotiva posticcia, di cui scopriamo traumi infantili come se ci trovassimo in una caricatura di psicoanalisi, che si trovano ad interagire in situazioni-limite senza perdere però le loro caratteristiche analitico-deduttive, ma compiendo errori di valutazione imperdonabili e out of character (Mycroft che permette a Moriarty di incontrare Eurus). Secondo punto: Eurus e le sue caratteristiche da “genio del male”. Tralasciando il modo in cui il personaggio è inserito nella narrazione, il potere di Eurus appare sconfinato e improbabile. la sua funzione è quello di costringere Sherlock e Mycroft a giocare con le loro vite e i loro affetti, secondo un canone che appartiene ai videogiochi impostati su più livelli. Vedere Sherlock costretto a decidere se sparare a Watson o a Mycroft o telefonare a Molly per estorcerle un “ti amo” mi è parso artificioso e strumentale a questo obiettivo. Credo che l’origine della mia irritazione abbia un nome e un cognome: Steven Moffat. L’autore è capace di grandi architetture sospese sul vuoto, trascura i vincoli di causalità e di verosimiglianza, si butta in costruzioni elaborate dalle fondamenta fragili e inconsistenti, s’innamora di idee che realizza in modo iperbolico. Probabilmente questa è una delle ragioni per cui viene apprezzato dai fan, al di là delle polemiche sul suo fare “fan service”.
Io questa stagione l’ho trovata pessima, e questo finale peggio ancora.
Per me Sherlock è diventato una baracconata buona solo per lo zoccolo duro dei fan.
A questo punto, se si vuole trovare ancora qualche traccia di Sherlock Holmes, e non di un pupazzetto per nerd, si può ripiegare solo su Elementary, come spiegato anche qui
https://www.theguardian.com/tv-and-radio/2017/jan/14/elementary-jonny-lee-miller