Pubblicato come libro nel 2001 ed una delle opere più acclamate del visionario autore Neil Gaiman, approda finalmente sul piccolo schermo American Gods che con la sua potenza narrativa e immaginifica si prepara a diventare una delle serie più rilevanti del panorama televisivo contemporaneo.
Non è un mistero che una larga fetta di pubblico fosse in trepidante attesa per la trasposizione televisiva di American Gods, un’opera letteraria perfettamente rappresentativa del proprio autore, quel Neil Gaiman considerato tra i migliori scrittori contemporanei, capace con la sua fervida immaginazione di spaziare da prodotti come Stardust e Coraline ad episodi di Doctor Who e a fumetti come il sublime Sandman. Gaiman ha fatto dell’onirico e della favola nera il proprio marchio di fabbrica: è ben comprensibile, dunque, il perché della grandissima attenzione alla notizia che a prendere le redini di questo progetto sarebbe stato Bryan Fuller.
Bryan Fuller è la mente dietro Hannibal, una serie che – tra alti e bassi – ha concentrato alcune delle creazioni visive più interessanti degli ultimi anni in TV. La sua presenza in campo, unita a quella di Michael Green che ha scritto Logan ed è pronto a debuttare con i nuovi capitoli di Alien e Blade Runner, è sembrato l’elemento fondamentale per una produzione di altissimo profilo; ad aggiungersi a tutto questo la conferma che a produrre e a trasmettere la serie sarebbe stata STARZ, un canale che non ha mai lesinato in fatto di sesso e violenza.
E dunque, com’è questo pilot di American Gods? Il giudizio è, necessariamente, da tenere sospeso: questo primo episodio ha un gran numero di qualità davvero ottime, ma anche una serie di difficoltà innegabili.
Andando per gradi: American Gods apre parlando di Shadow Moon (Ricky Whittle) che, a pochi giorni dal rilascio dalla prigione, scopre che la moglie ed il suo migliore amico sono morti in un tragico incidente. Ormai libero dalle maglie della giustizia, fa la conoscenza di Wednesday (Ian McShane) che gli offre un lavoro come sua guardia del corpo. Le cose, però, sembrano rapidamente rivelarsi ben più pericolose di quanto inizialmente avesse ritenuto.
Il primo elemento che bisogna considerare è che, pur attenendoci al controllo sugli spoiler di un certo rilievo, siamo alle prese con un racconto che ha una ossatura fantastica: si parlerà di nuovi e vecchi dèi che si scontrano per il predominio sull’umanità. A partire, però, da questa struttura il racconto scende con molto vigore e coraggio nell’ambito più terreno e sporco del genere umano, lasciandosi travolgere da una spinta sessualità ed una ricerca costante dei vizi più che delle virtù. Rimanga ben lontano chi cerca un fantastico alla Once Upon a Time: non potrebbe essere più fuori strada di così. Shadow Moon è violento, gli dèi più umani degli uomini stessi, con tutte le loro storture. In certi momenti – ed è forse questo l’aspetto meno originale ed interessante della serie – American Gods ammicca con troppa insistenza verso quello stesso pubblico che seguiva Banshee o Spartacus (non a caso anche quest’ultimo andava in onda sullo stesso canale), con scene di una violenza inaudita e compiacente, con poche donne e quasi sempre nude e/o impegnate in attività sessuali. Il limite tra ispirazione artistica e sfruttamento ai fini di ascolti è in alcuni momenti molto labile.
American Gods, però, è soprattutto estetica: ogni scena è studiata da Fuller e mediata attraverso le sue modalità espressive. Il sogno, che tanta parte ha nell’immaginario di Gaiman, trova in Fuller l’espressione artistica che in alcuni momenti tocca delle vette sublimi; ancora una volta, dunque, ritorna Hannibal senza, almeno in questo pilot, correre il rischio di allegorie estreme e fini a se stesse (rischio in cui è talvolta scivolata la serie dedicata al cannibale più famoso della storia). Non è un caso, poi, che a dirigere l’episodio – ed i due successivi – vi sia proprio David Slade, regista anche di vari episodi di Hannibal (compreso il suo pilot). L’unione di questi due artisti crea un episodio in cui lo sguardo visionario è assoluto padrone, delegando la trama, per ora, a mero orpello secondario e probabilmente irraggiungibile per chi non ha già le informazioni di prima mano. Chiunque abbia letto il romanzo, tuttavia, sa come la scrittura di Gaiman si adatti bene a questa visione: il ritmo infatti è anche lì tutt’altro che sostenuto, con un’attenzione molto più spinta all’ambiente circostante e alla costruzione di una mitologia – è proprio il caso di dirlo – di grande fascino.
Non c’è ancora, ed è un’altra ragione per ritenere che American Gods andrà più propriamente giudicato al termine della stagione, l’attenzione rivolta ad alcune delle tematiche più interessanti del romanzo e che vedono nello scontro tra divinità il terreno di coltura per un autentico sguardo alla società contemporanea, uno sguardo sull’oggi, per assurdo, ancor più centrato che sull’America del 2001, quando l’opera è stata scritta. Tematiche come immigrazione, vecchio e nuovo, tradizione e nuovi idoli diverranno sicuramente più rilevanti con il passare degli episodi.
Altro capitolo riguarda le interpretazioni: il sorvegliato speciale era ovviamente il protagonista Ricky Whittle, guardato con sospetto per la sua carriera che lo ha visto principalmente coinvolto con il prodotto CW The 100. L’opinione, ad ora, è però che l’attore se la stia cavando abbastanza bene, per lo spazio e la scrittura concessi. Non possiamo che alzare lodi verso Ian McShane, la cui ruvidezza di volto e voce è assolutamente perfetta nell’incarnare quel Wednesday che si professa a hustler, swindler, cheater, and liar. Su di lui ovviamente mancano ancora troppe informazioni per lo spettatore ignaro del sostrato narrativo, ma è innegabile che sia già profondamente fonte di grande fascino. Da segnalare anche Yetide Badaki nei panni di Bilquis e al centro di una sola scena ma che è già iconica e rappresentativa della serie stessa.
Un’opinione completa del pilot è dunque profondamente soggetta alla tendenza personale dello spettatore nei confronti di Fuller e della sua estetica: sarà incantato chi ha avuto già modo di apprezzarlo in passato, avrà avuto non pochi problemi chi invece non si trova sulla sua lunghezza d’onda. Gli spunti narrativi, però, sono sufficientemente potenti da far immaginare che la serie possa dire, nei suoi prossimi sette episodi, qualcosa di più. E dunque American Gods merita senza dubbio una possibilità grazie alla sua visionaria estetica, al coraggio di certe scelte e alle potenzialità della sua scrittura.
Voto: 7
mah, vista la puntata…. non sarei propriamente d’accordo con la recensione.
Mi è parso perlopiù un fumettone ammiccante e un po’ ruffiano ai gusti moderni…. fotografia ed immagini troppo da videoclip, che facevano colpo all’epoca di Spartacus, ma adesso noi telespettatori siamo più “scafati”..
Gli darò una seconda chance, nel senso che lo vedrò fino alla fine, in fondo parliamo di sole 8 puntate, ma non mi ha colpito come speravo…
Ho letto “American Gods” anni fa e all’epoca ho subito cercato informazioni sulla possibilità di una serie tv o di un film. Aspetto questa serie da tre anni. Nel frattempo, sto rileggendo il libro. Ho dunque le cosiddette “informazioni di prima mano”. Ovviamente, sono anche un’amante di Fuller, avendo visto Hannibal. Questo per dare un’idea delle mie aspettative. Da lettrice, ho amato moltissimo il pilot. Rende perfettamente le idee e le atmosfere del libro e, laddove se ne discosta, offre valide alternative narrative e visive. Shadow me l’immaginavo fisicamente diverso, ma non mi dispiace. Ian McShane è perfetto per la parte. Il pizzico di sangue e oscurità in più che aggiunge Fuller sono una piacevole alternativa, per me che ho letto il libro. Visionario come dev’essere. Non sono stata delusa. Il mio ragazzo il libro, invece, non l’ha letto, ma è stato catturato dalla serie da subito.